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Il governatore De Luca e il senso comune

4 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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C’è una certa ripetitività, selettività e pure teatralità, nelle fiammate retoriche che accompagnano ogni femminicidio che abbia guadagnato l’attenzione dei media. Il caso di Martina Carbonaro, la quattordicenne uccisa a sassate dal suo fidanzato quasi diciannovenne, non fa eccezione. Fotografie sui giornali, interviste ai genitori della vittima e dell’assassinio, fiumi di indignazione da parte di scrittrici e giornaliste, costernazione del mondo politico, accuse al governo per non aver ancora varato l’unico (presunto) rimedio efficace: l’educazione sessuo-affettiva obbligatoria a scuola, fin dalle elementari.

C’è una differenza, però – una sola ma importante – nell’ultima vicenda, quella della povera quattordicenne di Afragola: il battibecco, andato in scena a Napoli, fra il governatore Vincenzo De Luca e Valeria Angione (una autoproclamata influencer). La pietra dello scandalo è stata una frase di De Luca in cui faceva notare l’anomalia di un fidanzamento che la ragazza uccisa (14-enne) aveva iniziato a 12 anni, con un ragazzo molto più grande di lei.  De Luca è stato immediatamente interrotto e stigmatizzato in quanto il suo commento avrebbe scaricato sulla vittima la colpa del suo carnefice, che – secondo la Angione – l’avrebbe uccisa “perché maschio”.

Ma De Luca non si è lasciato intimidire, e ha aggiunto un invito: “direi a quelli della mia generazione di essere padri e madri, non finti giovani”.  Poi la discussione è proseguita burrascosamente, e De Luca ha affrontato di petto il tema più scabroso, cioè il doppio problema della libertà della donna e della prudenza.

“In genere c’è un dibattito anche sul modo di presentarsi. Siamo libere, la donna deve presentarsi come vuole, mettersi mezza nuda… Nessuno deve dire nulla. Non c’è dubbio, io ho il diritto di fare quello che voglio (…) Poi ti posso dire, da padre, che forse, siccome abbiamo un mondo nel quale ci sono persone con un po’ di disturbi, un po’ di fragilità, è ragionevole avere un po’ di prudenza? Non contesto il tuo diritto, ti dico cerchiamo di essere umani, e di capire la realtà, altrimenti moriamo di ideologismi”.

Apparentemente, niente di nuovo. Discussioni di questo tipo ci sono sempre state dopo femminicidi, violenze sessuali, stupri. Da una parte c’è chi dice che, per ridurre i rischi, le ragazze farebbero bene a vestirsi in modo sobrio, non frequentare determinati luoghi, non rientrare da sole a notte fonda, non ubriacarsi o drogarsi in discoteca. Dall’altra c’è chi, di fronte a simili raccomandazioni, dice che equivalgono a colpevolizzare la vittima, accusandola di “essersela andata cercare”.

Qual è la novità dunque?

La novità sta nelle reazioni. Mentre i principali media hanno reagito nel solito modo, facendo intendere che le parole di De Luca avevano fatto scoppiare una polemica, il pubblico della rete ha reagito in un unico modo: dando pienamente ragione a De Luca. Nel giro di poco tempo, sul sito di Fanpage (notoriamente progressista) sono piovuti più di 1000 commenti (con circa 300 mila visualizzazioni del battibecco), la stragrande maggioranza dei quali schierati con il governatore della Campania, e non di rado ultra-critici con la Angione. Personalmente non avevo mai incontrato, visitando i siti che pubblicano uno scambio polemico, una simile unanimità di reazioni.

Morale. Ci sono questioni che sono controverse solo sui media, mentre la gente ha le idee chiarissime. Sono solo gli scrittori, gli intellettuali, i giornalisti, i conduttori tv, i politici che si dividono su frasi come quelle di De Luca. Perché la gente sa benissimo che raccomandare a una bambina di non comportarsi come una imprudente “femme fatale” non significa affatto giustificare i suoi possibili stupratori o assassini, ma semplicemente cercare di abbassare la probabilità che qualcuno le faccia del male. La gente lo sa perché, quando si tratta di cose serie (e i femminicidi lo sono), non usa l’ideologia ma il senso comune: una facoltà intellettiva che il circo mediatico sembra aver completamente smarrito.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 giugno 2025]

Disegno di legge sul femminicidio – Più o meno padre?

