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Società

Abbagli statistici – Sul gender gap

8 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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L’altra sera, parlando in un talk show, un autorevole (e consueto) ospite informava, in polemica con la destra, che l’Italia – in un solo anno, fra il 2023 e il 2024, aveva perso ben 9 posizioni (su 146) nella classifica generale che il World Economic Forum stila ogni anno per misurare i progressi delle donne nella parità di genere: una chiara dimostrazione del fatto che il governo Meloni, il primo guidato da una donna, stava facendo arretrare la condizione delle donne.

L’episodio è interessante perché illustra bene, oltre alla faziosità di tanti commentatori, la loro dabbenaggine in materia statistica. Mi sono preso la briga di controllare come viene costruito l’indice di parità di genere (il cosiddetto GGG, o Global Gender Gap index), che dovrebbe misurare quanto un paese si avvicina a una situazione di completa parità di genere, ed ho potuto constatare alcune cose ben note agli analisti dei dati, ma quasi sempre ignorate dagli opinionisti.

Primo, l’indice è costruito combinando in modo largamente arbitrario alcune decine di indicatori più semplici. In assenza di una teoria e di una definizione solida di parità di genere non può che essere così, ma sarebbe meglio non dimenticare mai questo limite costitutivo.

Secondo, alcuni indicatori cruciali (ad esempio il gap salariale) mancano per parecchi paesi, o sono calcolati su sottoinsiemi di paesi privilegiati (paesi Oecd), anziché rispetto a tutti i paesi presi in considerazione.

Terzo, e questo è il vero colpo di scena, se si vanno a vedere le cifre inserite nelle schede di ogni paese si scopre quel che dovrebbe essere ovvio a priori, ma che nessuno pensa mai: se un report, come quello sul GGG index, esce a giugno di un dato anno, è impossibile che abbia i dati dell’anno corrente, che è tuttora in corso, è difficile che abbia i dati dell’anno prima, che usciranno poco per volta nell’anno in corso, è verosimile che per buona parte degli indicatori abbia solo i dati di due anni prima. Dunque il confronto tra 2023 e 2024 di cui abbiamo letto sui media quest’estate, e che il nostro incauto opinionista ha tardivamente ripetuto in tv, è in realtà – essenzialmente – un confronto fra 2021 e 2022, ossia fra il primo e il secondo anno del governo Draghi. Se proprio vogliamo fidarci dei calcoli del World Economic Forum quel che dobbiamo concludere non è che con Meloni le cose si sono messe peggio per le donne, ma che – dal punto di vista della parità di genere – il secondo anno di Draghi è stato peggiore del primo.

Dunque assolta Meloni, e sotto accusa Draghi?

Neanche per sogno. O meglio sì, se ci piace credere ai giochetti statistici del World Economic Forum, ni se ne dubitiamo.

Per parte mia non vi credo per niente, non solo per ragioni matematico-statistiche (l’arbitrarietà della formula che combina gli indicatori), ma per la graduatoria che ne vien fuori. Stiamo alla classifica 2024, in realtà per lo più relativa al 2022. Fra i 10 paesi più virtuosi, oltre a vai paesi europei del Nord, troviamo Namibia e Nicaragua, ma non Danimarca, Regno Unito, Svizzera. L’Albania occupa il 23° posto, non solo davanti all’Italia (che è addirittura 87-esima), ma davanti a paesi come Australia, Canada, Stati Uniti. L’Italia, in Europa, è preceduta da quasi tutti i paesi UE, ma anche da Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Moldova, Macedonia del Nord, oltreché – come già ricordato – dall’Albania. Quanto al continente africano, ci superano di decine di posizioni paesi come Mozambico, Burundi, Rwanda, Liberia, Swaziland, Zimbabwe, Tanzania, Botswana.

