Vaccinare non basta

Come va l’epidemia nelle società avanzate?

Dipende dalla direzione in cui guardiamo. Il dato più drammatico è il tasso di mortalità (e di occupazione delle terapie intensive) nei paesi dell’Est Europa, che è quasi 14 volte quello dell’Italia. E’ verosimile che la ragione di questo squilibrio stia essenzialmente nella vaccinazione, che è in clamoroso ritardo nei paesi ex-comunisti. Ed è possibile che, alla radice di tale bassissima propensione a vaccinarsi, vi sia anche, se non soprattutto, la diffidenza dei cittadini di quei paesi verso lo stato centrale, una diffidenza maturata in 70 anni di dittatura e di invasione della vita privata.

Ma nelle altre società avanzate, occidentali e orientali, come vanno le cose?

Qui ci sono due sorprese, o meglio due dati, che contraddicono la narrazione oggi prevalente in Italia.

Il primo dato è che l’Italia non è affatto un’isola relativamente felice, e tantomeno un modello per gli altri paesi. Se guardiamo alla mortalità dell’ultimo mese, ci sono 13 paesi che stanno meglio di noi e 12 che stanno peggio (vedi grafico seguente). In breve: siamo a metà classifica. Lo stesso accade se, anziché guardare ai morti per abitante, guardiamo al valore di Rt: anche in questo caso, metà dei paesi ci precedono e metà ci seguono.

Il secondo dato è che, nella stragrande maggioranza dei paesi, il valore di Rt è maggiore di 1. Ossia: l’epidemia galoppa quasi ovunque. Ma soprattutto, e qui sta il lato sorprendete, galoppa indipendentemente dalla copertura vaccinale. Anche nei paesi che, come Portogallo e Spagna, hanno vaccinato quasi il 100% della popolazione vaccinabile, il valore di Rt è ampiamente sopra 1, e analogo a quello dell’Italia. A giudicare dai dati disponibili, la vaccinazione riduce drasticamente la mortalità, ma non ha alcun impatto apprezzabile sulla diffusione del contagio. Dunque vaccinare è necessario, ma non sufficiente.

Sulle ragioni che fanno sì che il pieno successo della campagna vaccinale non basti a fermare l’epidemia si può discutere a lungo, perché nessuno ha dati sufficienti a fornire una riposta incontrovertibile. Al momento la spiegazione che più mi convince, anche in quanto supportata da alcune analisi statistiche su dati americani, è che la capacità dei vaccinati di trasmettere l’infezione sia stata ampiamente sottovalutata. Detto in altre parole: si confonde la capacità dei vaccini di proteggere dalla morte e dalla malattia grave (che è indubbia e molto elevata) con la loro capacità di rallentare la trasmissione. Da questo punto di vista la strategia di “premiare i vaccinati”, lasciando loro la libertà di fare quasi tutto, o la scelta di rimandare la quarantena nelle classi scolastiche fino a quando non vi sia un focolaio di almeno tre studenti positivi, appare quantomeno imprudente. L’idea che la colpa sia (quasi) tutta dei non vaccinati, e che vaccinando (quasi) tutti le cose tornerebbero miracolosamente a posto, è incompatibile con i dati: se fosse corretta, non assisteremmo a una preoccupante espansione dei casi in Spagna, Portogallo, Irlanda, Danimarca, Malta, Islanda, tutti paesi che hanno vaccinato moltissimo.

Che fare, dunque?

Prima di tutto, prendere atto che non siamo i primi della classe. E poi avere il coraggio di farci la domanda cruciale: siamo sicuri che la ricetta italiana, fatta di vaccini + restrizioni, sia la strada giusta per tenere sotto controllo l’epidemia?

Io penso che non lo sia, e che anche l’Europa dovrebbe cominciare a riflettere sul problema. L’esperienza di due stagioni fredde e due stagioni calde dovrebbe averci insegnato che l’illusione di domare il virus prende forma e si consolida in estate, ma immancabilmente svanisce con l’autunno.

Puntare tutte le carte su vaccini e restrizioni significa tenere permanentemente sotto pressione il sistema sanitario (100 o 150 milioni di vaccinazioni all’anno non sono uno scherzo, come ha fatto notare il prof. Crisanti), con conseguente drammatica riduzione delle cure ordinarie, e chiamare periodicamente i cittadini (compresi i vaccinati) ad accettare pesanti restrizioni alla loro libertà, ogni qualvolta il generale inverno subentra al generale estate.

Possibile che non vi siano alternative? Possibile che, al di là della vaccinazione perpetua che ci si prospetta, quasi tutto l’onere dell’aggiustamento ricada sui cittadini?