3 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Il disegno di legge sul femminicidio torna a far parlare di sé, come già era successo qualche mese fa, al momento del suo annuncio. Con una novità: il ritorno di argomenti paleo-sessantottini contro l’uso del diritto penale come mezzo di contrasto di determinati delitti. Il ragionamento è sempre lo stesso: il fenomeno (in questo caso il femminicidio) è complesso, le sue cause sono sociali e culturali, le misure repressive sono inefficaci, dobbiamo prevenire, non reprimere (su questa linea, in particolare, si sono mosse un’ottantina di giuriste che hanno proclamato la loro contrarietà al disegno di legge).

Si tratta di un fatto nuovo perché, al momento della presentazione, il testo di legge aveva invece goduto di un sostegno bipartisan. L’8 marzo, a un convegno femminista cui ero stato invitato, mi era accaduto di ascoltare non pochi interventi a favore delle nuove norme (che non riguardano solo l’introduzione del reato di femminicidio) anche da parte progressista. Più in generale, la maggior parte delle critiche inizialmente formulate erano state di natura tecnica (difficoltà di stabilire quando una donna viene uccisa “in quanto donna”) o di tipo costruttivo (mancanza di risorse economiche adeguate). Ora non più. Forse per la concomitanza con il disegno di legge sicurezza, i toni si vanno facendo sempre più aspri. Il disegno di legge sul femminicidio, che peraltro – oltre alla definizione del nuovo reato – contiene numerose norme di contrasto alla violenza di genere, viene attaccato in quanto repressivo e perciò stesso inefficace. Nell’appello delle giuriste, ad esempio, con considerevole spregio delle regole delle scienze sociali, si afferma apoditticamente che “osservando la realtà, si può constatare come qualsiasi intervento repressivo svincolato da azioni di perequazione sociale ed economica e da strategie di prevenzione, di tipo innanzitutto culturale, risulti del tutto inefficace”. E da più parti si torna ad ascoltare il mantra dell’educazione sessuale/sentimentale nelle scuole, vista come via maestra per sradicare il patriarcato. Una strada che piace alla sinistra, ma non convince la destra, timorosa che i corsi di educazione sessuale/sentimentale si trasformino in strumenti di propaganda della cosiddetta “teoria gender” e dei diritti LGBTQ+.

Al di là delle polemiche di questi giorni, la realtà è che sulle radici dei femminicidi, e quindi sui mezzi per combatterli, vi sono idee di fondo molto diverse, e non sempre riducibili alla contrapposizione fra progressisti e conservatori. Per alcuni la radice del male è il carattere patriarcale della nostra società, e il canale di trasmissione è soprattutto l’educazione, o meglio la mancanza di educazione all’affettività e al rispetto. Di qui l’idea che, essendo impossibile imporre modelli educativi alle famiglie, sia innanzitutto la scuola che debba farsi carico del problema, fin dal ciclo primario. Dietro ogni femminicidio, vi sarebbe un maschio cui non è stato insegnato il rispetto della donna, della sua autonomia, libertà e dignità.

Per altri, invece, le cose stanno un po’ diversamente. Una parte dei femminicidi sarebbero quasi ineliminabili, in quanto riconducibili a condizioni psichiatriche o drammi esistenziali dei loro autori. Mentre la quota maggiore sarebbe frutto di autori apparentemente “normalissimi”, accomunati dalla incapacità di accettare un rifiuto oi sopportare le “pretese” di indipendenza della partner. Di qui l’idea che il punto cruciale non sia l’insegnamento del rispetto, bensì la capacità degli adulti (genitori e insegnanti innanzitutto) di comportarsi da adulti, esercitando l’autorità che il loro ruolo educativo comporta. Perché il problema del maschio che uccide la donna che dice di amare è che non è stato abituato a ricevere dei no, a rispettare dei limiti, ad accettare rinunce, a differire la gratificazione.