Ok, può darsi che Draghi ci abbia portato un po’ giù, ma mi sembra poco verosimile che in soli 2 anni, dal 2020 (report 2022) al 2022 (report 2024) l’Italia abbia perso ben 24 posizioni (dal 63° all’87° posto, 4 posizioni più in basso dell’Uganda). Più ragionevole è prendere atto che il GGG index e i molti (costosissimi) indici costruiti con il medesimo approccio pasticciato ed empirista siano come il film La corazzata Potëmkin: “una boiata pazzesca”.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 gennaio 2025]

Rubrica A4 – Sentire le due campane sì, ma che non siano stonate

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia si assiste a una proliferazione di talk show, di dibattiti televisivi sulle questioni politiche interne e internazionali che fanno pensare a una maturità civica e a un interesse per la cosa pubblica invidiabili. In qualche canale, dopo il tg, finita una tavola rotonda, ne comincia subito un’altra, spesso con gli stessi attori protagonisti. In genere, la formula ‘vincente’ (sic!) è: ‘tutte le ragioni, tutte le opinioni’ ma a, ben riflettere, si dovrebbe dire: “tutte le opinioni, tutte le fazioni”. E’ un notevole passo avanti che vengano invitati tutti, in omaggio al dovere di ‘sentire sempre le due campane’, senonché quel principio finisce spesso per diventare l’occasione di risse da bar insopportabili. Ciò dipende dal fatto che, in mancanza dei grandi intrattenitori e comici televisivi   d’antan, gli insulti, le accuse di malafede, le insinuazioni sul piano personale degli attori in  scena ‘fanno spettacolo’, indipendentemente da quel che dicono o si dicono. Il curatore della trasmissione, onestamente, non nasconde affatto da che parte sta ma questo finisce per essere irrilevante. Ciò che conta, invece, è che politici e giornalisti, quasi sempre incompetenti, grazie alla comparsata televisiva ottengono visibilità e ..’prestigio’ (chiamiamolo così). Quanto dicono sono fesserie per chi non condivide le loro opinioni ma sono perle di saggezza per gli altri. E alla fine—ed è ciò che davvero importa—, per citare Mcluhan,”il medium è il messaggio”, e il contenuto del messaggio non è l’elemento decisivo nella comunicazione. Chi prenderebbe in considerazione certe Erinni della carta stampata o certe passionarie della politica o certi residuati bellici del 68, se non comparissero regolarmente sul teleschermo? “Con quella bocca possono dire tutto ciò che vogliono” giacché ogni scarafone ha diritto a dire la sua e l’importante, poi, è che milioni di telespettatori stiano lì a sentirlo (il fatto che il conduttore della trasmissione tv mostri il suo  disaccordo è ininfluente).

Siamo seri, almeno con l’anno nuovo! Meno politica spettacolo e più informazione attendibile e controllata. Si riducano, una buona volta, gli spazi del battibecco politico e, anche se al di fuori delle opere di maggiore ascolto, si faccia conoscere quanto sta avvenendo in Ucraina, nel Medio Oriente, a Gaza, nelle città europee e americane vittime del terrorismo islamico.  Specialmente in area anglosassone, non mancano riviste di relazioni internazionali che mostrano la realtà prismatica di quanto accade nel mondo, nè mancano studiosi (di diverse aree politiche e culturali) che si sono dedicati alla ricerca e che possono dire cose interessanti sulla politica, sull’economia, sulla cultura dei paesi in guerra. Non dico di stare a sentire ‘soltanto’ John J. Mearsheimer (rimasto dopo la morte di Samuel P. Huntington il più prestigioso political scientist degli Stati Uniti) : le sue idee, infatti, fanno a pezzi le interpretazioni dei conflitti in corso riportate dai grandi quotidiani nazionali; si invitino anche quegli storici e quegli scienziati politica che non la pensano come lui ma che hanno scritto articoli e saggi notevoli, in grado di mostrarci ogni volta ‘l’altra faccia della medaglia’.

 Non è possibile che quando, per caso, sul piccolo schermo appare un sociologo come Marzio Barbagli—o  un giurista del prestigio di Sabino Cassese- si debba pensare: ”finalmente il parere  di un esperto!”. Nelle trasmissioni dedicate alla politica, infatti, dovremmo sempre ascoltare i ‘compe-tenti’, affiancati da giornalisti seri, in grado di porre domande intelligenti e pertinenti. E, nel caso delle guerre in corso, occorrerebbero documentari (anche storici) delle due parti che ci aiutino a capire, da angolazioni diverse, quanto sta accadendo nel mondo e le cause alle origini dei vari conflitti.

