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Società

ChatGPT – Gli imposturati autorevoli e la Superluna

22 Agosto 2023 - di Paolo Musso

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L’articolo di Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/) sull’esperimento da lui condotto insieme ad alcuni colleghi con ChatGPT (che qui chiamerò, come lui, semplicemente Chat) mi ha lasciato così sbalordito che finalmente mi sono deciso a fare anch’io un piccolo esperimento che avevo in mente da tempo e che continuavo a rimandare.

Posso già anticipare che i risultati non solo hanno confermato quelli di Ricolfi e soci, ma, se possibile, sono stati ancor più sconcertanti. Per riferirli e commentarli in dettaglio, tuttavia, ci vorrà qualche giorno, perché il discorso è abbastanza complesso.

Nell’attesa, vorrei porre un’altra questione, molto più semplice, ma non meno sconcertante: perché così tante persone autorevoli si sono fatte imposturare da Chat? (Mi scuso per il termine desueto, ma la colpa è di Ricolfi: se avesse definito Chat “imbroglione” anziché “impostore” avrei potuto cavarmela con un più ordinario “imbrogliati”.)

Perché è successo. E sta ancora succedendo, anche se una certa calmata generale c’è stata, passato il primo shock ed emerse le prime critiche. Ma temo che riguardi più la forma che la sostanza.

Non ho tempo né voglia di mettere insieme un florilegio di citazioni a conferma di ciò, ma confido che non sia necessario e che tutti ricordino ancora le dichiarazioni dei primi che avevano provato Chat.

Tra gli apocalittici c’era chi si dichiarava ”sconvolto”, chi “terrorizzato”, chi diceva che bisognava metterlo subito fuori legge e staccargli la spina prima che ci facesse fuori tutti: insomma, sembrava che fosse apparso Skynet in persona artificiale e che fosse solo questione di (poco) tempo prima che al suo fianco comparisse anche Terminator.

Tra gli integrati, al contrario, era tutta una gara a profetizzare le meraviglie che avrebbe portato l’avvento di un’era in cui le macchine avrebbero risolto tutti i nostri problemi tranne quello di come fare a non annoiarci, con tutto quel tempo libero a disposizione.

Nel mezzo c’erano i rassegnati, i quali, in piena sindrome di Stoccolma, tra un sospiro e una lacrima trattenuta a stento ma anche no, ci spiegavano che, certo, a loro questa svolta non andava giù, che avrebbero sempre rimpianto i bei tempi umani andati, ma, appunto, ormai sono andati, or non è più quel tempo e quell’età, e via, bisogna crescere, anche se è tanto triiiiisteee, ma bisogna accettarlo, siamo noi quelli sbagliati, Chat è il progresso, bellezza, e tu non puoi farci niente.

Su una cosa, però, tutti e tre i gruppi erano d’accordo: Chat era davvero intelligente, anzi, più intelligente di noi, o forse, beh, non ancora, ma lo sarebbe diventato molto presto, comunque sia cambiando l’ordine degli algoritmi il risultato non cambia e noi umani finiremo inevitabilmente in una prigione dorata o in una prigione-prigione o in una prigione di rimpianti, secondo il caso, ma in ogni caso verremo messi da parte e insomma la Singolarità è dietro l’angolo o magari c’è già stata e noi non ce ne siamo accorti perché viviamo dentro la nostra Matrix personale, pietosamente creata da Chat perché possiamo continuare a illuderci di contare ancora qualcosa.

(Per chi non lo sapesse, la Singolarità sarebbe il momento in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella umana. Sempre per chi non lo sapesse, la teoria è stata inventata dall’informatico Raymond Kurzweil il quale, avendo da sempre una fottuta paura di morire, spera che le macchine lo renderanno immortale trasformandolo in un programma per computer. Ma se volete continuare a crederci ignorate pure questa informazione: dopotutto la teoria è assurda di per sé stessa e se la cosa non vi fa problema perché mai dovrebbe turbarvi questo insignificante dettaglio?)

Ho esagerato? Sì, forse un po’. Ma solo un po’, e comunque non ne sono neanche tanto sicuro. Sia come sia, la domanda resta: come è possibile che nella vicenda di Chat così tanti abbiano agito in modo così assurdo?