In realtà le alternative diverse dalla diade vaccinazioni + sacrifici esistono, e sono state più volte indicate, non solo dagli studiosi. Non le ricorderò tutte, ma vorrei almeno ricordarne due: il tracciamento elettronico (del tutto abbandonato dopo il fallimento dell’app Immuni) e la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da scuole, uffici, metropolitane, mediante filtri e ventilazione meccanica controllata (ne ha parlato pochi giorni fa l’ing. Buonanno su questo giornale).

L’elemento comune di tali interventi, snobbati non solo in Italia ma in buona parte d’Europa, è che non impattano né sul sistema sanitario (a differenza della vaccinazione di massa), né sulla nostra libertà (a differenza delle restrizioni). E, nel caso dell’approccio ingegneristico al controllo della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, ci regalano una realistica speranza: quella di affrontare meno indifesi la stagione fredda, che è il vero tallone di Achille della lotta al virus.

Pubblicato su Repubblica del 6 dicembre 2021




La più iniqua delle tasse

Non sappiamo ancora, alla fine, a chi andranno gli 8 miliardi di alleggerimenti fiscali promessi dal governo. Quel che è certo è che la ripartizione ipotizzata – 7 miliardi di sgravi Irpef, 1 miliardo di sgravi Irap – non piace ai sindacati, che vorrebbero che i benefici fossero riservati ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, e non piace a Confindustria, che vorrebbe che gli sgravi fossero maggiori e concentrati sul cuneo fiscale. Da sociologo, sono stupito che, finora, nessuno abbia ipotizzato di convogliare tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione, andando a colpire la diseguaglianza principale del sistema Italia, ovvero la frattura fra chi un lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha.

Ma quanto impattano 8 miliardi sui bilanci delle famiglie?

Un calcolo di larga massima restituisce un mesto risultato: in media, lo sgravio ammonta a un po’ meno di 30 euro al mese.

Meglio che niente, si potrebbe dire. Ma sarebbe più esatto dire: meno di niente.

Per capire perché, dobbiamo fare i conti con il convitato di pietra del dibattito sulla legge di bilancio: l’inflazione. Se ne parla ancora poco, ma la realtà è che già oggi l’inflazione ha rialzato la testa (+3.8%, secondo le ultime stime dell’Istat), e nessuno sa ancora se il rialzo sarà temporaneo o permanente.

Ma, a parità di altre condizioni (ossia: se i redditi nominali restano fermi), una inflazione anche solo del 3% significa una perdita di potere di acquisto di circa 30 miliardi, che assorbirebbe completamente gli 8 miliardi di sgravi promessi. Siamo come commensali che litigano sugli antipasti, senza accorgersi che qualcuno si sta portando via il resto del pranzo.

Per capire la natura della situazione in cui ci troviamo, forse non è inutile ritornare indietro di qualche decennio, ovvero ai tempi dell’inflazione a due cifre, quando, comprensibilmente, l’attenzione dell’opinione pubblica era concentrata sull’erosione continua del potere di acquisto.

Ebbene, come si parlava di inflazione negli anni ’70 e ’80? E, soprattutto, come ne parlavano i sindacati?

Fondamentalmente mediante tre parole-chiave: iniquità, illusione monetaria, fiscal drag.

Iniquità. L’inflazione, come già aveva avvertito Lugi Einaudi, è “la più iniqua delle tasse” perché, riducendo il potere di acquisto, colpisce di più i ceti bassi (che spendono in consumi la maggior parte del loro reddito) che i ceti alti.

Illusione monetaria. L’inflazione, quando si accompagna a un aumento dei redditi nominali inferiore all’inflazione stessa, crea la percezione illusoria di un aumento del reddito in termini reali.

Fiscal drag (drenaggio fiscale). Se non è accompagnata da un abbassamento sistematico delle aliquote fiscali, l’inflazione comporta automaticamente un aumento della pressione fiscale, ossia un prelievo di quote crescenti del reddito.

Riportati a quel che succede oggi, i tre concetti permettono di azzardare una semplice lettura dell’impatto della manovra: i ritocchi delle aliquote mitigano il fiscal drag ma, in presenza di un’inflazione elevata, difficilmente basteranno a neutralizzare la diminuzione del potere di acquisto, che penalizza prevalentemente i ceti popolari.

Ma è verosimile la previsione di un’inflazione elevata per l’anno prossimo?