Anche se a prima vista possono sembrare due prospettive simili, o quantomeno compatibili, si tratta in realtà di due modi di vedere le cose opposti. Per gli uni il problema è che la nostra società, nonostante mezzo secolo di lotte e di conquiste delle donne, resta una società maschilista (ingenuamente e impropriamente definita patriarcale), per gli altri il problema è l’evaporazione della “funzione paterna”, espressione con la quale psicanalisti e psicologi sociali intendono l’esercizio dell’autorità e l’insegnamento del desiderio, lacanianamente incompatibile con il godimento immediato. Insomma: per i primi nella società c’è troppo padre, per i secondi ce n’è troppo poco.

Di qui la diversità di prescrizioni: per gli uni solo la scuola, con i corsi di educazione sentimentale, può sperare di raddrizzare il legno storto del maschilismo; per gli altri il compito della scuola è semmai di tornare a essere una cosa seria, e quello dei genitori di tornare a fare i genitori, anziché – come troppo spesso accade – i sindacalisti dei figli.

Chi ha ragione?

Sfortunatamente non vi sono abbastanza dati per confermare o confutare le due teorie, anche se qualche indizio empirico esiste. Ma è importante che dell’esistenza di queste due linee di pensiero si prenda atto, e sulle radici culturali del femminicidio si avvii una riflessione di ampio raggio, aperta e senza pregiudizi. Perché la posta in gioco è alta: se davvero vogliamo battere questo obbrobrio, dobbiamo capire qual è la strada che può dare più frutti.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 maggio 2025]

Sorpasso? – Il circolo vizioso dell’economia italiana

28 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Qualcuno, nei giorni scorsi, si è entusiasmato per i dati appena rilasciati dalla Commissione Europea sulle varie economie del continente. Soprattutto i media che si occupano di economia non si sono fatti mancare i titoli più roboanti: “Pil pro capite, l’Italia raggiunge la Francia; “Pil pro capite, l’Italia cresce e raggiunge la Francia”; “l’Italia raggiunge la Francia per ricchezza pro capite”, “balzo del Pil pro capite italiano che raggiunge quello francese”, “il Pil pro capite dell’Italia ha raggiunto la Francia e superato Giappone e Regno Unito”.

La notizia non è del tutto falsa ma, parafrasando Mark Twain, è un tantino esagerata. Intanto va detto che quello di cui si parla non è il Pil dell’Italia (che è molto inferiore a quello della Francia), e neppure il Pil pro capite (che è un po’ inferiore), ma il Pil pro capite a parità di potere di acquisto (ossia tenendo conto del livello dei prezzi, che sono un po’ più bassi in Italia), che è la migliore misura del benessere economico raggiunto da un paese.

Questo indicatore effettivamente si avvicina a quello francese, ma – secondo le principali fonti statistiche – nel 2024 resta tuttora un po’ al di sotto. L’eventuale aggancio o sorpasso è semplicemente una previsione, o una speranza, che riguarda l’anno in corso, che non è ancora neppure arrivato a metà.

Poco male, si dirà. L’importante è la tendenza, se non succederà quest’anno sarà l’anno prossimo che finalmente scavalcheremo i cugini d’oltralpe. In effetti, può darsi benissimo che accada. E tuttavia il punto è che questa contabilità non sembra tenere nel debito conto il meccanismo complessivo che alimenta la nostra rincorsa.

Ed ecco il meccanismo. Da 10 anni, ovvero dal 2014, l’Italia perde popolazione, perché l’immigrazione non basta a bilanciare il calo demografico. La Francia, invece, continua ad aumentare la sua popolazione (anche grazie ai sussidi economici alle nascite). Questo significa che, mentre il Pil francese si spalma su una popolazione sempre più grande, con conseguente rallentamento del Pil pro capite, il Pil italiano si spalma su una popolazione sempre più piccola, con conseguente accelerazione del Pil pro capite. In 10 anni, dal 2014 ad oggi, l’Italia ha perso quasi 1 milione e mezzo di abitanti, la Francia ne ha guadagnati 2 milioni e mezzo. In breve: in Italia la demografia sostiene la crescita del Pil pro capite, in Francia la rallenta.

