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Politica

Forza Italia e il destino del centro

29 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]

Il caso Toti – Il potere giudiziario e la sovranità popolare

27 Agosto 2024 - di Matteo Repetti

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La vicenda giudiziaria che sta interessando da qualche mese l’ormai ex Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti ha – con tutta evidenza – connotati moltoparticolari.
Al di là del merito delle accuse rivolte – ma forse sarebbe più corretto dire proprio in virtù delle contestazioni mosse -, è fin da subito apparso evidente a molti come la questione sia destinata a costituire un passaggio fondamentale nei rapporti tra il
potere politico e quello giudiziario nel nostro Paese.
In buona sostanza, la Procura della Repubblica genovese contesta a Giovanni Toti – a seguito di una davvero imponente mole di intercettazioni ambientali acquisite nel corso di più di 4 anni – non uno o più fatti circostanziati, o comunque non solo, ma più complessivamente un contesto, un sistema, un modo di intendere il ruolo della politica, che sarebbe asservita alla logica di interessi di uno o più soggetti privati a scapito dell’interesse pubblico.
Di fatto, viene guardata con sospetto la possibilità che le imprese e altri soggetti economici possano finanziare l’attività di partiti e movimenti politici, come è invece previsto dalla normativa vigente, in particolare dopo l’invocata abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, intervenuta qualche anno fa.
Da questo punto di vista, la vicenda ligure fa quasi tenerezza se paragonata alle concomitanti elezioni presidenziali americane, in cui la neocandidata democratica Kamala Harris ha incassato 200 milioni di dollari in meno di una settimana dai grandi nomi della finanza. Nelle democrazie più evolute si ritiene infatti normale e preferibile che le lobby si muovano allo scoperto: è il conflitto fra dichiarati interessi a rendere la democrazia, per quanto si possa, più pluralista e trasparente.
Ha poi destato notevoli perplessità il protratto ricorso alla custodia cautelare applicata nei confronti del Presidente Toti, che è stata revocata solo a seguito delle sue dimissioni. Di fatto, è stato contestato alla magistratura inquirente un’invasione di
campo, privandosi della libertà personale e sostanzialmente costringendo alla resa chi è stato democraticamente eletto dai cittadini, per ipotesi di reato comunque attinenti alle funzioni svolte. Le conseguenze, da un punto di vista politico amministrativo, sono sotto gli occhi di tutti.
D’altro canto, si è ribadito, tutti sono uguali davanti alla legge ed il potere giudiziario – in ossequio al generalissimo principio di separazione dei poteri – non può essere condizionato.
Siamo arrivati al punto. Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la dottrina della separazione dei poteri.
La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a condizionamenti.
Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.
Altra cosa è – potremmo dire – la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese. Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli
ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.
Il fenomeno è, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.
Dalle nostre parti, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non
è dato sapere.
Non così succede, invece, negli ordinamenti anglosassoni ed in quello britannico in particolare, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere
elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.
Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario –
ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.
Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.
E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime
tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.
Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.
Pur nel rispetto delle differenze storico-culturali e delle specificità dei diversi ordinamenti, sarebbe forse il momento di provare a dire anche da noi che una collettività, una comunità si governa ed amministra attraverso la proiezione di comportamenti, interessi e valori sufficientemente condivisi che trovano rappresentanza e sintesi attraverso la formazione e selezione di una classe politica, tramite elezioni ed organismi rappresentativi: e la volontà comune, espressa dal corpo elettorale appunto mediante libere elezioni, prevale rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.
E’ invece del tutto illusoria l’idea che, in una sorta di palingenesi permanente, la moralizzazione e la stessa formazione della classe dirigente possa avvenire tramite le inchieste giudiziarie, che si dovranno normalmente occupare di singoli comportamenti ritenuti patologici, sufficientemente circostanziati e circoscritti.
Chissà se la bufera giudiziaria che si è abbattuta su Genova e la Liguria in questi mesi non possa rappresentare finalmente un punto di svolta.

Genova, 2 agosto 2024

Politiche aziendali e elezioni americane – La grande ritirata

26 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Se siete italiani e sentite la parola ‘dei’ pensate agli dei dell’Olimpo: Zeus, Era, Afrodite, Ares, Poseidone… Ma se siete inglesi o americani, la prima cosa che vi viene in mente è la triade Diversity, Equity, Inclusion (DEI), che da anni impazza nelle aziende, nelle grandi burocrazie, nelle università.

Di che cosa si tratta?