Conoscere le opinioni politiche dei direttori dei grandi quotidiani o dei loro vice o caporedattori può avere qualche interesse ma quale contributo conoscitivo reale possono dare, ad es., al problema dell’Azerbaigian o della Georgia? All’estero i direttori—di Le Monde, del NYT, di Die Zeit etc.- intervistano (e con indubbia professionalità) ma non vengono intervistati giacché, nei paesi avanzati dell’Occidente, la divisione del lavoro rimane una regola inviolabile.

Un tempo, per farci conoscere il bel paese, la RAI produceva inchieste affidate a scrittori come Mario Soldati o a grandi giornalisti come Sergio Zavoli che rappresentano, tuttora ,documenti di straordinaria utilità  per chi intenda studiare il nostro recente passato. Non si potrebbe pensare, dove è possibile, a fare la stessa cosa per le guerre in corso, organizzando una bella scuola di documentaristi e di corrispondenti di guerra, diretta semmai, da vecchi, rispettabili, giornalisti come Domenico Quirico? E se non se ne hanno i mezzi, non si potrebbero acquistare dagli Stati Uniti filmati che non siamo in grado di produrre noi? In tal modo, non sentiremmo più l’intervistato del Bar di Casal di Principe che vorrebbe annullare la sentenza palermitana che ha assolto Matteo Salvini per ‘conflitto di interessi’ (l’avv. Bongiorno milita nella Lega, il partito dell’imputato!). ‘Tutte le ragioni, tutte le opinioni!” Ma possiamo risparmiarci almeno quelle degli imbecilli? O meglio, per essere politicamente corretti, quelle dei ‘diversamente intelligenti”?

Melonomics – La necessità di una seconda fase

7 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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A oltre due anni dal suo insediamento, qual è la cifra del governo Meloni?

Se lasciamo da parte le opinioni degli osservatori più prevenuti, possiamo notare una certa convergenza su un concetto: il governo Meloni è stabile e rispettato, ma lo è anche, se non soprattutto, perché la sua politica economica è in sostanziale continuità con quella di Draghi e con le raccomandazioni dell’Europa. Su questo tipo di diagnosi, nei giorni scorsi, si sono ritrovate due voci molto diverse, entrambe autorevoli per la loro indipendenza, come quella dell’economista Veronica De Romanis e quella del filosofo Marcello Veneziani. È vero che quel che l’una e l’altro rimproverano alla Meloni è molto diverso (troppo poco europeismo l’una, troppo europeismo l’altro), ma resta il fatto che per entrambe il bilancio di questi primi due anni di governo non è esaltante.

Difficile dissentire sul fatto che, sul versante della politica economica, non abbiamo assistito a svolte clamorose, salvo ovviamente la rimodulazione del reddito di cittadinanza e la graduale cancellazione del Superbonus 110%. È vero, in particolare, che finora la pressione fiscale non è affatto diminuita (anzi gli ultimi dati Istat rivelano un lieve aumento), e resta fra le più alte d’Europa (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi). È vero anche che i dati del 2023 sulla povertà assoluta (i più recenti disponibili) non segnalano alcun miglioramento. Ed è vero, infine, che alcune promesse in materia pensionistica – come il superamento della legge Fornero e un forte innalzamento delle pensioni minime – sono state finora disattese.

E tuttavia, se guardiamo attentamente al rapporto Istat sui conti pubblici appena uscito, il quadro che emerge è assai meno immobilistico (e negativo) di quello fin qui richiamato. I conti pubblici sono in miglioramento, e nel 3° trimestre del 2024 il saldo primario, per la prima volta dalla fine del 2019, è tornato positivo (anche grazie allo stop al Superbonus). Gli investimenti fissi lordi delle Pubbliche Amministrazioni, in un solo anno, sono cresciti del 17.3%. Ma soprattutto: il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici è in crescita da 7 trimestri, e non è mai stato così alto dal 2012. E tutto fa pensare che a beneficiare di tale crescita siano stati soprattutto i ceti medio-bassi, che fin dall’inizio della legislatura sono stati i principali beneficiari di sconti, sgravi, decontribuzioni, bonus vari (come del resto è logico, con la “destra sociale” al governo).

Tutto bene, dunque?

Non esattamente. Ancora una volta non sono state trovate le risorse per abbassare la pressione fiscale sui ceti medi. Gli ultimi dati rilasciati dall’Istat segnalano la sofferenza delle imprese sui principali versanti: quota di profitto, investimenti, dinamica (calante) della produzione industriale.