La domanda ricalca (non casualmente) quella che avevo posto all’inizio del mio articolo conclusivo sulle vicende del Covid (https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/). Ma è anche la stessa che si potrebbe porre sulla guerra in Ucraina. O sul politically correct. O sulla crisi ecologica. O su pressoché qualsiasi altra cosa stia accadendo in questo nostro assurdo tempo. E, come già per il Covid, esistono molte risposte parziali, ma nessuna pienamente soddisfacente.

Perché sì, è vero, l’intelligenza artificiale, essendo a base matematica, funziona molto meglio con la scienza, per cui è probabile che chi ha testato Chat in contesti scientifici abbia ottenuto risultati migliori. Tuttavia, gli scienziati non vivono sempre nei laboratori e avrebbero dovuto accorgersi che al di fuori di essi Chat si trasforma nell’impostore (neanche tanto) autorevole descritto da Ricolfi.

Ed è anche vero che altri hanno usato su di lui gli algoritmi di valutazione che ormai si usano in molti contesti per valutare le prestazioni degli esseri umani e se si usa  un algoritmo per confrontare le prestazioni di un uomo con quelle di un algoritmo non è sorprendente che quest’ultimo goda di un certo vantaggio. Tuttavia, non dovrebbe essere tanto difficile capire che se un produttore seriale di fake news supera un test, ciò non promuove lui, ma boccia il metodo di valutazione usato.

Ma, soprattutto, la maggior parte delle persone che si sono dette convinte della natura intelligente di Chat non appartenevano a queste categorie, ma erano persone normali che avevano interagito con lui parlando di cose della vita ordinaria: quelle in cui Chat se la cava peggio.

E quindi ritorna la domanda: perché?

Mentre pensavo a tutto questo, mi è venuto in mente che poco tempo fa avevamo assistito a una vicenda analoga, benché per fortuna assai più innocua: è stato lunedì 31 luglio, quando c’è stata la “Superluna”.

Il fenomeno è causato dal fatto che la Luna, come tutti i corpi celesti, si muove su un’orbita ellittica, per cui quando si trova nel punto più vicino alla Terra (perigeo) appare un po’ più grande, mentre quando si trova nel punto più lontano (apogeo) appare un po’ più piccola. Quando la Luna è piena mentre si trova vicina al perigeo, si ha la Superluna.

Tuttavia, la Luna nel cielo appare grande come una moneta e la differenza tra la minima e la massima dimensione apparente è di appena 1/12, cioè la stessa che c’è tra guardare un pallone da calcio da 72 o da 80 metri di distanza. È difficile credere che qualcuno possa percepirla a occhio nudo, tanto più con la nostra scarsa abitudine a osservare il cielo notturno. E meno ancora si può credere che qualcuno possa percepire la differenza tra la Superluna e le quasi-Superlune del giorno prima o di quello dopo, che è praticamente nulla. E infatti la Superluna si verifica regolarmente ogni due o tre mesi fin dall’età della pietra e mai nessuno ci ha fatto caso.

O meglio, mai nessuno fino a qualche anno fa, quando improvvisamente tutti i giornali e le televisioni, sempre a caccia di sensazionalismi idioti da sparare in prima pagina, hanno cominciato a “pomparla” con toni esagitati e completamente staccati dalla realtà.

Risultato: moltissima gente che non l’aveva mai fatto prima si è improvvisamente messa a guardare la Luna. E questo sarebbe anche un fatto positivo, ancorché ottenuto con mezzi impropri. Ma la cosa incredibile sono state le reazioni. Ho visto al telegiornale persone che si dichiaravano “sconvolte”, parlavano di “emozione unica”, quasi si mettevano a piangere in diretta, alcune erano addirittura spaventate…

Ora, queste emozioni non potevano essere state causate dalla Superluna, perché, stante ciò che ho detto prima, ai nostri occhi la Superluna è indistinguibile da una qualsiasi Luna piena “normale”, che non ha mai sconvolto nessuno, a parte Giacomo Leopardi e (forse) qualche coppietta di innamorati particolarmente su di giri. Eppure, erano emozioni assolutamente sincere. Dunque da che cosa erano state causate?

L’unica risposta possibile è: dall’aspettativa di provarle, generata dalla pressione mediatica. In parole povere, siccome giornali e tv avevano detto che si sarebbe trattato di uno spettacolo unico che avrebbe causato forti emozioni, la gente, o almeno parte di essa, si è per così dire “sentita in dovere” di provare quelle emozioni e così ha finito col provarle realmente.

