Doccia scozzese

Che in materia di diritti l’Europa sia un ginepraio si vede a occhio nudo. Che si parli di aborto, matrimonio gay, identità di genere, cambio di sesso, eutanasia, le differenze sono abissali. Ma come dobbiamo leggere questa diversità?

Una lettura molto comune è che i vari paesi si trovino in stadi diversi del cammino che li condurrà tutti, prima o poi, a riconoscere determinati diritti fondamentali, visti come mete di imprescindibili battaglie di civiltà. Un’altra lettura, vede il medesimo processo come una pericolosa deriva, che non afferma affatto la civiltà ma ne scandisce il declino. Quel che accomuna le due letture è l’idea che, comunque, la freccia del tempo punti in una direzione precisa, quella dell’espansione dei diritti. E che, essenzialmente, i vari paesi differiscano solo per la velocità con cui progrediscono (o regrediscono, a detta dei conservatori).

Ma siamo sicuri che la freccia del tempo punti in una direzione sola, quella dell’espansione dei diritti?

Fino a qualche anno fa lo si poteva ragionevolmente pensare, oggi molto più difficile. Segnali di rallentamento, o di vere e proprie inversioni di tendenza, si osservano in più di un paese, sia a livello legislativo, sia a livello di opinione pubblica. Il caso più clamoroso, probabilmente, è quello della Scozia, governata dal (progressista) Scottish National Party, prima con la carismatica leader Nicola Sturgeon (in carica per 10 anni), poi con il suo successore, l’ultra-progressista musulmano Humza Yousaf. Ebbene, nel giro di 15 mesi la situazione è completamente cambiata.

Alla fine del 2022 la Scozia aveva approvato il Gender Recognition Act, una legge che consente il cambiamento di genere (self-id) già a 16 anni, e senza pareri medici o legali. All’inizio di aprile di quest’anno è stato approvato lo Hate Crime Act, una legge che – sulla carta – punisce chi non riconosce come donne i maschi transitati a femmine (Mtf trans). Inoltre, da tempo veniva ventilata la possibilità di varare una legge molto permissiva sul suicidio assistito.

Apparentemente, una marcia trionfale per le battaglie di civiltà dei progressisti. In realtà le tappe di una vera débâcle. La legge sul self-id ha provocato una vivacissima reazione delle donne, compresa Joanne Rowling (l’inventrice di Harry Potter), preoccupate per l’invasione degli spazi femminili (comprese le carceri) da maschi auto-identificati come femmine. Di qui le repentine dimissioni della Sturgeon, benevolmente interpretate dai nostri media come sagge decisioni di una donna sopraffatta dalle fatiche del potere (la medesima interpretazione data per le dimissioni della Ardern in Nuova Zelanda e di Sanna Marin in Finlandia). Passa un anno, il Gender Recognition Act viene bocciato dal governo centrale britannico, e il successore della Sturgeon, Humza Yousaf, è costretto a sua volta alle dimissioni, travolto dall’ondata di critiche, ancora una volta guidate da Joanne Rowling, contro il potenziale liberticida dello Hate Crime Act, una legge in base alla quale – secondo alcuni attivisti trans – avrebbero dovuto finire in carcere quanti la pensassero come la Rowling, e – secondo altri – pure il premier Yousaf, che in passato si era prodotto in discorsi d’odio contro i bianchi (anche qui, l’interpretazione benevola è che il governo sarebbe caduto per dissensi con il partito dei Verdi sulla politica ambientale). Nel medesimo periodo, anche la Scozia, sulla scia dell’Inghilterra – deve frenare sulla somministrazione di bloccanti e ormoni ai minorenni, mentre i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è sempre più scettica sulla proposta di legge per facilitare il suicidio assistito.

Di qui due domande. Primo, siamo sicuri che, sul terreno dei diritti civili, la freccia del tempo punti ancora al loro ampliamento? Secondo, siamo sicuri che i leader progressisti abbiano il polso delle loro opinioni pubbliche?

L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda ciechi e potenzialmente autolesionisti. È successo con Sturgeon e Yousaf in Scozia. Ma era già successo in Italia con Enrico Letta e la battaglia perduta sul ddl Zan. E potrebbe risuccedere con Joe Biden fra qualche mese, alle elezioni presidenziali americane.

 [articolo uscito su La Ragione il 7 maggio 2024]




Cacciari filosofo superiore?

