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Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 1. Effetto “bandwagon”.

4 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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In senso letterale il termine inglese bandwagon indica il carro che trasporta la banda musicale in una parata. Salire sul carro della banda è dunque gratificante poiché permette di condividere il centro dell’attrazione del pubblico. Salire sul carro (del vincitore) è una delle principali conseguenze del cosiddetto clima di opinione politico-elettorale, che ha avuto un notevole successo negli ultimi anni per analizzare l’orientamento e il comportamento di voto anche nel nostro paese.

L’idea di fondo è che il clima abbia un certo effetto anche sulle opinioni di voto espresse da (alcuni) degli intervistati, soprattutto da quelli indecisi, che tenderebbero nei sondaggi pre-elettorali ad indicare (mentendo) il partito o la coalizione che gode di maggior appeal, oppure a sottacere il loro futuro appoggio al partito “perdente”. Si tratta di una sorta di “spirale del silenzio demoscopico” per cui alcuni elettori, condizionati appunto dal clima di opinione elettorale prevalente, non osano dichiarare apertamente la propria scelta minoritaria nelle interviste, salvo poi farlo nel segreto della cabina elettorale.

Nei sondaggi post-voto accade a volte l’esatto opposto: elettori non completamente convinti della propria scelta elettorale, tendono a dichiarare (mentendo) di aver votato il partito o il candidato vincente, salendo in pratica “sul carro del vincitore”.

Il concetto di clima di opinione elettorale ha subìto una ripresa di interesse nell’ultimo decennio in Italia soprattutto per due motivi.

Il primo è legato alla progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che caratterizzavano la sostanziale stabilità e polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Le motivazioni di voto erano attribuibili per una vasta quota di elettori al cosiddetto “voto di appartenenza”, demarcato per questo da un forte livello di fedeltà, una “fedeltà pesante” frutto del radicamento delle tradizionali sub-culture cattolica e social-comunista.

Durante gli anni del successo di Berlusconi, a questa si è sostituita una sorta di “fedeltà leggera”, cioè da un tipo di vicinanza politica (e fedeltà di voto) legata allo schieramento bipolare (pro o contro Berlusconi). Ma anche questo nuovo tipo di fedeltà è terminata, lasciando il posto, da almeno un decennio, ad una inedita volatilità elettorale, scelte piuttosto superficiali veicolate dalle sensazioni collettive del momento, dai discorsi dei leader politici, alle quali si può presto rinunciare senza per questo sentirsi un traditore (l’elettore liquido ben descritto da Bauman).

Il secondo motivo riguarda la capacità di questo concetto di ben adattarsi alla trasformazione delle antiche campagne elettorali nelle attuali campagne permanenti, in cui l’impatto delle dinamiche di opinione – continuamente sollecitate dal rapporto sondaggi-consenso come fattore decisivo sia per l’esercizio della leadership che per le decisioni di governo – tende ad assumere un peso rilevante sia di medio ma perfino di breve periodo, favorendo la costruzione di “micro-cicli di opinione”, che rappresentano a volte un punto di riferimento essenziale per lo stesso comportamento elettorale della popolazione. Non contano più dunque le appartenenze, o i più stabili atteggiamenti, contano le emozioni del momento, nell’elettore liquido, conta il clima di opinione sempre più fluido e intercambiabile, cui il cittadino provvisoriamente si adatta.

Una volta che un particolare clima d’opinione si è diffuso all’interno del paese, l’elettore interrogato nel corso di un’indagine demoscopica si trova in alcuni casi quasi “in imbarazzo” a dichiarare la propria preferenza per il partito, il candidato o la coalizione che pensa non godano delle simpatie del resto della popolazione elettorale. Si rifugia in questi casi all’interno di quello che ho definito come “spirale del silenzio demoscopico”, preferendo cioè tacere il suo reale appoggio per quella forza politica, salvo poi votarla nel segreto dell’urna. Molti sondaggi sono pervasi da questa dinamica, che non permette di ottenere stime corrette del reale orientamento di voto di una parte significativa degli intervistati

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

 

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi*

1 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Maneggiare con cura: questo dovrebbe esserci scritto o sottolineato chiaramente, prima della presentazione dei risultati di qualsiasi indagine demoscopica. Purtroppo, questo avviene solo sporadicamente. Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Oggi, perfino una procedura come il Censimento della popolazione viene effettuata attraverso un sondaggio campionario, producendo un vero e proprio ossimoro: se utilizziamo un campione di cittadini, il risultato non potrà mai definirsi un censimento, e anzi produrrà delle stime affette, come vedremo, dal cosiddetto “errore di campionamento”.