Insomma, sul versante del sistema produttivo le cose non sembrano andare a gonfie vele. Si potrebbe obiettare: ma l’occupazione va benissimo, sono stati creati quasi un milione di posti di lavoro in 2 anni, il peso dei precari è diminuito, mai – dall’Unità
d’Italia – sono state così numerose le donne con un lavoro.

Ma è proprio qui il problema. Nell’era Meloni (e pure nell’era Draghi) l’occupazione cresce al ritmo del 2% l’anno, ma il Pil in termini reali cresce a un ritmo inferiore all’1%. E il divario è ancora più grande se al posto dell’occupazione mettiamo il numero di ore lavorate, che crescono a un ritmo ancora più elevato. In concreto questo significa una cosa soltanto: la produttività media del lavoro diminuisce, verosimilmente perché i nuovi posti di lavoro vengono creati soprattutto in settori a basso valore aggiunto per addetto.

Torniamo così all’annoso, anzi storico, problema dell’Italia nella seconda Repubblica: una dinamica troppo lenta della produttività, cui contribuiscono anche un insufficiente sostegno da parte dello Stato agli investimenti privati, nonché un livello
ancora troppo alto dell’imposta societaria e più in generale del cosiddetto total tax rate (imposte e contributi obbligatori totali sull’impresa).

Preso atto che, tutto sommato, la destra ha fin qui saputo ben onorare la sua vocazione sociale (un aspetto del tutto incompreso dalle forze di opposizione), forse è giunto il momento di chiedersi se, nella seconda metà della legislatura, non sia il mondo delle imprese, e il connesso problema della produttività, a meritare un’attenzione speciale. Anche perché è solo da lì, da un rilancio della crescita sostenuto dalla dinamica della produttività e non solo dagli incrementi occupazionali, che possiamo sperare di rimuovere i due macigni – debito pubblico e bassi salari – che da trent’anni pesano sulle sorti dell’Italia.

[articolo uscito sul Messaggero il 5 gennaio 2025]

Il Concerto di Capodanno

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Sere fa su RAI Storia Giorgio Zanchini e la storica Vittoria Fiorelli hanno rievocato, con indubbia competenza, La tragedia di un imperatore, Francesco Giuseppe. Ne è venuto fuori il ritratto di un monarca assoluto, chiuso a ogni idea moderna (a differenza del figlio Rodolfo), interessato solo alla caccia e all’esercito, succubo della madre, l’Arciduchessa Sofia di Baviera, e incapace di dare affetto alla donna pur molto amata, la mitica Sissi. La cupa atmosfera della Hofburg, l’ossessione burocratica, la preoccupazione impotente di tenere insieme un impero, che si stava sgretolando, sono emersi in maniera inequivocabile. Eppure al telespettatore non digiuno di storia non sarà sfuggito un rilievo fatto quasi en passant: che la Vienna di Francesco Giuseppe è stata la città culturalmente più affascinante d’’Europa, al punto da superare la stessa Ville Lumière, Parigi. Dalle arti visive alla musica d’avanguardia, dalla psicanalisi alla filosofia del linguaggio, dal teatro alla letteratura, dalle scienze all’economia, la capitale del vecchio Kaiser (al quale Johann Strauss avrebbe dedicato il suo valzer più bello, cantato dalle scolaresche viennesi nel giorno del genetliaco dell’Imperatore sotto le finestre della reggia) è stata, oltretutto, un irrepetibile crogiuolo di etnie culturali, oggetto di rimpianto di grandi scrittori come Stephan Zweig e Joseph Roth. Come spiegare questa ‘contraddizione’? Il fatto è che l’Impero austro-ungarico era una comunità politica ‘premoderna’, nel senso che in essa la politica (differenza fondamentale dai terrificanti regimi totalitari e dalle impegnative democrazie occidentali) non assorbiva tutto il cittadino: a occuparsene erano i burocrati e al suddito era riservata la più ampia di libertà di dedicarsi ai suoi affari, alla sua religione, ai suoi problemi esistenziali. Non era un impero liberale ma del liberalismo condivideva una caratteristica cruciale: l’immenso spazio riservato alla privacy non controllato da un (disinteressato) potere politico. Non a caso, il suo più alto simbolo musicale non era un inno di battaglia ma il valzer. Quello che il 1° gennaio ci incanta al Concerto di Capodanno, trasmesso in tutto il mondo, dalla sala dorata del  Musikverein  di  Vienna .