Vogliono mettersi fuori di sé stessi e allontanarsi dall’umano. La loro è una follia; invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie, invece di innalzarsi si abbassano (…) Abbiamo un bel montare sui trampoli, ma anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. Anche sul più alto trono del mondo, non siamo seduti che sul nostro culo

Montaigne

Con quell’empirica saggezza inglese detta anche common sense, il poeta Wystan H. Auden ha detto una volta che quando ci si dedica alla critica si dovrebbe, per onestà e chiarezza, dichiarare le proprie personali preferenze a proposito del mondo nel quale si vorrebbe vivere. Il critico dovrebbe dirci quale tipo di paesaggio, di clima, di governo, di architettura, di mezzi di trasporto e di comunicazione vorrebbe nel suo mondo ideale. Auden umoristicamente eccede per quantità di dettagli richiesti. Eppure la sua britannica stravaganza ha qualche utilità.

Avendo deciso di dedicarmi a giudicare Metafisica concreta di Massimo Cacciari, pubblicato nella Biblioteca Filosofica Adelphi (che contiene quaranta volumi di cui ben ventiquattro solo di Heidegger e Severino) sento il concreto bisogno di adottare almeno in parte il metodo di Auden. L’eventuale lettore di questo articolo potrà perciò farsi un’idea della distanza che c’è fra le singolari predilezioni filosofiche di Cacciari, professore e cultore della materia, e le mie preferenze filosofiche di dilettante. Mentre il professor Cacciari, ex sindaco di Venezia e ex deputato del Partito Comunista Italiano, ha una passione per la metafisica più astratta e per una politica personale piuttosto concreta, i miei saltuari e non professionali interessi vanno invece alla filosofia della conoscenza o gnoseologia, e alla filosofia morale, o teoria delle virtù e studio dei comportamenti. In fondo, più che la filosofia pura, mi attira la storia delle idee, meglio se un po’ mescolata con la storia sociale. La metafisica, intesa come “filosofia prima”, la considero viceversa una filosofia seconda o secondaria, che rischia sempre di trasformarsi in una illusoria immaginazione o in una truffa verbale, dato che si sottrae all’uso di concetti empirici. Della metafisica, in particolare quella eventualmente praticata oggi a imitazione degli antichi, credo che si debba diffidare fortemente a causa dei problemi gnoseologici e morali che crea, o dovrebbe presupporre. Che genere di conoscenza è quella proposta dal discorso metafisico? Su quale esperienza si fonda? Esiste, è possibile una conoscenza metafisica in forma filosofica? O invece la sola via di accesso alla metafisica è una via puramente contemplativa, più precisamente una gnosi supermentale e sovrasensibile?

Quanto alla filosofia politica, non ha o non dovrebbe avere nessuna autonomia, ma essere considerata solo un ramo e uno sviluppo della filosofia morale. Una vita politica giusta è concepibile solo come risultato di comportamenti individuali moralmente giusti. Le cosiddette virtù politiche, una volta separate dalle virtù morali, producono soltanto astuzie e sopraffazioni, passione per il comando e inganni. Personalmente diffido del tipo umano del politico. Non pochi geniali politici sono stati dei dittatori, dopo essere stati leader carismatici.

Volendo essere precisi, una metafisica può e dovrebbe essere considerata reale, più che concreta. Un principio metafisico può avere, in quanto causa, degli effetti concreti, ma non è concreto, trascende le dimensioni spazio-temporali e sensibili: può essere razionalmente, ma non empiricamente concepibile. Cacciari e la Biblioteca Filosofica Adelphi hanno scelto di ignorare la tradizione della filosofia inglese e americana, cioè l’illuminismo empirista di Locke e Hume, l’utilitarismo di Mill e il pragmatismo di James e Dewey. Come si fa a essere “concreti” se si cancellano i pensatori morali da Montaigne in poi e i filosofi che hanno studiato forme e limiti sia dell’intelletto umano che della natura umana? L’ontologia del “Dasein” di Heidegger è una filosofia di fantasmi inventata per eludere l’esistenza come esperienza conoscitiva e attiva.