Ma a noi che ce ne importa? si potrebbe obiettare. Dopo tutto quello che conta non è il volume del Pil, ma il Pil per abitante. La prosperità di un paese si misura sul tenore di vita del cittadino medio, non sulla grandezza del prodotto interno lordo. Paesi come l’Islanda, il Lussemburgo, la Svizzera se la passano benissimo anche con un Pil (complessivo) relativamente piccolo.

Questo è vero, ma non fa i conti con un dettaglio cruciale: il rapporto debito pubblico/Pil, che è basso in Islanda, Lussemburgo e Svizzera, ma è altissimo in Italia. Un paese che punti, come sembra fare l’Italia, non sulla crescita del volume del Pil ma solo sul Pil pro capite, può permettersi una strategia del genere se ha un debito pubblico modesto, ma non se quest’ultimo è alto. Perché, ai fini della tenuta di conti pubblici, quel che conta non è il benessere del cittadino medio, ma la massa economica complessiva del paese, che è l’unico serbatoio da cui attingere per pagare gli interessi sul debito pubblico.

Detto in altre parole: un paese indebitato che perde popolazione si troverà via via più in difficoltà a ripagare il suo debito pubblico perché i debiti contratti quando aveva tanti abitanti dovranno essere saldati da una popolazione di discendenti sempre meno numerosa.

E non è tutto. Il circolo vizioso dell’economia italiana non è puramente demografico ma anche, per così dire, produttivo. I modesti incrementi del Pil degli ultimi anni sono ottenuti mediante una formula alquanto problematica: una produttività calante compensata da cospicui incrementi occupazionali o, se preferite, cospicui incrementi occupazionali vanificati da una produttività calante. In breve: il calo demografico e l’aumento dell’occupazione assicurano una certa tenuta del benessere, di cui il Pil pro capite a parità di potere di acquisto è l’indicatore sintetico; ma la crescita del Pil è frenata dal ristagno della produttività, che rende sempre più difficile pagare il debito pubblico accumulato in decenni di finanza allegra.

[articolo uscito sulla Ragione il 27 maggio 2025]

Cherry picking

26 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che ogni governo si sforzi di enfatizzare i buoni risultati che ha ottenuto, e ogni opposizione metta in evidenza i punti critici è fisiologico. E tuttavia, in tanti anni di osservazione della società italiana, non mi era mai capitato di assistere a tanta intransigenza statistica. Le forze di governo sciorinano numeri confortanti, talora trionfali, le opposizioni elencano disastri e non riconoscono al governo nemmeno un risultato positivo.

La cosa interessante è che le tecniche argomentative utilizzate dagli uni e dagli altri sono le stesse, e si riducono a tre trucchi fondamentali. Il primo è il cosiddetto cherry picking (scegliere le ciliegie), che consiste nel selezionare solo le statistiche che supportano la propria tesi, e ignorare tutte le altre. Il secondo è la manipolazione dei termini di paragone: se vuoi dire che l’economia va bene (o va male) ti scegli i paesi e gli anni che supportano la tua tesi. Il terzo è l’attribuzione al governo in carica di risultati – positivi o negativi – maturati in decenni.

Di questi trucchi, specie dopo la pubblicazione del rapporto Istat, abbiamo avuto innumerevoli esempi. Al governo che rivendicava con orgoglio la crescita occupazionale (1 milione di posti di lavoro in 2 anni) è stato obiettato che il nostro tasso di occupazione è il più basso d’Europa, come se questo dato negativo non fosse da ascrivere ai governi precedenti. In materia di potere di acquisto dei salari l’opposizione ha voluto vedere solo il fatto che siamo ancora sotto il livello pre-covid, mentre il governo ha voluto vedere il fatto che nell’ultimo anno il potere di acquisto sta risalendo. Sullo spread la premier è incappata in una clamorosa cantonata (non è vero che un basso spread significa che “i nostri titoli di stato sono più sicuri di quelli tedeschi”) ma l’opposizione si è solo accanita sulla gaffe, ignorando accuratamente la sostanza, ovvero che i conti pubblici sono più in ordine che con il governo precedente.