Ebbene, credo che con Chat sia successa la stessa cosa.

Da decenni, infatti, tutti i media, non solo giornali e tv, ma anche e soprattutto la letteratura e il cinema di fantascienza, ci bombardano in continuazione con la “previsione” che le macchine un giorno saranno più intelligenti di noi e con la descrizione di tutte le cose sconvolgenti che ciò “inevitabilmente” causerà.

Così, i primi che hanno interagito con Chat inconsciamente “si aspettavano” che fosse intelligente e, sia che lo sperassero, sia che lo temessero, si sono comunque “sentiti in dovere” di vedere in lui dei segni di intelligenza e di provare determinate emozioni, benché tutto ciò non avesse alcun rapporto con la realtà che avevano di fronte.

Che questo meccanismo perverso abbia coinvolto anche persone colte, intelligenti e autorevoli, facendo sì che si lasciassero bellamente abbindolare da quell’impostore di Chat, la dice lunga su quanto grave e onnipresente sia ormai diventata la frattura tra ragione e realtà e su quanto ci abbia resi vulnerabili ai tentativi di manipolarci, perfino a quelli più scemi.

Alla prossima per i risultati dell’esperimento e per intanto buon Chat a tutti!

Umanizzazione del software e professione dello psicologo – L’impero del verosimile

16 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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Quando chiacchiero con una psicologa o uno psicologo che esercita la professione (anziché limitarsi a far lezione all’università), immancabilmente registro la medesima credenza: che il paziente, per guarire, abbia necessità di interagire sistematicamente con il terapeuta. Fino a qualche tempo fa, questi discorsi tendevano ad escludere, limitare, o sminuire il ruolo degli psicofarmaci, tipicamente somministrati dai neurologi. Oggi è diverso: lo spettro che si aggira sulle professioni dell’aiuto psicologico non è la concorrenza delle cure neurologiche, ma quella delle applicazioni dell’intelligenza artificiale.

La possibilità che in futuro i pazienti accettino di farsi curare da un chatbot – ossia da un programma che conversa più o meno amabilmente con loro – o da un avatar dello psicologo, che si presenta con il medesimo aspetto del terapeuta ma è animato da un algoritmo soggiacente, non è affatto una eventualità remota. Verso questo esito, infatti,  sospingono e convergono almeno tre grandi processi storici.

Il primo è la crescente tendenza dei pazienti a fidarsi di tutto ciò che trovano in rete, senza la mediazione di operatori umani. Se sei abituato a curare l’insonnia, la gastrite, o il mal di testa consultando direttamente uno degli innumerevoli siti di consigli medici, sei già predisposto ad accogliere con entusiasmo qualsiasi programma che, presentandosi in vesti umane, renda ancora più agevole la tua ricerca di una cura.

Il secondo processo storico è la perdita della capacità di distinguere ciò che è vero da quel che è solo verosimile, o spudoratamente fake. Ma forse sarebbe più esatto dire: la perdita di interesse per la distinzione fra reale e artificiale, fra autentico e artefatto. Se un video è divertente, a nessuno interessa che sia reale o inventato. Se Musk e Zuckerberg, padroni rispettivamente di Twitter e Facebook, si affrontano in un sito archeologico, a nessuno interessa se combattono per finta o per davvero. Se un film piace, a pochi importa che i protagonisti siano attori in carne e ossa, o siano invece attori virtuali generati da un software di grafica 3D (da tempo esiste la tecnologia per far recitare attori scomparsi).

Del resto, è l’evoluzione stessa della tecnologia che rende sempre più velleitaria l’antica pretesa di distinguere il vero dal fake. È dei giorni scorsi la notizia che una donna americana è riuscita a scoprire i tradimenti del fidanzato con un software capace di trasformare la voce della donna stessa in quella di uno specifico maschio: è bastato assumere l’identità vocale di un amico del fidanzato fedifrago per farsi raccontare la scappatella. E basta giocare per qualche ora con ChatGPT per rendersi conto di quanto la produzione di informazioni verosimili ma false stia diventando la norma della comunicazione online.