Interessante, per chi fosse interessato alla carriera del Cacciari filosofo, è il suo punto di partenza, il cosiddetto “pensiero negativo” degli antihegeliani Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché il suo punto di arrivo teologico-metafisico. La passione di Cacciari per il lessico greco e tedesco infesta e polverizza il suo linguaggio rendendolo lessicalmente asfittico. Da grandi saggisti come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche e dal loro antihegelismo non ha imparato niente. In ognuno di loro sono chiare le ragioni personali del filosofare. Ma del perché Cacciari ci parli di metafisica non si viene a sapere niente. La sua non è una prosa filosofica vera e propria. Mentre i tre suddetti pensatori negativi erano anzitutto filosofi morali e per loro Hegel e Schelling erano ipocriti sofisti e impostori, Cacciari ha per la filosofia morale una specie di fobia, teme il moralista proprio perché potrebbe smascherare il suo filosofismo. Evidente è in lui la miseria linguistica della filosofia, usata come una solenne maschera geroglifica che nasconde il puro esibizionismo, l’inconsistenza argomentativa e l’ingorgo citazionistico. La sua prosa è senza forma né misura né ritmo né tono.

Una citazione a caso anche se esemplare (il libro infatti procede a caso): “Il Logos che parla in verità e che perciò ci è dato comprendere e comunicare senza tradirlo, questo è il Logos dell’Età presente, di questa Ora che non sa concepirsi come destinata a passare, Aiòn, Età che sempre più dichiara insuperabili e fino alla fine del tempo stesso, forme e significati della propria vita. Questo è Logos giudicante poiché esso discrimina chi sa da chi ignora, poiché a Lui, fin dall’origine, che lo si intenda trascendente, en archei, o immanente e agente in ogni momento del cosmo, tutto il Divino è stato comunicato. Senza il suo manifestarsi, il Divino continuerebbe a restarci ignoto, mentre ora possiamo goderne in verità. Gaudio, letizia che possono venire soltanto dal saperci nella sequela del Logos, dal sentircene membri, espressione necessaria della sua stessa sostanza, ‘guariti’ dal dubbio, forti di un credere inconfutabile, un credere che diviene irresistibilmente fede riposta nella potenza dello stesso sapere (…) È intorno a questo problema, più che a qualsiasi altro, che occorre intendere il dramma del nesso tra Atene e l’Europa o Cristianità” (pp. 12-13).

Qual è il problema? Il problema non è uno, sono almeno due: 1) il modo di scrivere di Cacciari, fatto per ostacolare se non impedire la lettura, e 2) la scelta della metafisica come tema inesauribile perché inaccessibile. Proprio quello che Cacciari cerca per non darsi una regola espositiva e una misura.

Poco rispettoso della filosofia accademica e del suo rimuginare su una tradizione plurisecolare, una volta Max Horkheimer disse che la metafisica è come il chewing-gum, che si può masticare all’infinito senza ricavarne né sapore né nutrimento. Nel caso di Cacciari c’è poi il fatto che il parlare di metafisica permette di non costruire una sintassi di concetti e di argomentazioni. La prosa dell’intero libro non è neppure una prosa, tantomeno una prosa filosofica. Oltre a essere una modalità del pensiero e della conoscenza (non l’unica), la filosofia è anche un genere letterario. In Italia se ne accorse e se ne fece un dovere Giacomo Leopardi all’inizio dell’Ottocento, curando la sua Crestomazia della prosa italiana e scrivendo le Operette morali. Antimetafisico e antiplatonico come era, nella sua affinità con David Hume, il più radicale degli empiristi, Leopardi vedeva e praticava la filosofia in forma di filosofia morale, di riflessione sulla forma del vivere individuale e sociale. Secondo lui la cultura italiana aveva bisogno di una buona e nuova prosa filosofica, senza la quale è impossibile una buona filosofia. Per Schopenhauer era metafisica niente di meno che la volontà di vivere, il rapporto con il proprio corpo e la sua energia cieca. Per Kierkegaard erano filosofici anche il suo amore per Regina Olsen e il suo disprezzo per il vescovo Mynster. Nel suo frullato di autori, di problemi, argomenti e terminologie, Cacciari tira avanti il libro per più di quattrocento pagine senza fare un passo né avanti (si può fare a meno della metafisica?) né indietro (dobbiamo tornare alla mistica?). Il suo solito metodo è evitare di fare citazioni abbastanza ampie da commentare e su cui riflettere: le sue sono soprattutto criptocitazioni da tutto e da chiunque. Riscrive e si appropria, non permettendo a chi legge di distinguere tra quello che Cacciari pensa e quello che cita o ruba, spezzetta e riusa. La sua è una specie di dislessia citazionistica che continuamente echeggia gran parte dell’intera tradizione filosofica: escludendo naturalmente gli ultimi secoli di pensiero antimetafisico, dall’umanesimo scettico all’illuminismo empiristico e materialistico, alle vere filosofie dell’esistenza e dell’esperienza, di cui Heidegger si è appropriato svuotandole di contenuto reale con i mantra del suo gergo ontologico. Metafisica concreta è un tentativo non riuscito di prendersi e tenersi tutto, l’astratto e il concreto, l’intuizione ontologica e una impropria teologia razionale, o meglio sonoramente raziocinante. Secondo il metodo di Socrate, si dovrebbe exetazein ton logon, cioè esaminare il discorso, il linguaggio di chi parla, come Cacciari, di un oggetto paradossale e insieme inconsistente come una metafisica che sia fuori di spazio e tempo, come ogni metafisica, ma nello stesso tempo sia dotata di contingenza e di attributi accessibili all’esperienza. Ma questo può accadere solo nella mistica, in cui un’esperienza concreta supermentale della metafisica la fa non essere più metafisica.