Penso di sì, per due ragioni. La prima è che, anche ove avessero ragione gli analisti che considerano temporanea la fiammata attuale dei prezzi, difficilmente le cause che ne sono all’origine si spegneranno a breve termine. Vale per i prezzi dell’energia e delle materie prime, vale per le strozzature della logistica, ma vale anche per le difficoltà di trovare personale a tutti i livelli di qualificazione. Siamo abituati, in Italia, ad associare le difficoltà di reperire manodopera alle (indubbie) storture del reddito di cittadinanza, ma gli ultimi mesi ci hanno rivelato che il problema si presenta in tantissimi altri paesi, quasi che una parte dei lavoratori avesse scoperto – con la pandemia – di poter far a meno del lavoro, o del lavoro alle condizioni precedenti l’arrivo del Covid.

La seconda ragione per cui ritengo verosimile, almeno nel breve periodo, il permanere di un’inflazione elevata, è che l’inflazione stessa è un formidabile strumento per alleggerire il peso del debito pubblico. L’inflazione, prima o poi, trascina con sé un aumento dei redditi monetari, che gonfia il Pil nominale e così contribuisce a ridurre il rapporto debito-Pil, da cui dipende la sostenibilità dei nostri conti pubblici.

Che il ritorno dell’inflazione si riveli, alla fine, un fenomeno transitorio oppure no, lo decideranno soprattutto le politiche più o meno restrittive della Fed e della Bce, ovviamente condizionate dalle pressioni dei governi. Ma mi riesce difficile pensare che, in questa partita, l’Italia si schieri a favore dei nemici dell’inflazione. Chiunque ci governerà, sarà ben consapevole che un po’ di inflazione fa bene ai nostri conti pubblici.

Tutto sta a vedere se sarà anche consapevole che, se non è accompagnata da altre politiche che ne neutralizzino gli effetti indesiderati, l’inflazione resta – come avvertiva Einaudi – la più iniqua delle tasse.

Pubblicato su Repubblica del 1° dicembre 2021




Covid19, il sogno di un’estate senza fine

Modificando una condizione al contorno applicata ad un sistema termodinamico, esso evolve fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, compatibile con i nuovi vincoli del sistema.

E’ un principio basilare della termodinamica: ma che significa per noi?

Immaginate come sistema la nostra società di individui con la propria moltitudine di interazioni. E ritornate con la mente all’estate, quando il sistema era in equilibrio con bassa incidenza del virus, ridotta trasmissione, alta protezione da vaccinazione. Cosa è cambiato da un paio di mesi rispetto a questa condizione? Quali condizioni al contorno stanno spingendo il sistema verso una nuova condizione di equilibrio?

Le percentuali di vaccinazione sono cresciute ulteriormente, ma non si è tenuto conto che i vaccini hanno una efficacia che si riduce nel tempo, sia nella protezione contro l’infezione che contro la malattia. Stime recenti indicano un tempo di soli 3-4 mesi per una diminuzione sostanziale dell’efficacia all’infezione. Quindi la durata della protezione è di gran lunga inferiore al tempo necessario per vaccinare percentuali elevate di popolazione (in Italia abbiamo impiegato 9 mesi per vaccinare l’80% della popolazione) e, non potendo mai avere una copertura adeguata, saremmo sempre costretti ad inseguire le ondate.

Una diversa condizione al contorno è l’autunno (e ancor più l’inverno) con un aumento dell’interazione dei soggetti negli ambienti chiusi. E qui entra in gioco un errore importante che le autorità sanitarie continuano a commettere: infatti il virus si propaga quasi esclusivamente per aerosol e non con i droplets (goccioline) o le superfici. Una persona infetta (vaccinata o non vaccinata) emette il virus dalla bocca all’interno di particelle in grado di galleggiare in aria come del fumo: e queste non cadranno al suolo in prossimità della persona come il mondo medico ci ha raccontato.

Come ci difendiamo dal fumo di una sigaretta? All’aperto è facile, perché il rischio dipende solo dalla distanza e dal tempo di esposizione. Tempi di esposizione di qualche secondo all’emissione di un soggetto infetto rendono accettabili anche distanze inferiori al metro. Non c’è necessità di utilizzare mascherine in ambienti aperti se non per esposizioni di diversi minuti davanti ad un soggetto che parla. Il rischio di inalare una dose sufficiente di carica virale sospesa in aria è invece rilevante negli ambienti chiusi senza un intervento sull’ambiente.

Sono attualmente protetti gli ambienti chiusi? Assolutamente no, non lo sono mai stati neanche durante le precedenti ondate per il mancato coinvolgimento delle competenze ingegneristiche. Questo errore non lo commettiamo a casa nostra quando cuciniamo perché ci affidiamo agli ingegneri per ridurre la nostra esposizione al fumo (cappe aspiranti, ventilazione) pur sapendo che nuoce alla salute. Le nostre autorità purtroppo si sono affidate solo al vaccino, senza coinvolgere gli ingegneri.

