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ChatGPT – Gli imposturati autorevoli e la Superluna

22 Agosto 2023 - di Paolo Musso

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L’articolo di Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/) sull’esperimento da lui condotto insieme ad alcuni colleghi con ChatGPT (che qui chiamerò, come lui, semplicemente Chat) mi ha lasciato così sbalordito che finalmente mi sono deciso a fare anch’io un piccolo esperimento che avevo in mente da tempo e che continuavo a rimandare.

Posso già anticipare che i risultati non solo hanno confermato quelli di Ricolfi e soci, ma, se possibile, sono stati ancor più sconcertanti. Per riferirli e commentarli in dettaglio, tuttavia, ci vorrà qualche giorno, perché il discorso è abbastanza complesso.

Nell’attesa, vorrei porre un’altra questione, molto più semplice, ma non meno sconcertante: perché così tante persone autorevoli si sono fatte imposturare da Chat? (Mi scuso per il termine desueto, ma la colpa è di Ricolfi: se avesse definito Chat “imbroglione” anziché “impostore” avrei potuto cavarmela con un più ordinario “imbrogliati”.)

Perché è successo. E sta ancora succedendo, anche se una certa calmata generale c’è stata, passato il primo shock ed emerse le prime critiche. Ma temo che riguardi più la forma che la sostanza.

Non ho tempo né voglia di mettere insieme un florilegio di citazioni a conferma di ciò, ma confido che non sia necessario e che tutti ricordino ancora le dichiarazioni dei primi che avevano provato Chat.

Tra gli apocalittici c’era chi si dichiarava ”sconvolto”, chi “terrorizzato”, chi diceva che bisognava metterlo subito fuori legge e staccargli la spina prima che ci facesse fuori tutti: insomma, sembrava che fosse apparso Skynet in persona artificiale e che fosse solo questione di (poco) tempo prima che al suo fianco comparisse anche Terminator.

Tra gli integrati, al contrario, era tutta una gara a profetizzare le meraviglie che avrebbe portato l’avvento di un’era in cui le macchine avrebbero risolto tutti i nostri problemi tranne quello di come fare a non annoiarci, con tutto quel tempo libero a disposizione.

Nel mezzo c’erano i rassegnati, i quali, in piena sindrome di Stoccolma, tra un sospiro e una lacrima trattenuta a stento ma anche no, ci spiegavano che, certo, a loro questa svolta non andava giù, che avrebbero sempre rimpianto i bei tempi umani andati, ma, appunto, ormai sono andati, or non è più quel tempo e quell’età, e via, bisogna crescere, anche se è tanto triiiiisteee, ma bisogna accettarlo, siamo noi quelli sbagliati, Chat è il progresso, bellezza, e tu non puoi farci niente.

Su una cosa, però, tutti e tre i gruppi erano d’accordo: Chat era davvero intelligente, anzi, più intelligente di noi, o forse, beh, non ancora, ma lo sarebbe diventato molto presto, comunque sia cambiando l’ordine degli algoritmi il risultato non cambia e noi umani finiremo inevitabilmente in una prigione dorata o in una prigione-prigione o in una prigione di rimpianti, secondo il caso, ma in ogni caso verremo messi da parte e insomma la Singolarità è dietro l’angolo o magari c’è già stata e noi non ce ne siamo accorti perché viviamo dentro la nostra Matrix personale, pietosamente creata da Chat perché possiamo continuare a illuderci di contare ancora qualcosa.

(Per chi non lo sapesse, la Singolarità sarebbe il momento in cui l’intelligenza delle macchine supererà quella umana. Sempre per chi non lo sapesse, la teoria è stata inventata dall’informatico Raymond Kurzweil il quale, avendo da sempre una fottuta paura di morire, spera che le macchine lo renderanno immortale trasformandolo in un programma per computer. Ma se volete continuare a crederci ignorate pure questa informazione: dopotutto la teoria è assurda di per sé stessa e se la cosa non vi fa problema perché mai dovrebbe turbarvi questo insignificante dettaglio?)