Cacciari punta tutto su una inguaribile dissipazione parafilosofica. Quando parla di politica, per quel tanto che conta, Cacciari si fa capire abbastanza. Quando entra invece nell’habitat filosofico perde la testa, si inebria, non connette più, o connette tutto con tutto, cita ed esalta perfino, non so perché, i Cantos di Ezra Pound, il più clamoroso e penoso fallimento poetico del secolo scorso. Più che un mistico in estasi sembra un professore intossicato di lessico filosofico. Mastica e rimastica ciò che cerca di dire e non dice. Ma l’indicibile è impossibile dirlo, si può solo sperimentarlo e non comunicarlo attraverso le parole.

Il problema è qui uno solo: perché il professor Cacciari sceglie la metafisica per fare filosofia? Perché si presenta come chi va oltre i confini della filosofia? Vorrebbe essere o apparire una mente così superiore da non poter abitare se non in un linguaggio che sfugga alla comprensione? La passione predominante di Cacciari è per la “filosofia prima”, teologia nonché escatologia o dottrina delle cose ultime. Si tratta insomma di quel forsennato e ridicolo snobismo culturalistico che aspira solo a frequentare i piani più alti e inaccessibili della realtà e del pensiero, lì dove abita solo Dio. Purtroppo però Cacciari non parla mai della sua fede in Dio e neppure del nesso che c’è fra metafisica e gnosi mistica. Quello della metafisica è un sapere assolutamente speciale che si fonda non sulla logica e sul discorso ma su un’esperienza supermentale. Si tratta di un sapere supremo raggiungibile solo da individui sommamente dotati di virtù contemplativa. Una filosofia dell’essere puro in quanto essere non è più una filosofia logica, ma il culmine di una filosofia morale, moralmente ascetica. Per “toccare” mentalmente l’essere, che non è un concetto ma una super-realtà, c’è almeno bisogno di essere onesti. Invece Cacciari manca proprio di onestà filosofica. In Occidente la metafisica è stata messa in discussione e onestamente respinta dai filosofi dell’Illuminismo, soprattutto da quello empiristico inglese, e infine da Kant. Se il termine “metafisica” viene da Aristotele, la sua origine concreta non è filosofica, è (come ha spiegato Giorgio Colli) dei “sapienti” presocratici, in particolare Parmenide, al quale il professor Emanuele Severino, rivale e simile di Cacciari, ripeteva che fosse necessario tornare, allo scopo di salvare l’Occidente dalla sua “follia”, la fede nel divenire. Solo che il divenire non è una fede, come diceva Severino, è un’esperienza.