Dipende. In alcuni casi è un generico impegno dell’organizzazione a tutelare le minoranze, promuovere l’inclusione dei gruppi sociali marginali, garantire un ambiente aperto e amichevole a omosessuali, transessuali e ogni altra comunità più o meno emarginata, svantaggiata, bisognosa di protezione. In altri casi significa anche l’assunzione di uno staff di specialisti per garantire il rispetto dei principi precedenti, anche con stage di sensibilizzazione-rieducazione dei dipendenti (in particolare maschi bianchi eterosessuali). In altri casi ancora significa qualcosa di ulteriormente costoso e impegnativo: una politica delle assunzioni basata sulle quote, ovvero su obiettivi di riequilibrio della composizione della forza lavoro: in genere, più donne, più neri, più ispanici, più immigrati, più omosessuali, più transgender, eccetera.

Le politiche DEI e le loro varianti esistono da parecchi anni, ma hanno avuto un boom dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd (25 maggio 2020) e l’esplosione del movimento Black Lives Matter. Ultimamente, invece, sono in contrazione, e a giudicare dalle notizie più recenti la caduta si sta facendo sempre più rovinosa. Dalla cosiddetta “agenda DEI” si sono ritirate o hanno manifestato l’intenzione di fare un passo indietro aziende di ogni tipo, compresi marchi famosissimi come Jack Daniels, Harley-Davidson, Tesla, Microsoft, Google, Meta, Zoom, e molte altre.

La vicenda potrebbe sembrare poco più che una curiosità sui costumi della società americana se non fosse che ha uno stretto rapporto con le imminenti elezioni presidenziali (novembre prossimo): la precipitosa ritirata di tante organizzazioni dall’agenda DEI è anche dovuta alla mobilitazione ostile dei consumatori di orientamento conservatore o libertario, l’agenda DEI stessa sta diventando uno dei temi della campagna elettorale. Agenda DEI, infatti, significa in definitiva adesione alla visione del mondo woke, basata sulla colpevolizzazione dei bianchi, l’ossessione per il “razzismo sistemico”, i diritti LGBT+, la difesa a oltranza del politicamente corretto. Ritirarsi dall’agenda significa, di fatto, sconfessare anni di propaganda woke. Le organizzazioni sono state ben liete di promuovere obiettivi sociali finché questo migliorava la reputazione e attirava clienti, ma sono divenute repentinamente sospettose e prudenti quando si sono rese conto che frotte di clienti rischiavano di abbandonarle.

Si potrebbe pensare che, come già nel 2016, l’attacco alle follie del politicamente corretto possa essere un’arma in mano al candidato Trump. Un’arma che nelle ultime settimane è stata resa ancora più acuminata da una serie di eventi.

Le Olimpiadi di Parigi, ad esempio, hanno dato modo a Trump di posizionarsi contro la propaganda woke (cerimonia di apertura in salsa LGBT+) e soprattutto a difesa delle atlete (sul caso Khelif: “con me gli uomini non parteciperanno agli sport femminili”). Ed è dei giorni scorsi la presa di posizione di una parte delle femministe americane contro Tim Walz (il vice scelto da Kamala Harris), accusato di aver favorito – come governatore del Minnesota – le transizioni di sesso precoci, anche contro il parere dei genitori e a dispetto delle sempre più numerose evidenze scientifiche contrarie. La femminista Kara Dansky, dirigente del gruppo Women’s Declaration International, impegnato nella difesa dei diritti femminili basati sul sesso biologico, ha chiesto a Kamala Harris di dichiarare “che il sesso è immutabile e che nessun uomo sarà mai una donna”. Se non lo farà, e lascerà a Trump la difesa delle donne (e del buon senso), per molte elettrici progressiste sarà difficile votare per i Democratici.

E tuttavia non è detto che, alla fine, l’attacco all’agenda DEI e alla cultura woke basti a Trump per prevalere su Kamala Harris. La partita è più che mai aperta non solo perché – ovviamente – la campagna elettorale si giocherà anche su altri temi, ma perché in materia di diritti pure il fronte progressista ha le sue armi. Non ultima la campagna di denigrazione sistematica delle femministe ostili alle rivendicazioni trans, da anni bollate con l’acronimo dispregiativo TERF (Trans Exclusionary Radical Feminist), un epiteto toccato anche a Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter.

Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare che l’agenda DEI ora in crisi è stata in pieno vigore per almeno tre anni (dalla metà del 2020 alla metà del 2023) e le sue istanze sono profondamente penetrate nella società americana. Alcune rilevazioni del
Pew Research Center rivelano che ancora l’anno scorso il 52% dei dipendenti americani erano sottoposti all’agenda DEI sul posto di lavoro, e il 56% degli elettori ne approvava gli obiettivi progressisti.