Sono proprio i risultati di indagini demoscopiche quelli che prendiamo come attendibili in molti campi, e che ci raccontano lo stato del nostro paese, come fa il Censis nel suo rapporto annuale sullo stato della società italiana. E pochi sanno ad esempio che i dati che ci vengono forniti dall’Istat, sui quali si basano le scelte anche strategiche del mondo politico e imprenditoriale, sull’andamento economico-occupazionale del paese e sulle forze-lavoro (tasso di occupazione, ecc.) non sono altro che il frutto di un sondaggio trimestrale, effettuato certo interrogando un campione molto vasto, 200mila individui all’interno di circa 120mila famiglie, ma pur sempre un campione.

Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, almeno dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai risultati che emergono da una indagine demoscopica.

Da lunedì prossimo 4 luglio, con cadenza giornaliera, nei giorni feriali (dunque dal lunedì al venerdì) verranno presentate e discusse le dieci più importanti distorsioni di cui sono “vittima” tutti i sondaggi, in particolari quelli politico-elettorali, delle quali dovremmo tenere conto quando ci accingiamo a leggere i suoi risultati, pubblicati sui media.

Paolo Natale

Non solo salario minimo legale

14 Giugno 2022 - di fondazioneHume

EconomiaIn primo pianoSocietà

Di salario minimo legale (SML) si torna insistentemente a parlare in questo periodo, in vista dell’attuazione della Direttiva Ue in materia. Sull’opportunità di fissare un minimo per le retribuzioni c’è un diffuso anche se non unanime consenso. Dove invece i pareri divergono è sul livello cui fissarlo, ma soprattutto sugli effetti che esso potrebbe produrre.

Un effetto certo e positivo è quello di costringere le imprese che operano in modo regolare, e che possono permettersi di adeguare le retribuzioni, a portare a un livello decente il salario dei lavoratori peggio pagati. Un altro effetto positivo, anche se incerto nell’entità, è di rendere più convenienti gli investimenti in tecnologia, con conseguente aumento della produttività. Infine, il salario minimo legale scoraggerebbe la concorrenza sleale delle imprese che puntano su evasione fiscale e bassissime retribuzioni.

Dove le cose si fanno più complicate, invece, è sul versante degli effetti negativi. Che sono numerosi, e molto difficilmente quantificabili. Gli economisti, in particolare,  segnalano tre effetti perversi del salario minimo legale, in parte già osservati in Germania (che  ha introdotto il salario minimo nel 2015). Il primo è che le imprese che possono farlo scaricano sui prezzi l’aumento dei costi salariali. Il secondo è che alcune imprese aggirano la norma semplicemente aumentando il numero effettivo di ore giornaliere (ti pago 7 ore, ma ne fai 9). Il terzo è che molte imprese semplicemente non possono permettersi di operare pagando i lavoratori al livello fissato per legge, e rischiano di reagire chiudendo l’attività, o accentuando la propensione all’evasione fiscale e contributiva. A questo proposito giova ricordare che l’aggravio per le imprese di un salario minimo legale di 9 euro (la proposta del Movimento Cinque Stelle) sarebbe di 6.7 miliardi di euro, che scenderebbero a 4.4 miliardi con una soglia fissata a 8.5 euro, e a 2.7 miliardi con una soglia di 8 euro (stime INAPP).

Le cose sono ancora più problematiche se guardiamo alla questione da una prospettiva sociologica. Da questa angolatura non si può non osservare che sono numerose, e di grande rilevanza ai fini di una valutazione dell’impatto del SML, le caratteristiche dell’Italia che la differenziano dagli altri paesi europei. In nessun paese europeo, salvo forse la Grecia, l’estensione dell’economia sommersa è ampia come in Italia. In nessun paese europeo è così profonda la frattura fra garantiti, protetti dalle leggi e dai sindacati, e non garantiti, esposti alle turbolenze e ai rischi del mercato. In nessun paese europeo sono così ampi i divari territoriali in termini di occupazione e produttività.