Come si può intuire dagli stessi titoli dei suoi tre libri più ambiziosi, Dell’inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e questo conclusivo Metafisica concreta, le ambizioni di Cacciari sono sia smisurate che vane. Il suo stile dell’eccesso copre un vuoto, una “vanità” filosofica, dato che presuppone un sapere dell’alfa e dell’omega, una conoscenza assoluta di un oggetto assoluto: l’impensabile essere in quanto essere. Dell’inizio e della cosa ultima, di una metafisica che sia anche concreta, non sapremo filosoficamente mai nulla, e la pretesa di farne una filosofia dell’impossibile peggiora ulteriormente la situazione di Cacciari. Il quale ha da giocare una sola carta: il mito di sé stesso come filosofo superiore e in quanto tale non socializzabile. Ecco, questo dell’essere o sentirsi o mostrarsi superiore è la caratteristica che lo accomunò a Roberto Calasso e gli aprì le porte della Adelphi, trasformando il seguace dell’operaista gentiliano Mario Tronti in una specie di allievo di Elémire Zolla. Cosa che mi fa pensare non tanto a grandi metafisici o a mistici dell’antichità e del Rinascimento, ma piuttosto a un intellettuale del Novecento che Cacciari ha molto caro, cioè Carl Schmitt, giurista nazista, o per essere più concreti presidente dell’associazione dei giuristi del Terzo Reich. Dopo la caduta del regime hitleriano, Schmitt fu arrestato, processato e assolto, ma comunque costretto a ritirarsi a vita privata. Il fatto che avesse teorizzato come fondamento della Costituzione il Fuhrer lo rendeva infatti sospetto anche come eventuale docente di diritto e dottrina dello Stato. Quando Schmitt, al processo di Norimberga, fu interrogato come testimone dalla Pubblica Accusa, si espresse così:

“Sentendomi superiore, intendevo dare un senso mio personale al termine nazionalsocialismo”.

Pubblica Accusa: “Hitler aveva un nazionalsocialismo e lei ne aveva un altro?”.

Schmitt: “Mi sentivo superiore”.

Pubblica Accusa: “Si sentiva superiore ad Adolf Hitler?”.

Schmitt: “Infinitamente, dal punto di vista intellettuale. Il personaggio è così privo di interesse che preferisco non parlarne”.

Dire che Hitler è il fondamento dello Stato e dire nello stesso tempo che di Hitler è preferibile non parlare, ritrae alla perfezione l’ipocrita “uomo superiore” Carl Schmitt. Lo fa anche assomigliare molto a un altro idolo filosofico di Cacciari e della Adelphi: Martin Heidegger. Il quale, sentendosi anche lui superiore, si rifiutò sempre di nominare il nazismo e Hitler, pur avendolo fin dall’inizio esaltato come fondamentale evento storico nel destino della Germania. Schmitt e Heidegger sono le ombre sinistre che sembrano avere insegnato la superiorità a Cacciari; una superiorità astratta, vuota, metafisica e pure concreta. Altro che maestri del “pensiero negativo” come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, filosofi passionalmente autobiografici e in quanto tali ben presenti nelle loro opere. Nei libri di Cacciari l’autore pensante, l’io Massimo, non c’è, è assente e mai concreto. Troppo oltre per essere presente. Invece di essere onestamente presente nelle pagine della propria filosofia preferisce recitare da impaziente uomo superiore nei talk show.




Sul futuro di Medicina

È strano. Fiumi di inchiostro sono stati versati sul monologo di Scurati. Altri se ne sprecano quotidianamente per denunciare imminenti innumerevoli pericoli di ritorno del fascismo. Le frasi del generale Vannacci infiammano gli animi di tifosi e detrattori. Non passa giorno senza che si denuncino, non senza ragione, gli inaccettabili tempi di attesa del nostro sistema sanitario nazionale. Altre decine di temi, sempre quelli, occupano ripetutamente le pagine dei quotidiani.

Però c’è una questione di cui, stranamente, parliamo pochissimo, pur essendo cruciale per il futuro di tutti noi: la riforma dei criteri di ingresso a Medicina (e facoltà collegate). Se ne discute da tempo. In Commissione istruzione del Senato c’è un testo base, da cui presto dovrebbe scaturire un disegno di legge. I principali partiti hanno idee diverse. L’Associazione Nazionale Docenti Universitari (ANDU) non sposa nessuna delle proposte partitiche in campo, ed è estremamente critica con l’impostazione del testo base.

L’idea di fondo del testo base è di NON abolire il numero chiuso, che attualmente esclude circa il 70% degli aspiranti, e di sostituirlo con un sistema giudicato più equo (e da tempo usato in Francia con risultati assai controversi): tutti possono iscriversi al primo semestre del primo anno, ma proseguano solo quelli che – in quel primo semestre – hanno conseguito i risultati migliori.

Ma che significa risultati migliori?