Sull’immigrazione il governo ama fare il confronto 2024 su 2023 (diminuzione degli sbarchi), l’opposizione preferisce il confronto 2023 su 2022 (aumento degli sbarchi).

Ma come stanno effettivamente le cose? Arrivati a metà legislatura possiamo tentare un bilancio realistico, non troppo di parte?

Se guardiamo ai grandi parametri dell’economia, mi pare vi siano – nei primi due anni di governo – almeno tre successi difficilmente contestabili: la creazione di oltre 1 milione di posti di lavoro, la diminuzione del peso delle posizioni precarie (tempo determinato e part-time involontario), il crollo dello spread, con conseguente miglioramento del rating dell’Italia (appena confermato da Moody’s).

A fronte di tali successi, non si possono nascondere almeno altrettanti risultati poco soddisfacenti: l’aumento della pressione fiscale, la diminuzione della produttività, l’insufficiente recupero del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza contare la diminuzione della produzione industriale, su cui hanno inciso le politiche europee e la recessione in Germania.

Se dai problemi dell’economia passiamo alle questioni sociali, il quadro non è meno variegato. Gli sbarchi sono cresciuti nel 2023 rispetto al 2022, ma sono crollati nel 2024. Quanto alla povertà e all’esclusione sociale, i relativi indicatori durante il governo Meloni non sono molto diversi da quelli ereditati dal governo Draghi. Né granché si può dire della sanità e delle liste di attesa, cavallo di battaglia dell’opposizione, che sono un problema annoso ma difettano di statistiche sintetiche, capaci di cogliere in modo accurato i mutamenti che intervengono di anno in anno.

Se, infine, proviamo a collocare le cose in una prospettiva più lunga, non possiamo non notare che i grandi trend dell’economia e della società italiana prescindono dal colore dei governi. Perché il nostro problema numero uno, quello che rende illusorie le promesse di tutti i governi, è quello della produttività, che ristagna da almeno 30 anni e impedisce ogni progresso nel tenore di vita del paese. E il nostro problema numero 2, il calo demografico, è così grande e gravido di conseguenze (sulla previdenza e sulla sanità), che difficilmente può essere affrontato con successo da un solo governo e in una sola legislatura.

E’ il combinato disposto di questi due giganteschi problemi che alimenta il circolo vizioso dell’economia italiana: il ristagno della produttività impedisce agli incrementi occupazionali di tradursi in aumenti significativi del reddito;  la diminuzione della popolazione fa sì che quei modesti incrementi di reddito si spalmino su una base sempre più ristretta, con apparente lieve sollievo della popolazione rimasta nel paese; la tenuta del Pil pro capite nasconde il rallentamento del volume del Pil, che è il denominatore del rapporto debito/Pil, parametro cruciale per il governo di conti pubblici.

Forse, almeno su queste due grandi e vitali questioni – produttività e demografia – non sarebbe male che i partiti, tutti i partiti, provassero a definire una strategia condivisa.

[Articolo uscito sul Messaggero il 25 maggio 2025]

Elezioni in Romania e corruzione

23 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Il caso delle elezioni in Romania ha suscitato molte discussioni nel resto d’Europa, Italia compresa. La lente con cui se ne è parlato è sostanzialmente questa: da una parte c’è un pericoloso candidato di estrema destra, sovranista, populista, trumpiano e anti- europeo, George Simion; dall’altra c’è il sindaco di Bucarest, colto (è un matematico), democratico, progressista, europeista, Nicușor Dan. La speranza degli europeisti è che l’annullamento dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali (dicembre 2024), in cui aveva vinto un candidato vicino a Simion (Călin Georgescu), non si riveli un boomerang, finendo per consegnare la vittoria proprio a Simion, ossia al candidato che di Georgescu aveva preso il posto.

Ora sappiamo come è andata. I timori di una vittoria dell’estrema destra euroscettica si sono dissipati (forse anche grazie a una mobilitazione anti-Simion di tanti astensionisti abituali), il nuovo presidente Dan assicurerà la lealtà all’Unione Europea e alla Nato.