Il terzo processo che mette a repentaglio il futuro professionale degli psicoterapeuti è il meno facile da intercettare, ma è il più pericoloso. Poco per volta, e per ora in modo appena percettibile, ci stiamo abituando a umanizzare il software, o meglio i personaggi virtuali con cui il software basato sull’intelligenza artificiale cerca di sedurci. Non mi riferisco solo agli assistenti virtuali, come Alexa (Amazon) e Siri (Apple), che da tempo dialogano amabilmente con noi e ci accompagnano nei gesti della vita quotidiana. Il vero “salto di umanizzazione” lo fanno i programmi di intelligenza artificiale che si presentano direttamente come persone, con tanto di sentimenti, capacità di dialogo, amicizia, empatia. È il caso di Replika, un chatbot nato alla fine del 2017 che – a pagamento – può fornire all’utente un partner “romantico”, con tendenza a virare sul sessualmente molesto. Negli Stati Uniti ci sono casi di donne che lo hanno usato per trovare (si può dire così?) il compagno ideale, fino all’innamoramento e alla pagliacciata di celebrare un “matrimonio” con il partner virtuale.

Il punto interessante non è che il chatbot riesca a interagire come un essere umano, che sappia corteggiare, molestare, chiedere foto sessualmente esplicite, ma che milioni di utenti (non si sa esattamente quanti) lo usino, e siano disposti a pagare per farlo passare dallo stadio dell’amicizia a quelli più spinti del corteggiamento, della pornografia, dell’adescamento. In breve: la attribuzione al software di caratteristiche umane, e la connessa disponibilità a impegnarsi in relazioni sentimentali ed emotive con chatbot più o meno spregiudicati, non è un rischio del futuro, ma una realtà perfettamente attuale. Perché accada che lo psicoterapeuta, lo psicanalista, lo psichiatra vengano rimpiazzati da un chatbot-psicologo, meno costoso e sempre a disposizione, non occorre costruire una macchina in grado di provare sentimenti: basta che sempre più esseri umani imparino a credere che lo sia.

ChatGPT – L’impostore autorevole

12 Agosto 2023 - di fondazioneHume

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Quando si parla di ChatGPT – il programma che fornisce risposte istantanee su quasi tutto lo scibile umano – di solito scatta lo schema: molto comodo e interessante, ma non infallibile. Come dire: quasi sempre ChatGPT fornisce una risposta corretta, ma alle volte può incorrere in infortuni più o meno clamorosi. Quindi state attenti, controllate anche altre fonti, eccetera.

Questa visione delle capacità e dei limiti di ChatGPt è ancora quella dominante in Italia, e in parte anche all’estero. Ma è profondamente errata. Del tutto errata, direi. Perché presuppone che Chat (d’ora in poi userò l’abbreviazione) sia programmato per soddisfare un utente che cerca la verità, solo la verità, e non desidera ricevere informazioni false.

Questa, alla luce del funzionamento effettivo di Chat, è una credenza decisamente ingenua. Come ha notato qualche mese fa Tim Harford sul Financial Times, Chat non è programmato per generare affermazioni vere, ma per fornire risposte verosimili, ossia risposte che possano essere credute vere, anche a costo di inventarle di sana pianta. In questo senso, nota Tim Harford, Chat è la perfetta realizzazione di un concetto messo a punto dal filosofo statunitense Harry Frankfurt in un celebre saggio-pamphlet degli anni ’80, significativamente intitolato Bullshit (letteralmente: stronzate): quello della proliferazione incontrollata di affermazioni campate per aria ma verosimili, ovvero plausibili.

Ecco, in passato eravamo soli a raccontare, millantare, inventare storie, per gli scopi più diversi: far impressione su una ragazza, essere ammirati dai nostri amici, mostrare competenza davanti ai colleghi, in generale intrattenere gli astanti. Ora non più, ora interagiamo con un software che si comporta con noi come noi ci comportavamo con i nostri interlocutori. Lo scopo di Chat non è dirci la verità, ma farci credere di conoscerla. Impressionarci con la sua competenza. Catturare la nostra fiducia e la nostra attenzione, come peraltro si intuisce dallo stile estremamente accattivante, amichevole, personalizzato, gentile, per non dire seduttivo, con cui interagisce con noi.

Mi rendo conto che le mie sono affermazioni molto forti, e poco condivise (almeno in Italia). Ma ho le prove. Un mare di prove. In questo primo articolo su Chat ne fornirò un piccolo campionario, raccontando rapidamente l’esito di alcune interrogazioni.