Tutte queste peculiarità, cui andrebbe aggiunta la presenza di un consistente segmento di lavoratori che operano in condizioni paraschiavistiche (circa 3.5 milioni di persone, secondo una mia stima), rendono cruciali i dettagli che specificheranno le modalità di introduzione del salario minimo legale in Italia.

Una soglia unica, fissata a un livello elevato, senza differenze legate alla produttività, accentuerebbe sia gli effetti benefici che quelli perversi, con quale saldo netto è difficile dire con i dati di cui disponiamo. Una soglia bassa, graduale, e differenziata territorialmente, minimizzerebbe molti effetti perversi, ma anche i benefici in termini di equità, incentivi al progresso tecnologico, leale competizione fra operatori economici.

Quale che sia il punto di equilibrio che la politica vorrà trovare, credo sarebbe bene prendere atto di un punto: stante la struttura economico-sociale del nostro paese, il salario minimo legale avrà effetti tanto più benefici ed incisivi quanto più verrà accompagnato da altre misure, sia sul piano politico-amministrativo sia su quello sindacale. L’estensione dell’economia sommersa e l’ampiezza del settore paraschiavistico, infatti, dipendono solo in minima parte dall’assenza di un salario minimo legale. La vera radice di queste storture, oltre che – ovviamente – nell’arretratezza complessiva del sistema-Italia, sta in due clamorose assenze o, se preferite, “insufficienti presenze”: quella dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e quella delle organizzazioni sindacali. Finché su aberrazioni che si vedono “a occhio nudo”, come quella dei campi di raccolta del pomodoro, si continuerà a chiudere un occhio, non ci sarà mai SML che basti a fermare l’obbrobrio.

Che fare, dunque, per massimizzare i vantaggi e minimizzare i danni del salario minimo?

Un’idea potrebbe essere di introdurre una differenziazione territoriale, che tenga conto del costo della vita (per non penalizzare i lavoratori del Nord) e della produttività (per non penalizzare le imprese del Sud).

Ma forse il provvedimento più incisivo sarebbe di sottoporre a un regime di controlli speciale – con verifiche più frequenti e capillari – le imprese che prevedono rapporti di lavoro con orari ridotti. Ciò metterebbe un freno alla pratica, estremamente diffusa in Italia, di sottodichiarare le ore di lavoro. E’ precisamente questo, infatti, il meccanismo alla radice delle più comuni situazioni di iper-sfruttamento.

Luca Ricolfi

(articolo uscito su La Repubblica l’8 giugno 2022)

Premessite, la nuova malattia del politicamente corretto

13 Giugno 2022 - di Luca Ricolfi

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Quando, un anno fa, Paola Mastrocola ed io pubblicammo (sul primo numero de La Ragione) il nostro “Manifesto della libera parola”, non pensavamo che le cose potessero cambiare granché, almeno nel breve periodo. Dopotutto, la cultura (e pure il suo doppio e rovescio: l’anticultura) si modificano lentamente, come la lingua, i costumi, le abitudini.

Ci sbagliavamo. Questi 12 mesi non sono stati tranquilli. Qualche mese dopo l’uscita del nostro manifesto, è esploso uno dei casi più gravi di repressione della libertà di parola: la prof.ssa Kathleen Stock, dell’Università del Sussex, è stata costretta alle dimissioni per le sue posizioni gender-criticalriguardo alla pretesa di scegliere arbitrariamente il genere.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’università di Milano-Bicocca – non paga della figuraccia rimediata qualche mese prima dalla Statale, che aveva sospeso dall’insegnamento il prof. Bassani, reo di aver condiviso su internet una vignetta sarcastica su Kamala Harris – si è prodotta in una nuova performance, cancellando un corso dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, colpevole di essere russo.

Sorte analoga è toccata al maestro Valery Gergiev, che avrebbe dovuto dirigere un concerto alla Scala di Milano, ma è stato rimosso per non aver preso le distanze da Putin e dall’invasione dell’Ucraina.

Quanto al prof. Orsini, esperto di geopolitica ma critico con la Nato, si è visto coancellare il contratto che lo legava alla Rai e alla trasmissione Carta Bianca, condotta da Bianca Berlinguer. A sua volta finita nei guari per il troppo spazio dato ai critici della linea ufficiale del governo.