Non è chiarissimo. Nel testo base si parla di raggiungere un determinato numero di CFU (crediti formativi universitari) nelle materie obbligatorie e caratterizzanti del primo semestre, cui però possono aggiungersi crediti acquisiti durante l’ultimo anno di scuola secondaria superiore. Se il numero di studenti a “pieni crediti” supera il numero di posti disponibili, la selezione dovrà avvenire in base a una “graduatoria di merito nazionale”, di cui tuttavia non si sa ancora come verrà costruita.

Le idee del testo base hanno sollevato diverse critiche e dubbi. C’è chi ritiene che il vero problema non sia l’accesso a medicina, ma l’accesso alle specialità post-laurea, e in particolare lo squilibrio fra struttura della domanda e dell’offerta di posti. C’è chi osserva che le università non hanno le strutture (aule e personale docente) per reggere l’urto di tutti gli aspiranti medico nel primo semestre. C’è chi ritiene che l’unico sistema di selezione equo sarebbe il sorteggio. E c’è chi, al contrario, vorrebbe eliminare il numero chiuso, come se il problema delle strutture insufficienti non esistesse. C’è chi si preoccupa del destino dei non ammessi al secondo semestre, e dell’impiego dei crediti comunque acquisti. C’è chi fa notare che, al momento, non sono previsti adeguati stanziamenti per sostenere la transizione dal vecchio al nuovo sistema. E l’elenco delle criticità potrebbe continuare a lungo.

Per quanto mi riguarda, ho letto i documenti principali prodotti dalla Commissione e dall’ANDU e l’impressione che ne ho ricavato è che l’iter della legge sarà lungo e accidentato, e difficilmente ne verrà fuori qualcosa di funzionante. A giudicare dal resoconto dei lavori, sembra che si vada avanti concedendo qualcosa a ogni forza politica coinvolta, rinunciando a un disegno organico e coerente, perché qualsiasi disegno di questo tipo scontenterebbe troppi soggetti coinvolti. Un po’ come accadde tanti anni fa (2009), quando la Lega rinunciò al suo progetto di federalismo fiscale (discutibile ma coerente) per incassare la benevolenza della sinistra, senza rendersi conto che la ricerca ossessiva del compromesso avrebbe spento ogni spinta riformatrice.

Non so come andrà a finire, ma penso che delegare completamente il tema della riforma di Medicina alle manovre dei partiti non favorirà la nascita di una legge funzionante. È vero che è un tema molto tecnico, che non consente di prendere posizione sull’asse fascismo-antifascismo che tanto appassiona gli intellettuali, ma resto dell’idea che, sulle cose che contano – ad esempio la soglia del numero chiuso e i criteri di accesso – sia meglio che anche l’opinione pubblica abbia modo di dire la sua. La libera stampa serve anche a questo.

[articolo uscito su La Ragione il 30 aprile 2024]




Calabresi story e la generazione Z

Ansiosi, asociali ma anche straordinariamente benestanti rispetto a tutte le generazioni che li hanno preceduti. Ecco l’identikit degli “Zoomers”, i nati tra il 1997 e il 2012, secondo l’Economist, uno dei più importanti settimanali anglosassoni.

Gli Zoomers hanno meno di 27 anni. Che mondo lavorativo si trovano di fronte? Una vasta prateria dal punto di vista occupazionale rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Dal 1991 la disoccupazione giovanile nel mondo ricco non è mai stata così bassa. 

Il reddito spendibile della Generazione Z è più alto di quello delle generazioni che li hanno preceduti: l’Economist cita oltre a una marea di dati corroboranti la tesi, un esempio “pop”. Il concerto di una beniamina degli Zoomers, la 21enne Oliva Rodrigo. Non solo il costo del biglietto costava centinaia di dollari. Ma c’erano code per accaparrarsi magliette per la modica cifra di 50 dollari.

Gli Zoomers sono la generazione più ricca di sempre. Parliamo di 250 milioni di persone: stanno superando nel mondo del lavoro i baby boomers che essendo ultra sessantenni si stanno avviando verso la pensione. Sono anche la generazione a cui chi finanzia le imprese sta guardando di più. 

In una conferenza al Salone del Risparmio, l’ex direttore de La Stampa e de La Repubblica, Mario Calabresi, figlio dell’ex Commissario Luigi Calabresi ucciso da militanti di Lotta continua, lo ha candidamente confessato.