Fin qui il racconto dominante. Un racconto che, ai miei occhi, appare alquanto riduttivo. O meglio troppo “UE-centrico”. Sembra quasi che quel che è andato in scena in Romania domenica scorsa sia solo un referendum pro o contro l’Unione Europea. O, peggio, uno scontro fra democrazia e tentazioni neo-fasciste.

Due sono le fonti della mia perplessità. La prima è, per così dire, puramente politologica: credo sia estremamente riduttivo leggere l’avanzata della destra in Europa come risultato di tentazioni neo-fasciste. Troppe cose dividono i programmi dei moderni partiti etichettati come “di estrema destra”, dai programmi dei partiti fascisti e nazisti del passato. Prima fra tali cose l’atteggiamento verso la guerra, che oggi è pacifista e anti-militarista, mentre ieri era espansionista e guerrafondaio. Dare del fascista a un candidato atipico e decisamente discutibile come Simion, mi pare una forzatura.

Ma la fonte di perplessità maggiore è un’altra: mi capita spesso di ascoltare i racconti di rumeni che da anni vivono in Italia (talora indicati come “diaspora romena”), e di constatare che le priorità dei loro discorsi sono diverse, talora molto diverse, da quelle che vediamo riferite sui grandi media italiani. Per i “rumeni d’Italia” il problema fondamentale della Romania è la corruzione, che viene raccontata in termini molto più drammatici di quelli che capita di leggere sui media italiani. Non c’è solo la corruzione nel sistema sanitario, che costringe i cittadini a pagare con mance, mazzette e regalie il diritto a essere curati. Ci sono anche due altri importantissimi meccanismi corruttivi, di cui in Europa occidentale si parla poco. Il primo è che, spesso, occorre pagare per essere assunti nella pubblica amministrazione: il posto non si ottiene per merito, ma si compra. Il secondo è l’uso distorto dei copiosi fondi europei che, secondo molti rumeni, troppe volte sono stati distribuiti in modo clientelare e hanno permesso arricchimenti personali illeciti. Per non parlare dello stato del sistema scolastico, che colloca la Romania all’ultimo posto in Europa e che alcuni – forse esagerando – considerano (per alcuni specifici aspetti) peggiore di quello vigente ai tempi della dittatura comunista di Ceaușescu.

Detto in termini semplici: molti rumeni all’estero, proprio perché vedono con i loro occhi come si vive nei paesi dell’Europa occidentale, sono estremamente critici con l’establishment che ha governato il paese negli ultimi 35 anni, e aspirano a un cambiamento radicale (meno corruzione, più istruzione), senza il quale – anche quando lo desidererebbero – sono ben poco disposti rientrare in Romania.

La cosa interessante è che la lotta alla corruzione è in cima ai programmi di entrambi i candidati, il vincitore europeista Nicusor Dan e il perdente euroscettico George Simion. Quel che ha spinto tanti elettori a scegliere Dan e tanti altri a scegliere invece Simion non è solo il grado di fiducia nell’Unione Europea, ma anche il grado di fiducia nella capacità dei due candidati di risolvere davvero il problema numero 1 della Romania, ossia di smantellare l’enorme macchina della corruzione che da tanti decenni attanaglia il paese. C’è chi ha creduto che Dan fosse più adatto di Simion, e chi ha creduto che il più adatto fosse Simion e non Dan. E ci sono pure quanti, pur avendo scelto uno dei due, restano scettici perché temono che nessuno sarà veramente capace di cambiare la Romania.

Viste da questa angolatura, le accuse a Simion di nostalgie fasciste appaiono alquanto fuori bersaglio. Più ragionevole, forse, è pensare che fra quanti lo hanno votato molti l’abbiano fatto semplicemente perché hanno ritenuto che, proprio in quanto più anti-sistema e meno compromesso con la burocrazia di Bruxelles, avesse maggiori possibilità di estirpare la corruzione.

[articolo uscito sulla Ragione il 20 maggio 2025]

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