Ma questi episodi sono solo la punta dell’iceberg. Nei primi mesi di guerra, sui grandi quotidiani come nei principali programmi televisivi, è calato un clima di censura e autocensura forse ancora più plumbeo di quello avvertito nei mesi cruciali della campagna vaccinale.

Così come, allora, ci si sentiva obbligati, prima di parlare, a premettere che si era vaccinati, si era già fatta la seconda o la terza dose, si aveva il green pass, si era favorevoli alla campagna vaccinale, così oggi – quando si parla in tv – ci si sente obbligati a premettere che Putin è l’aggressore, che l’Ucraina è l’aggredito, che non esistono giustificazioni per quel che ha fatto Putin. Se non lo si fa, o si dice qualcosa che potrebbe essere usato per attenuare le responsabilità di Putin, scatta immediatamente la reazione del conduttore, o dell’ospite più solerte, che interrompe, precisa, puntualizza, invita a chiarire.

La “premessite” è un brutto segno per la salute della libertà di espressione, perché rivela che non siamo veramente liberi di dire quello che pensiamo. Ci vantiamo di vivere in una democrazia, ci compiaciamo della nostra libertà, ma siamo ossessionati dalle conseguenze delle nostre parole. Come se l’importante non fosse se quel che diciamo è vero oppure no, ma solo come potrebbe essere interpretato, usato, strumentalizzato.

Forse il segno più chiaro della nostra illibertà è il destino dei maestri, ossia delle persone che più stimiamo e ammiriamo per il loro sapere. In una situazione normale, se un maestro dice qualcosa che non condividiamo, ci interroghiamo su noi stessi. In una situazione patologica, se un maestro dice qualcosa che infrange l’ortodossia, squalifichiamo il maestro. E’ capitato a Sergio Romano, a Barbara Spinelli, a Lucio Caracciolo di essere accusati di putinismo, solo per aver tentato di spiegare quel che è successo.

E’ il segno che la situazione non è normale, e la nostra libertà è compromessa.

(articolo pubblicato su La Ragione il 2 giugno 2022)

Sinistra e destra, scambio di ruoli? intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

10 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

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 (testo integrale dell’intervista rilasciata a “Libero”, uscita lunedì 9 maggio)

Cosa ci fa Ricolfi in un panel per scrivere il programma di Fdi, in particolare alla voce istruzione?

Prima di risponderle, caro Senaldi, una premessa e un ringraziamento. Raramente ho letto tante sciocchezze e tanti travisamenti del mio pensiero come dopo il mio intervento alla convention di Fratelli d’Italia (mi hanno persino accusato di indulgenza pro-Putin). Perciò la prima cosa che vorrei dirle è che sono profondamente grato a lei e a Libero per la possibilità che mi offrite di dire quel che penso effettivamente, al di là delle interpretazioni e dei fraintendimenti.

Dunque, cominciamo da come sono andate le cose. Un paio di mesi fa Giorgia Meloni mi ha chiesto se avevo idee da sottoporre alla loro convention, io ne avevo fin troppe. Avrei parlato volentieri di politicamente corretto (e di censura), di politiche fiscali, di scuola e università. Alla fine, avendo solo 10 minuti a disposizione, ho dovuto scegliere, e ho puntato su scuola e università.

Perché?

Mi stuzzicava l’idea di esporre la pars construens del discorso che, da anni, Paola Mastrocola ed io facciamo sui problemi dell’istruzione e della trasmissione del patrimonio culturale (la pars destruenssta nel nostro libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, uscito qualche mese fa con La nave di Teseo).

La scuola è sempre stata una riserva culturale della sinistra in Italia. Dove ha fallito?

Le riforme democratiche e progressiste, specie dopo il 1969, e massimamente dal 2000, hanno fallito su tutta la linea perché l’abbassamento del livello degli studi, coscientemente perseguito in nome dell’inclusione, ha prodotto esclusione, dispersione, nuove diseguaglianze. Non è strano, succede nella storia: Hegel la chiamava eterogenesi dei fini, i sociologi preferiscono parlare di “conseguenze non intese”, o di “effetti perversi” dell’azione sociale.