Perchè uno come lui con un lavoro sicuro lascia tutto per andare a lavorare in una start-up diventando imprenditore? Calabresi, oggi Ceo di Chora Media, la regina in Europa dei podcast, lo spiega così durante la conferenza Selfie: che investitore sei? organizzata da UBS con ospiti davvero uno più interessante dell’altro.

Dopo 10 anni passati a dirigere giornali, avevo visto molto deteriorarsi il business model dell’editoria tradizionale e soprattutto avevo visto che l’età media di chi leggeva i giornali era sempre più alta e non parlava più con chi aveva vent’anni e chi aveva trent’anni”. Insomma, di chi parla Calabresi? Degli Zoomers, gli stessi di cui parla l’Economist. E fa autocritica.

​Non puoi pensare – se sei un giornalista o il direttore di un giornale – che non stai parlando alla parte più attiva della società. “Soprattutto perché quando avevi a che fare con gli sponsor pubblicitari – ricorda Calabresi – ti chiedevano: trentenni e quarantenni quanti ne abbiamo? Io rispondevo: pochissimi, però abbiamo un sacco di settantenni e ottantenni.

Calabresi teme di essere sulla lunghezza d’onda della generazione sbagliata e a quel punto si prende un anno sabbatico. Ha cinquant’anni e ancora vent’anni prima della pensione. Viaggia in Europa e negli Stati Uniti. Cerca di capire nell’editoria cosa è in crescita, quali sono i trend di lungo periodo. Scopre che nel mondo, dalla Gran Bretagna al Brasile alla Spagna, sono i contenuti audio che stanno crescendo. In Italia però i contenuti audio non sembrano essere così popolari.

Calabresi si chiede “È un problema di domanda o di offerta?” Sono gli italiani gli unici a cui in tutto il mondo non interessano i contenuti audio o non li ascoltano perché i contenuti non sono all’altezza? Diventa imprenditore. Nel 2021 ricorda Calabresi Chora Media faceva 1 milione di ascolti, negli ultimi 12 mesi la società di cui Calabresi è diventato CEO lasciando un lavoro sicuro per fare l’imprenditore ha fatto 100 milioni di ascolti.

Chi ascolta i podcast di Chora Media? Gli Zoomers (quelli con meno di trent’anni) e i 40 enni, il pubblico per cui Calabresi voleva rendersi appetibile con contenuti editoriali.

La fascia di lavoratori, la generazione Z, che in America sta diventando come abbiamo visto più numerosa. Quella con il reddito spendibile più alto di tutte le generazioni che l’hanno preceduta. E quella con lo stipendio più in crescita ricorda l’Economist: “in America la crescita della retribuzione oraria tra i giovani di età compresa tra i 16 e i 24 anni ha recentemente raggiunto il 13% su base annua” racconta il quotidiano anglosassone “rispetto al 6% per i lavoratori di età compresa tra 25 e 54 anni.

La generazione Z è anche quella più richiesta dal mondo del lavoro come racconta il settimanale Economist parlandoci della Grecia “Il tasso di disoccupazione giovanile della Grecia è diminuito della metà rispetto al suo picco. Gli albergatori di Kalamata, destinazione turistica, lamentano una carenza di manodopera, qualcosa di impensabile solo pochi anni fa.”

Certo anche questa generazione ha i suoi problemi: asociali e ansiosi, secondo Jonathan Haidt, uno psicologo sociale della New York University, che ha dedicato loro un libro in cui li ha dipinti come una generazione un po’ triste, mi verrebbe da dire. “I giovani di oggi hanno meno probabilità di formare relazioni rispetto a quelli di ieri – scrive Haidt nel libro “The Anxious Generation” – Hanno maggiori probabilità di essere depressi o di dire che alla nascita gli è stato assegnato il sesso sbagliato. Hanno meno probabilità di bere, fare sesso, avere una relazione, anzi, di fare qualcosa di eccitante e trascorrono in media solo 38 minuti al giorno a socializzare di persona.”​

Però, hanno un sacco di soldi, di possibilità di lavoro e sono così potenti da convincere un professionista “arrivato” come l’ex direttore de La Stampa e Repubblica Mario Calabresi a confezionare qualcosa di “adatto” per loro.

Può essere che qualcosa, in pochi anni, sia cambiato così velocemente e non ce ne siamo accorti?