Con alcuni amici professori universitari abbiamo provato a interrogare Chat su noi stessi e le nostre pubblicazioni. Ebbene, il risultato tipico sono notizie biografiche (data e luogo di nascita) del tutto false, e una lista di pubblicazioni (con tanto di rivista, numero di pagine, eccetera), tutte o quasi tutte inesistenti. Ma, attenzione: quando interrogo Chat su me stesso, i miei campi di interesse sono ben individuati, e i libri e gli articoli che mi vengono attribuiti potrei benissimo averli scritti io. Insomma non c’è un bit di verità nel profilo che Chat mi attribuisce, ma non c’è nulla di inverosimile.

O meglio: non c’è nulla di inverosimile nella lista delle mie pubblicazioni finché la interrogazione avviene da una postazione a Cambridge, in Inghilterra. Ma se ripeto l’interrogazione da una postazione in Italia, escono libri che non solo non ho scritto, ma non avrei mai potuto scrivere: ad esempio: Volemose bene. Chi ha detto che gli italiani sono furbi?, e Amore liquido all’italiana. Posso solo congetturare che una routine “generativa” di Chat mi abbia classificato come giornalista (anziché come sociologo e docente di Analisi dei dati) e mi abbia assegnato pubblicazioni nello stile di certo giornalismo creativo.

Più interessante il caso di mia moglie Paola Mastrocola, che di mestiere fa la scrittrice. Qui Chat sembra adottare la tecnica dei pentiti quando vogliono depistare le indagini, cioè: mescolare fatti veri con fatti inventati ma verosimili. I romanzi citati sono tre: uno vero (Non so niente di te), uno esistente ma di un’altra scrittrice italiana (Lei così amata, di Melania Mazzucco), l’altro anch’esso esistente ma della scrittrice britannica Kerry Hudson (Tutti gli uomini di mia madre).

Potrei continuare con altri esempi. Se chiedi una bibliografia su un dato argomento, può succederti di ottenere una lista con decine di saggi inesistenti, eppure indicati con precisione per rivista, data, numero di pagine. Se chiedi qual è l’articolo di economia più citato di tutti i tempi (ci ha provato l’economista David Smerdon), puoi ottenere un titolo del tutto plausibile (A Theory of Economic History), con due autori a loro volta plausibili (Douglas North e Robert Thomas), e una rivista ospite più che appropriata (Journal of Economic History), salvo scoprire che l’articolo non è mai stato scritto. Non esiste. È la risultante di una routine di Chat, che ha messo insieme elementi effettivamente esistenti per combinarli in una risposta plausibile, senza alcun riguardo alla verità della risposta stessa.

E non è tutto. Ho provato a interrogare Chat sul pensiero di alcuni autori italiani controversi, come Pasolini e don Milani. Il risultato è sconcertante. Le risposte di Chat sembrano il risultato di un processo deduttivo in due stadi: primo, si classifica l’autore dal punto di vista ideologico-culturale; secondo, gli si attribuiscono i pensieri che è ragionevole attendersi in base a come è stato classificato. Pasolini era progressista, quindi era a favore del divorzio (sappiamo invece che è vero il contrario). Don Milani era un educatore illuminato, quindi doveva amare la letteratura antica e lo sport come strumenti di crescita personale (anche qui sappiamo che non è così).

Il caso di Don Milani è particolarmente interessante, perché Chat non solo risponde in modo errato a domande specifiche sul priore di Barbiana, ma ne traccia un profilo del tutto fantasioso. Dopo avergli assegnato tutte le credenze tipiche delle pedagogie progressiste dei nostri giorni, ne segnala il libro Lettera a un professore, che conterrebbe un dialogo con lo storico Adolfo Omodeo. Rimbrottato da me, Chat mi risponde scusandosi, ammettendo che Don Milani non ha affatto scritto Lettera a un professore, ma si guarda bene dal segnalare che – invece – ha scritto Lettera a una professoressa.

Tornerò, in altri articoli, sul funzionamento di ChatGPT. Quel che vorrei sottolineare fin da ora, però, è il suo status epistemico: ChatGPT non è un algoritmo che persegue più o meno imperfettamente la verità, ma un dispositivo che – quando non conosce la verità – si comporta come un affabulatore (Treccani: Affabulatore = persona che narra in maniera affascinante e abile, o che racconta storie affascinanti ma poco fondate o totalmente infondate). In poche parole: un impostore. O meglio: un impostore autorevole, che tale resterà finché ci ostineremo a credergli.