Insomma, la partita è aperta.

[Articolo trasmesso al Messaggero il 24 agosto 2024]

Rubrica A4 – C’è anche un totalitarismo pseudoliberale

19 Agosto 2024 - di Dino Cofrancesco

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Una democrazia sempre meno democratica e sempre più liberale, nel senso di una proliferazione dei diritti che tende a restringere il campo della politica (non si possono mettere ai voti diritti costituzionalmente blindati) Una democrazia sempre più democratica (in senso plebiscitario) e sempre meno liberale. Sono questi i fondamentalismi che minano la civiltà occidentale e quel superiore equilibrio tra passato e presente, tradizione e innovazione, che ne ha fatto storicamente la grandezza. Un esempio del primo è rappresentato dal saggio di Alessandro Mulieri, Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista (Ed.Donzelli), una serrata requisitoria contro la filosofia della destra populista, che troverebbe in Viktor Orban, Alain de Benoist, Alexandr Dugin, Steve Bannon, Vladimir Putin i suoi esponenti più significativi. Come si possa accomunare agli altri un raffinato intellettuale come Alain de Benoit—interlocutore di Pierre-André Taguieff e stretto collaboratore di uno scienziato politico come Marco Tarchi—non è dato intendere. Del resto, è lo stesso bersaglio polemico di Mulieri che resta del tutto imprecisato. Alla democrazia illiberale non è riconosciuto alcuna idealità: è una rivolta contro la modernità, lo spirito delle rivoluzioni atlantiche,
l’illuminismo, il sapere aude kantiano, il riconoscimento della sacralità dell’individuo e dell’intangibilità dei suoi diritti ovvero un rigurgito autoritario e tribale il cui obiettivo è quello di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, combattendo contro la libertà di stampa, l’autonomia dei tribunali, la (nefasta) influenza degli intellettuali. Si tratta di una crociata identitaria, in nome di ‘Dio/Patria/Famiglia, intesa ad abolire i diritti faticosamente acquisiti dalle minoranze—ad es. il matrimonio gay—e a impedire un’immigrazione disordinata rea di stravolgere paesaggi dello spirito che si pretendono eterni. Che il discorso sulla modernità sia molto più complesso di quello svolo dalla destra illiberale è sospetto che non sembra sfiorare Mulieri sicché non meraviglia che un grande filosofo come Augusto Del Noce—v. il magistrale saggio che gli ha dedicato Francesco Perfetti, Dove va la storia contemporanea. Augusto Del Noce l’interpretazione transpolitica, Ed. Aragno—non venga neppure preso in considerazione; a differenza di Jacob L. Talmon e di Isaiah Berlin, le cui tesi sui rapporti tra democrazia e liberalismo vengono
ripetutamente sottoposte al rasoio liberal.

Una riprova del fondamentalismo di Mulieri è la pagina in cui ricorda il referendum elvetico del 2018. Possono esistere, scrive “forme di politiche indubbiamente democratiche che però portano a esiti chiaramente antiliberali o illiberali”. Una maggioranza del 58%per cento decise che “ le moschee che sorgeranno sul suolo svizzero non potranno erigere minareti”. Mulieri sembra dedurne che, in questi casi, bisogna non affidarsi alla democrazia in quanto lesiva di diritti “Coloro che si pronunciavano a favore o contro l’idea che un luogo di culto musulmano possa essere affiancato da un minareto hanno potuto spiegare al grande pubblico le proprie idee e confrontarsi sui pro e i contro di ciascuna posizione”. Tutto questo non è bastato, però, a tutelare la libertà di culto” che nessuno può togliere ai musulmani. La lezione è che non si deve ”ridurre la democrazia semplicemente al metodo elettivo” considerando “ il voto il solo e unico rappresentante della legittimità di questo regime”. Mulieri alle vittime (che poi non sono davvero tali, dal momento che la libertà di erigere moschee in Svizzera è fuori questione) riconosce valori e diritti mentre
agli svizzeri imputa il disegno di calpestare gli uni e gli altri. Ma non sono ideali rispettabili anche quelli di chi non tollera che lo skyline della sua città venga alterato da un minareto? Siamo alle solite: il fatto che la vittoria potrebbe toccare ai conservatori induce i progressisti a mettere un limite al potere del demos..
Sennonchè i diritti naturali non sono soltanto quelli iscritti nella filosofia dei lumi , se ne trovano (ahimé) anche nel pensiero tradizionale ed è ben per questo che il ricorso al voto, in una società laica e pluralista, risulta imprescindibile. In base alla logica di Mulieri, se la separazione delle carriere è un attentato al diritto all’indipendenza dei giudici, nessun governo e nessun Parlamento possono metterci mano. In tal modo, il dittatore totalitario non è più chi decide lo stato di eccezione ma chi fissa l’ordine del giorno del dibattito pubblico, stabilendo ad es.,che limitazione e controllo dell’immigrazione non possono venir decisi a colpi di
maggioranza.