Nel nostro libro noi mostriamo, anche con strumenti statistici, che l’abbassamento dell’asticella secerne diseguaglianza. Se adottiamo lo schema di Bobbio (sinistra = uguaglianza, destra = disuguaglianza) è inevitabile concludere che negli ultimi 50 anni i politici progressisti hanno fatto politiche di destra. Sempreché, naturalmente, che cosa sia di sinistra e che cosa sia destra lo stabiliamo in base alle conseguenze che produce, non alle intenzioni di chi la impone.

Sta cambiando qualcosa, nel mondo della scuola?

Qualcosina, direi. Ci sono associazioni, movimenti e piccoli gruppi che si stanno battendo per difendere il ruolo classico della scuola: la trasmissione della conoscenza e del patrimonio culturale. Ma sono piccole minoranze, inesorabilmente bollate come nostalgiche, reazionarie, retrograde. Povero Gramsci…

Ma lei non è, o era, di sinistra?

Certo che lo sono. Lo sono sempre stato, oggi lo sono più che mai. Il problema è che “la sinistra non è più di sinistra”, come ebbe a  notare già una ventina di anni fa Alfonso Berardinelli. Quindi chi tiene saldi alcuni principi di sinistra, tipo la difesa dei ceti popolari, la lotta contro la censura, la parità delle condizioni di partenza, deve amaramente ammettere che la sua parte politica, almeno nella sua componente riformista, li ha clamorosamente traditi.

Da sociologo: sta cambiando qualcosa nei valori fondativi e nelle battaglie della destra e della sinistra?

Quello che, per gli osservatori imparziali, è fuori discussione è che la sinistra main stream è diventata bigotta, intollerante, insensibile alle istanze dei ceti popolari, ossessivamente fissata su migranti e diritti civili (rivendicazioni LGBT, eutanasia, ecc.). E noti che questa deriva la descrivono e denunciano gruppi e osservatori di super-sinistra: in Francia il filosofo Jean Claude Michéa, in Italia – ad esempio – Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Per non parlare delle preoccupazioni di tante femministe, in radicale dissenso con le teorie gender e le rivendicazioni del mondo trans.

Quanto alla destra, il discorso è complicato perché ci sono tre destre. Forza Italia e Lega non innovano granché, restano tutto sommato partiti anti-tasse, anti-migranti, anti-censura.

E Fratelli d’Italia?

Fratelli d’Italia è in evoluzione, da almeno 8-10 anni. Mi colpì a suo tempo (era il 2014) la decisione di Giorgia Meloni di sottoscrivere una proposta di sinistrissima della fondazione Hume (si chiamava maxi-job), che capovolgeva le politiche fiscali liberiste, puntando tutte le carte su politiche di ispirazione keynesiana (decontribuzione per le imprese che aumentano l’occupazione). Mi parve una (sorprendente) mossa di sinistra, non a caso sottoscritta anche da Susanna Camusso, allora segretaria della Cgil.

E ancora di più mi ha colpito, nella relazione introduttiva di Giorgia Meloni alla convention di Fratelli d’Italia, ascoltare una appassionata difesa dell’uguaglianza delle condizioni di partenza come precondizione del merito, e come strumento essenziale per far ripartire l’ascensore sociale.

E’ come se i due principali partiti italiani si fossero scambiati i ruoli. Al Pd non di rado piacciono cose che fino a ieri avremmo definito di destra, a Fratelli d’Italia talora piacciono cose che eravamo abituati ad associare alla sinistra.

Perché c’è stato questo scambio di ruoli?

E’ un discorso lungo e complicato, che ho cominciato ad affrontare in Sinistra e popolo, (Longanesi 2017) e che sto sviluppando in un nuovo libro. Qui vorrei però menzionare  un aspetto particolare, su cui sto riflettendo: non sarà che stare quasi sempre al governo ha reso il Pd iper-sensibile alle istanze dell’establishment, e stare quasi sempre all’opposizione ha lasciato più libertà di movimento, ma anche di elaborazione politica, al partito di Giorgia Meloni?

C’è un’intolleranza della sinistra verso il pensiero alternativo, che viene pertanto criminalizzato?