(Articolo uscito il 31 dicembre 2024 su “Il giornale del Piemonte e della Liguria”)

Ma il potere ama mettersi in mostra. Come spiega la Roma fascista

7 Gennaio 2025 - di fondazioneHume

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Credo che il recente, bellissimo libro di Ernesto Galli della Loggia, Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (edito dal Mulino), dia un notevole contributo alla vexata quaestio del vasto consenso di cui godette il regime di Mussolini, almeno fino al 1936 (un consenso che non è mai stato messo in dubbio dai grandi storici liberali, da Federico Chabod a Renzo de Felice). “La Roma che vediamo oggi (…) – scrive Galli – è ancora in buona parte la Roma sorta durante il fascismo come la volle Mussolini. Anche perché fu in quegli anni che la città conobbe una crescita impetuosa compiendo il salto di dimensione che le ha dato il suo volto attuale. Dai circa 700.000 abitanti del 1921, infatti, Roma passò a 1.000.000 dieci anni dopo, e nel 1941 arrivò a 1.400.000 mila, mentre nello stesso periodo il territorio urbanizzato del Comune crebbe di quasi dieci volte”.

Mussolini lasciò agli artisti e agli architetti un’ampia libertà, sicché le molte e varie costruzioni ereditate dal regime, insieme alle opere d’arte che ad esse spesso si accompagnano, hanno finito per rappresentare un capitolo centrale della vicenda artistica e culturale italiana.

A Mussolini, ricorda Galli della Loggia, occuparsi di urbanistica, ma soprattutto di architettura – “a mio giudizio la massima fra tutte le arti”, dirà in un colloquio con Ludwig – piaceva molto. Anche perché sapeva bene che da sempre modellare lo spazio e costruire un edificio rappresenta uno dei segni più tangibili del potere e della personalità di chi lo esercita; inoltre, nel suo intuito per la psicologia delle masse, Mussolini sapeva pure che poche cose colpiscono l’immaginazione di queste come la vista di uno stadio, di un ponte, di una grande strada. Nei lunghi anni del suo regime non solo dunque l’impulso a costruire fu fortissimo in ogni ambito, ma il Duce volle anche essere sempre informato minutamente, visionare e modificare, approvare ogni progetto di qualche importanza. Di qui opere grandiose come la via dei Fori Imperiali, e l’imponente città universitaria, alla quale lavorarono i migliori architetti di allora, per citare solo due costruzioni straordinarie, alle quali molte altre dovrebbero essere aggiunte.

Galli della Loggia mette giustamente in rilievo la profonda differenza, in campo urbanistico-architettonico, fra fascismo e nazismo: perché (“con buona pace della storiografia che mette tutto sullo stesso piano”) ciò che fece la differenza del nazismo rispetto al fascismo fu la personalità diversa di Hitler e di Mussolini. Il primo, “digiuno di ogni frequentazione sociale che non fosse quella di un’accolta di fanatici e di deracinés”, impose i propri gusti a tutta la cultura tedesca; Mussolini, invece, sorretto da una vasta conoscenza di idee, persone, ambienti, maturata negli anni del suo socialismo, e istruito nelle materie artistiche dalla sua lunga relazione con l’intelligentissima e competentissima Margherita Sarfatti, fu abbastanza capace di ‘stare a sentire’.

A un certo punto del suo libro Galli della Loggia si chiede: si può dunque affermare che il fascismo ha fatto anche cose buone (ciò che provoca l’immediata protesta dei custodi dell’antifascismo duro e puro)? E risponde: “Penso proprio di sì: oggettivamente significa che il fascismo ha fatto anche. cose buone”. D’altro canto, non esiste un governo per quanto pessimo che in vent’anni non faccia anche qualcosa di buono, cioè di utile, e il fascismo non fa eccezione. Naturalmente ciò non significa dimenticare le molte cose cattive, anzi pessime, fatte dal fascismo: dalla soppressione delle libertà civili e politiche, alle leggi razziali, all’alleanza col Terzo Reich, all’entrata in guerra.

Giuseppe Bedeschi

(Versione completa di articolo uscito su “Il Giornale”, domenica 29 dicembre 2024)

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