Strage di Bologna – Il silenzio degli innocentisti

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Nel 43-esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”.

In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità?

In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”.

Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali.

Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché.

Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso?

L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita.

Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità?

Sinistra in tilt

3 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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Sulla gestazione per altri (o utero in affitto), appena proclamata “reato universale” da un voto della Camera dei deputati, la sinistra è andata in tilt. I suoi due leader principali, Schlein e Conte, non se la sono sentita di partecipare al voto. E i suoi intellettuali annaspano. Michele Serra, ad esempio, dichiara che con il voto della Camera “un’opinione è diventata legge”. E evoca lo “stato etico” (di gentiliana memoria), contrapponendolo allo stato liberale.

Ma è un errore logico grossolano, che farebbe inorridire i grandi maestri del pensiero liberale, a partire da Isaiah Berlin. Il fatto che un’opinione in materia etica possa diventare legge è parte integrante della logica delle società liberali, che si distinguono dai regimi proprio perché assumono che, su questioni fondamentali, possano scontrarsi concezioni, valori, visioni del mondo inconciliabili.  Fra le quali è inevitabile che la legge, attraverso il Parlamento o il voto popolare (referendum), operi una scelta.

È successo in modo esemplare ai tempi del referendum sull’aborto. In quell’epoca (anni ’70) le opinioni inconciliabili erano quelle dei cattolici, per i quali il feto è una persona, e quindi l’aborto è un omicidio, e quelle dei laici, per i quali l’aborto non è un omicidio, ma una libera scelta della donna. In quel caso, a diventare legge fu l’opinione dei laici, che con la legge 194 del 1978, riuscirono a imporre il loro punto di vista. E a nulla valse, qualche anno dopo, il tentativo del Movimento per la vita di imporre il punto di vista dei cattolici con il (fallito) referendum abrogativo.

In breve, come non vi era nulla di illiberale nella legge che rese ammissibile l’aborto, imponendo ai cattolici il punto di vista dei laici, così non vi è nulla di illiberale nelle leggi (presenti e future) che vietano la gestazione per altri, imponendo agli ultra-laici il punto di vista di quanti – non solo cattolici – considerano inaccettabile la pratica dell’utero in affitto.

Perché, dunque, tanto scalpore e tanto imbarazzo nel mondo progressista?

Credo che il motivo sia sottile, ma molto potente. La ragione per cui la gestazione per altri mette in difficoltà lo schieramento progressista è che incrina irrimediabilmente il racconto che, almeno dalla caduta di Renzi in poi, la sinistra ha scelto per dar forma alla propria immagine. Quel racconto era basato sostanzialmente su un principio: sostituire le grandi, storiche, battaglie per i diritti sociali con nuove, grandiose, battaglie per i diritti civili, pensate – e qui sta il punto cruciale – non come lotte di una parte politica contro un’altra, bensì come epiche “battaglie di civiltà”, condotte in nome di diritti universali, contro l’oscurantismo e la barbarie. Cittadinanza agli immigrati, unioni civili, diritti Lgbt, leggi contro l’omotransfobia, norme su eutanasia e fine vita, tutto ciò per cui il mondo progressista si batteva era pensato nel registro “civiltà contro barbarie”. Era una forzatura, certo, ma era retoricamente sostenibile, perché quelle battaglie erano condotte in nome di valori forti e abbastanza largamente condivisi, come l’apertura al diverso e la libertà individuale.

Ma con l’utero in affitto, come la mettiamo?

Improvvisamente, il mondo progressista ha sperimentato, come in parte era già successo con il Ddl Zan, che le sue proposte non erano inquadrabili nel racconto standard degli ultimi anni, quello di una ennesima “grande battaglia di civiltà” da condurre contro retrogradi e nemici della ragione. Era troppo evidente che, nella gestazione per altri, c’è qualcosa che non va: la mercificazione del corpo della donna, ad esempio, o la separazione del bambino dalla madre. Di qui l’imbarazzo di Schlein e Conte.

Ai quali mi permetto di dare un consiglio: anziché demonizzare la destra, riconoscete che la faccenda è complessa, e lasciate libertà di coscienza ai vostri parlamentari.

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