Il guaio della sinistra è che, quando adotta una posizione, non riesce a pensarla come una posizione politica fra molte possibili, ma tende a considerarla alla stregua di una scelta etico-morale: di qui il Bene, fuori di qui il Male. Che si tratti di migranti, diritti civili, tasse, campagna vaccinale, guerra in Ucraina, la postura del principale partito di sinistra è sempre quella: noi siamo illuminati, voi siete opportunisti, disertori, retrogradi, incivili, disumani. L’intolleranza è una conseguenza logica della credenza, profondamente illiberale, di avere il monopolio del Bene.

Perché la sinistra non vuol più rappresentare i poveri?

Non so se non vuole, quel che è certo è che non ci riesce. Non credo vi sia una singola ragione, se non altro perché il distacco dai ceti popolari è iniziato almeno 30-40 anni fa, più o meno dopo la morte di Berlinguer. Fra i fattori strutturali che hanno aiutato questa involuzione però ne metterei in evidenza almeno due: la terziarizzazione, che ha drasticamente ridotto le dimensioni della classe operaia industriale, e l’arrivo massiccio dei migranti, che a una sinistra riformista molto imbevuta di cristianesimo sociale sono parsi i veri “ultimi” di cui occuparsi.

Lei parlò di società signorile di massa: ora cosa siamo diventati e cosa diventeremo?

Siamo una società in cui la maggior parte della popolazione abile al lavoro non lavora,  i consumi sono ancora opulenti, l’economia ristagna. Consumo, gioco, intrattenimento, socializzazione, cura di sé, sono diventati i nostri imperativi, il lavoro e lo studio sono tollerati come inconvenienti da sopportare.

Già nel 2019, quando pubblicai il mio libro, era evidente che così non si poteva andare avanti. Dopo il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina dovrebbe essere evidente che il nostro futuro è fatto di minore reddito, minori consumi, e – temo – anche minore libertà. Lo sforzo dei governanti è, comprensibilmente, di farci credere che non è così.

Si sta facendo il funerale del sovranismo: è prematuro?

Mah, bisognerà anche intendersi, prima o poi, su che cosa voglia dire sovranismo, e soprattutto su che cosa sia il suo contrario. Io non vedo affatto bene un’evoluzione dell’Europa in cui ogni paese sia abbarbicato all’interesse nazionale, come prospettano i conservatori con l’idea di un’Europa Confederale. Però, al tempo stesso, non posso non vedere che noi, oggi, abbiamo sia i danni del sovranismo (Francia, Germania, Ungheria difendono con le unghie e coi denti i loro interessi, noi no), sia il peggio dell’europeismo (l’Europa non è stata minimamente in grado di tutelare l’interesse europeo, come la crisi energetica sta mostrando in modo lampante).

E’ una cosa nuova quella uscita dalla tre giorni milanese della Meloni dello scorso fine settimana?

Mi pare di sì, perché già solo il fatto di parlare di contenuti, e farlo anche con esponenti più o meno dichiarati della sinistra, è un atto di grande apertura. Ma in questo giudizio sono influenzato da una mia idea personale, che molti non condividono: e cioè che quello del rapporto con il fascismo sia un non-problema. O meglio un problema che è stato archiviato 27 anni fa da Fini, con la svolta di Fiuggi. Chiedere ulteriori abiure sarebbe come se, alla fine degli anni ’80, qualcuno avesse chiesto ai socialdemocratici tedeschi di ribadire il loro distacco dal comunismo, avvenuto a Godesberg nel 1959.

Quali differenze trova con il progetto originario del centrodestra di Berlusconi del 1994?

Almeno due. Primo, la politica fiscale: liberista quella di Berlusconi, keynesiana (cioè pro-occupazione) quella di Meloni. Secondo, scuola e università: aziendalista la visione di Belusconi (ricordate le “tre i”: inglese, internet, impresa), egualitaria e meritocratica quella recente di Fratelli d’Italia (almeno a giudicare dalla relazione di

Forza Italia era la riedizione della Dc, la Lega di Salvini un’operazione sovranista. Qual è la via italiana dei conservatori?

Lo vedremo, mi sembra che manchi ancora un’elaborazione teorica ampia e coerente.

La forza di FdI è di non essere una destra liberale, visto che l’Italia è Paese allergico al capitalismo spinto e al liberalismo?

Sì, è uno dei punti di forza.

Ma come si fa in Italia ad avere fiducia nello Stato, che fallisce inesorabilmente?