A proposito di Renzi e campo largo – Sinistra e Quarta Via

12 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Da quella benedetta partita di football in cui Matteo Renzi e Elly Schlein hanno giocato nella medesima squadra, si torna a parlare di un ritorno di Renzi nella casa del centro-sinistra, magari già alle prossime elezioni locali (a partire da quelle della Regione Liguria, rese necessarie dalle dimissioni di Toti).

La ratio del riavvicinamento è fin troppo ovvia: dopo lo smacco alle Europee, Renzi sa benissimo che confluire in uno dei due schieramenti è l’unica carta di cui dispone, se vuole sopravvivere politicamente.

Può darsi che, alla fine, tutto si riduca a qualche dichiarazione di facciata, che permetta a Renzi non meno che a Schlein di evitare imbarazzi e marce indietro esplicite rispetto alle prese di posizione del passato, a partire dal “pomo della discordia”, quel Jobs Act che Renzi ancora difende e Schlein non ha mai smesso di esecrare.

Ma potrebbe anche darsi – e sarebbe auspicabile – che il ritorno all’ovile del volubile ex segretario del Pd apra finalmente una discussione vera dentro il fronte progressista, da troppi anni incerto fra vocazione riformista e spinte massimaliste. Perché è vero che su alcune, poche cose (salario minimo legale, più soldi alla sanità) l’accordo sarà facilissimo, ma su tutto il resto i nodi devono ancora essere sciolti.

Vogliamo ricordarne alcuni?

Sulla politica economica, i progetti di iper-tassazione dei ricchi e redistribuzione del reddito confliggono con la linea di detassazione delle imprese e flessibilizzazione del mercato del lavoro.                                                                                                                 Sul versante delle politiche sociali, l’assistenzialismo dei Cinque Stelle fa a pugni con le politiche attive per l’occupazione. Riguardo ai diritti LGBT+ non tutti, a sinistra, condividono le posizioni più radicali in tema di utero in affitto, autoidentificazione di genere (self-id), inclusione di transgender e intersessuali nelle competizioni sportive femminili.                                                         In materia di giustizia, il garantismo liberal-riformista è incompatibile con il giustizialismo fin qui egemone a sinistra, non solo fra i Cinque Stelle.

E poi, naturalmente, c’è il tema dei temi, la patata bollente delle politiche migratorie. Qui le cose sono complicate. Le posizioni pro-accoglienza di Elly Schlein paiono vicinissime a quelle passate di Renzi (uno degli artefici dell’operazione di salvataggio
Mare Nostrum), ma in compenso stridono con quelle dei Cinque Stelle, da sempre prudenti in tema di migrazioni irregolari.

Su tutte queste e altre cruciali questioni, non solo Renzi, ma tutte le forze del futuro campo largo sono chiamate a discutere, a prendere posizione, e a trovare un accordo comprensibile. Perché può anche darsi che, per vincere alle prossime elezioni
politiche, al centro-sinistra bastino gli errori del governo di centro-destra e la propensione degli italiani a bocciare i governi uscenti. Ma potrebbe anche succedere che il bilancio di cinque anni di governo Meloni non sia negativo e che, per convincere gli italiani a cambiare governo, occorra anche avere un programma chiaro e credibile.

Ma quale programma?

A giudicare da alcuni recenti successi della sinistra in Europa – penso in particolare ai casi del Regno Unito e della Danimarca – sembra che la risposta possa essere: né con i massimalisti alla Jeremy Corbyn e alla Bernie Sanders, idoli dell’estrema sinistra, né con i riformisti-liberisti alla Tony Blair, tanto cari a Renzi e alla sinistra riformista. La sinistra che vince in Europa (e a novembre, forse, potrebbe farcela pure negli Stati Uniti), è una sinistra molto meno convinta delle virtù della globalizzazione, e molto più consapevole del problema migratorio. In breve, una sinistra più vicina alla sensibilità dei ceti popolari, che chiedono protezione in materia economico-sociale e sicurezza sui versanti della criminalità e dell’immigrazione irregolare. Una sorta di Quarta Via, ben lontana dalla destra e dalla sinistra classiche, ma anche dalle illusioni della Terza Via di Anthony Giddens, che per troppi anni
hanno ipnotizzato i leader del campo riformista.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 agosto 2024]

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