Se avete figli o nipoti di 12, 14, 16, 20, 25 anni pensate a cosa possono permettersi loro e quale capacità di spesa hanno, a quali consumi attingono e fate un confronto con i soldi, i consumi e le cose che noi cinquantenni, sessantenni e settantenni ci permettevamo alla loro stessa età.

È un confronto impietoso.




Il 25 aprile e del perché a scuola in Italia si fanno 3 volte i Sumeri ma mai la Seconda Guerra Mondiale

In questi giorni, mentre leggevo i resoconti della manifestazione del 25 aprile a Milano, ho avuto come una presa di coscienza.

Mi sono infatti sempre chiesto, prima da studente e poi da genitore, per quale motivo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado viene fatta studiare la storia antica – vale per i Sumeri come per l’antico Egitto – sia alle elementari che alle medie che nelle superiori, mentre, più ci si avvicina alla contemporaneità, lo zelo degli insegnanti si affievolisce e gli avvenimenti del ’900 non sono oggetto di uno studio altrettanto serrato e scandito.

In particolare, poi, la Seconda Guerra Mondiale rappresenta una specie di tabù: al massimo si arriva ai cosiddetti suoi prodromi, e difficilmente lo studente medio italiano sa come è andata realmente a finire.

Sarà colpa dei programmi, dipenderà dagli insegnanti, a cui manca il tempo necessario alla fine dell’anno scolastico, pensavo.

Ma poi, leggevo che alle manifestazioni per il 25 aprile in tutta Italia le piazze sono state egemonizzate o comunque pesantemente condizionate da chi chiedeva il cessate il fuoco ovunque, in Ucraina come a Gaza, denigrando gli americani, la NATO, gli ebrei e la brigata ebraica; ed assistevo ai distinguo, ai complicati giochi verbali di chi in questo paese – compreso chi ci governa – non riesce a dirsi antifascista.

Ecco, allora ho, per la prima volta, nitidamente capito che la moratoria sulla Seconda Guerra Mondiale, la circostanza che la guerra di liberazione dal nazifascismo e la resistenza in Italia non venga studiata a scuola, non è affatto casuale: il tacito patto di non affrontare quelle pagine di storia – che dovrebbero costituire invece il fondamento della nostra comunità nazionale – è funzionale affinché ogni parte politica, ogni fazione possa sostenerne la sua versione, in una logica da tifosi, senza il fastidio di dover tenere in conto la realtà.

La verità dei fatti, per chi la vuole intendere, è d’altra parte ormai piuttosto nota.

Il ventennio fascista ha rappresentato un regime orribile, fatto di oppressione, di violenza, in cui è stata conculcata ogni più elementare forma di libertà: ed è bene sapere che oltre alla pizza, al bel canto, alla moda e al made in Italy, nel mondo la stessa parola fascismo ha purtroppo il nostro copyright.

Così com’è ormai storiograficamente accertato che il regime nazifascista è stato sconfitto in Italia dalle forze alleate, dagli angloamericani. Si calcola che siano morti in Italia per liberarci poco meno di 100.000 soldati americani, e complessivamente gli alleati (tra cui americani e britannici, ma anche polacchi, brasiliani, neozelandesi, ecc.) ebbero circa 313.000 “casualties” (tra morti, feriti, dispersi o prigionieri): si tratta di numeri di molto superiori alle forze e alle perdite partigiane, che militarmente ebbero un ruolo residuale.

In altre parole, e per essere chiari: senza i partigiani, gli alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli alleati, la resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.

D’altra parte, come ebbe a dire Churchill: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”. Insomma, è ormai acclarato che la resistenza non fu affatto un movimento di popolo, ma interessò una porzione molto limitata della popolazione al Nord del paese, e fu un fenomeno eterogeneo, in cui spinte ideali si mischiarono a regolamenti di conti, condotta da chi voleva fare la rivoluzione anche in Italia e quanti volevano invece semplicemente tornare a fare una vita normale.

Di certo ci fu anche un senso di riscatto civile e morale: ma l’Italia democratica e la Costituzione più bella del mondo furono anche frutto di contingenze geopolitiche.

Non sarebbe l’ora che queste cose, per come sono effettivamente andate, iniziassimo finalmente a dircele e a farle studiare ai nostri ragazzi? (con buona pace dei Sumeri, di cui sappiamo già tutto)