Il problema è che, sull’istruzione, il mercato ha già fallito. Dove sono le borse di studio per i “capaci e meritevoli” che, secondo l’articolo 34 della Costituzione, hanno diritto di “raggiungere i gradi più alti degli studi”, anche quando sono “privi di mezzi”?

Sotto campagna elettorale contro la Meloni la sinistra agiterà lo spettro neofascista: quanta presa ha ancora sull’elettorato italiano?

Secondo me ha ancora presa, quindi – dal suo punto di vista – fa bene la sinistra ad agitarlo. E’ cinico, ma la politica funziona così.

Il centrodestra è molto diviso sul tema della leadership, che invece il centrosinistra ha risolto a favore del Pd: ci sono speranze di comporre i dissidi?

Non molte, direi. Berlusconi e Salvini venderanno cara la pelle.

Al centrodestra non converrebbe, viste anche le divisioni, fare un’operazione in stile Ulivo, cercando un personaggio terzo, per arrivare al potere, come fece D’Alema con Prodi, che poi sostituì?

Forse funzionerebbe, se trovano il nome giusto. Ma sarebbe poco coerente: la destra ha sempre rivendicato l’autonomia della politica.

Berlusconi si è orientato su Salvini per garantire un futuro a Forza Italia. E’ pensabile che, in nome del pragmatismo che lo contraddistingue, cambi cavallo?

E’ pensabilissimo, Berlusconi è imprevedibile. Ma sarebbe un segno di debolezza.

Qual è la ragione della perdita di consensi di Salvini e quante possibilità ha di risalire la china?

Le ragioni sono tante. Gli errori e le gaffe, innanzitutto: caduta del governo giallo-verde, giravolte per l’elezione del presidente della Repubblica, legami inquietanti con il partito di Putin. E poi l’eccessivo semplicismo della linea politica della Lega attuale, molto più rozza della Lega che progettava le riforme federaliste. Oggi Berlusconi e Meloni sono molto più articolati di Salvini.

Gli italiani sono contro la guerra ma i partiti apertamente atlantisti (Pd e FdI) sono i primi e Draghi è il leader più popolare: contraddizioni?

Gli italiani preferiscono Pd e FdI a prescindere dalle posizioni sulla guerra. Il primato (sondaggistico) di Letta e Meloni precede lo scoppio della guerra. Le posizioni sulla guerra possono, tutt’al più, regolare i rapporti fra Pd e Cinque Stelle.

La guerra rafforza o indebolisce la Ue?

La indebolisce, perché mostra due cose: che non siamo affatto uniti, e che siamo a rimorchio degli Stati Uniti.

Perché la destra è pro-pace, il Pd pro guerra e l’estrema sinistra pro-pace?

Credo sia più esatto dire che tutti sono pro-pace, ma dissentono sui tempi e sui modi per raggiungerla, sul prezzo che siamo disposti a pagare, e sui rischi che siamo pronti a correre.

Ritiene che l’opinione pubblica italiana possa reggere a lungo la guerra?

No, l’opinione pubblica è semplicemente stata tenuta all’oscuro delle conseguenze economico-sociali della guerra.

Che effetti avrà la guerra sulla società italiana?

Se ci sarà la terza guerra mondiale, o anche solo molta radioattività in Europa perché è saltata una centrale nucleare, tutti diranno che avevano ragione Sergio Romano, Barbara Spinelli, Luciano Canfora, Alessandro Orsini, eccetera. Se invece avremo “solo” una guerra lunga, con povertà, disoccupazione, e milioni di profughi, il governo Draghi sarà accusato di imprudenza e irresponsabilità. Se, infine, dovesse cadere Putin, l’Ucraina perdesse solo il Donbass, e vi fosse un ritorno abbastanza rapido a una quasi-normalità, tutti esalterebbero la fermezza del fronte occidentale, e la lungimiranza del premier Draghi.

Il punto è che, allo stato attuale delle conoscenze economiche, militari, strategiche, nessuno conosce le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa sia razionale e che cosa irrazionale lo deciderà l’esito del conflitto. E sarà comunque, anche quella, una lettura arbitraria, perché domani, è vero, potremo osservare le conseguenze delle nostre scelte, ma nessuno – mai – potrà sapere con ragionevole certezza come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse. Per questo, un po’ più di umiltà e di dubbi da parte di tutti non stonerebbero.

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