Dalla storia sappiamo che tutte le epidemie passano, ma la storia può esserci di aiuto anche per acquisire la consapevolezza necessaria per affrontare le prossime. Nella Londra vittoriana John Snow (1813-1858) intuì che il contagio da colera avveniva attraverso l’acqua e non attraverso i miasmi millantati dalla comunità medica. Da allora gli ingegneri hanno messo in sicurezza l’acqua e oggi nessuno di noi utilizza dispositivi per purificare l’acqua, un bene primario. Non temiamo più agenti patogeni trasmessi dall’acqua, perché sappiamo come si trasmettono e come limitare il contagio.

Perché questo non dovrebbe essere valido anche per l’aria?

Gli ingegneri sono oggi in grado di mettere in sicurezza l’aria e ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di respirare aria priva non solo di inquinanti, come è stabilito dal rapporto The Right to Breathe Clean Air (Il diritto di respirare aria pulita) delle Nazioni Unite, ma anche di agenti patogeni. E’ un dovere del gestore di ogni luogo pubblico o di lavoro garantire la sicurezza di chi entra in un ambiente. Visione questa opposta all’attuale, in cui la sicurezza di un individuo è delegata ai comportamenti non virtuosi ma spesso inconsapevoli dei cittadini.

Le rassicurazioni delle autorità sanitarie sull’evoluzione del nostro sistema non sono realistiche: senza una modifica sostanziale delle attuali condizioni che riduca in modo drastico i contagi negli ambienti chiusi, si arriverà a situazioni simili a quelle di altri paesi Europei, e la protezione della popolazione mediante percentuali ancora più elevate di vaccinati rischia di essere un miraggio. Il mancato coinvolgimento degli ingegneri (utili anche per uno smorzamento delle tensioni sociali) rende probabile il sopraggiungere delle temute chiusure con conseguenze pesanti sul piano sanitario ed economico. La risposta decisiva alla presenza di un virus endemico esiste: trasformare gli ambienti chiusi in ambienti simil-aperti che ci proteggano anche dalle nuove varianti in arrivo, come se vivessimo in una estate continua. Sembra fantascienza, ma anche la visione di Snow nell’Ottocento fu probabilmente considerata solo l’utopia di un sognatore.

Prof. Giorgio Buonanno
Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Queensland University of Technology, Australia

Luca Ricolfi
Docente di Analisi dei dati
Università di Torino

 




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.




Il caso Stock e la nostra libertà

In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

Qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Non si pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come l’Italia: le cronache raccontano che le intimidazioni verso la professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle   ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ricorrere a un numero di emergenza in caso di pericolo.

Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionate di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo.

Ma la libertà di espressione di chi?

Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse, o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più estremi del loro mondo. Materia del contendere, soprattutto, la richiesta degli uomini che si sentono donne di accedere agli spazi tradizionalmente riservati alle donne, come bagni, spogliatoi rifugi/centri anti-violenza, reparti femminili nelle carceri, competizioni sportive fra donne. Chiunque osi difendere tali spazi, è bollata come TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist), un acronimo usato quasi sempre in chiave denigratoria e dispregiativa.

Di qui tutta una serie di insulti, minacce, aggressioni, cancellazioni di conferenze, richieste di dimissioni o di licenziamento che hanno colpito, in particolare, tre categorie: scrittrici celebri, come Margareth Atwood e Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter; giornaliste come Suzanne Moore, Julie Bindel, Marina Terragni; ma soprattutto una schiera di professoresse universitarie, specialmente britanniche: Rosa Freedman, Germaine Greer, Kate Newey, Jo Phoenix, Janice Raymond, Selina Todd, solo per citare i casi più noti.

Questa vicenda presenta, a mio parere, due aspetti sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne, specie se   femministe e/o impegnate in una professione intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla libertà delle donne, tradizionalmente descritte come discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una minoranza a sua volta discriminata.

Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che esprimono la loro opinione in materia di identità di genere, finisca per funzionare come una profezia che si auto-avvera. Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans, ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire ‘paura’ e intendere ‘odio’. Ma nel momento in cui una donna viene minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La professoressa Stock ha lasciato l’università precisamente perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia finisce per secernere transfobia vera e letterale, pura e semplice paura fisica dei membri di una comunità.

Come se ne esce?

Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito è il Governo stesso, anche sotto la pressione del caso Stock, che si sta interrogando su come garantire i diritti delle donne e la libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti.

Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle loro università sia perduta, e che per cambiare le cose occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca disinteressata della verità, della conoscenza, della cultura, è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui professori e studenti possano esprimere senza timore le loro idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive. Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa Stock troverà rifugio proprio lì.

E nell’Unione europea? E in Italia?

Vedremo. L’importante è che non si metta la testa sotto la sabbia, e si affronti il problema. Senza paura.

Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2021