Ho esagerato? Sì, forse un po’. Ma solo un po’, e comunque non ne sono neanche tanto sicuro. Sia come sia, la domanda resta: come è possibile che nella vicenda di Chat così tanti abbiano agito in modo così assurdo?

La domanda ricalca (non casualmente) quella che avevo posto all’inizio del mio articolo conclusivo sulle vicende del Covid (https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/). Ma è anche la stessa che si potrebbe porre sulla guerra in Ucraina. O sul politically correct. O sulla crisi ecologica. O su pressoché qualsiasi altra cosa stia accadendo in questo nostro assurdo tempo. E, come già per il Covid, esistono molte risposte parziali, ma nessuna pienamente soddisfacente.

Perché sì, è vero, l’intelligenza artificiale, essendo a base matematica, funziona molto meglio con la scienza, per cui è probabile che chi ha testato Chat in contesti scientifici abbia ottenuto risultati migliori. Tuttavia, gli scienziati non vivono sempre nei laboratori e avrebbero dovuto accorgersi che al di fuori di essi Chat si trasforma nell’impostore (neanche tanto) autorevole descritto da Ricolfi.

Ed è anche vero che altri hanno usato su di lui gli algoritmi di valutazione che ormai si usano in molti contesti per valutare le prestazioni degli esseri umani e se si usa  un algoritmo per confrontare le prestazioni di un uomo con quelle di un algoritmo non è sorprendente che quest’ultimo goda di un certo vantaggio. Tuttavia, non dovrebbe essere tanto difficile capire che se un produttore seriale di fake news supera un test, ciò non promuove lui, ma boccia il metodo di valutazione usato.

Ma, soprattutto, la maggior parte delle persone che si sono dette convinte della natura intelligente di Chat non appartenevano a queste categorie, ma erano persone normali che avevano interagito con lui parlando di cose della vita ordinaria: quelle in cui Chat se la cava peggio.

E quindi ritorna la domanda: perché?

Mentre pensavo a tutto questo, mi è venuto in mente che poco tempo fa avevamo assistito a una vicenda analoga, benché per fortuna assai più innocua: è stato lunedì 31 luglio, quando c’è stata la “Superluna”.

Il fenomeno è causato dal fatto che la Luna, come tutti i corpi celesti, si muove su un’orbita ellittica, per cui quando si trova nel punto più vicino alla Terra (perigeo) appare un po’ più grande, mentre quando si trova nel punto più lontano (apogeo) appare un po’ più piccola. Quando la Luna è piena mentre si trova vicina al perigeo, si ha la Superluna.

Tuttavia, la Luna nel cielo appare grande come una moneta e la differenza tra la minima e la massima dimensione apparente è di appena 1/12, cioè la stessa che c’è tra guardare un pallone da calcio da 72 o da 80 metri di distanza. È difficile credere che qualcuno possa percepirla a occhio nudo, tanto più con la nostra scarsa abitudine a osservare il cielo notturno. E meno ancora si può credere che qualcuno possa percepire la differenza tra la Superluna e le quasi-Superlune del giorno prima o di quello dopo, che è praticamente nulla. E infatti la Superluna si verifica regolarmente ogni due o tre mesi fin dall’età della pietra e mai nessuno ci ha fatto caso.

O meglio, mai nessuno fino a qualche anno fa, quando improvvisamente tutti i giornali e le televisioni, sempre a caccia di sensazionalismi idioti da sparare in prima pagina, hanno cominciato a “pomparla” con toni esagitati e completamente staccati dalla realtà.

Risultato: moltissima gente che non l’aveva mai fatto prima si è improvvisamente messa a guardare la Luna. E questo sarebbe anche un fatto positivo, ancorché ottenuto con mezzi impropri. Ma la cosa incredibile sono state le reazioni. Ho visto al telegiornale persone che si dichiaravano “sconvolte”, parlavano di “emozione unica”, quasi si mettevano a piangere in diretta, alcune erano addirittura spaventate…

Ora, queste emozioni non potevano essere state causate dalla Superluna, perché, stante ciò che ho detto prima, ai nostri occhi la Superluna è indistinguibile da una qualsiasi Luna piena “normale”, che non ha mai sconvolto nessuno, a parte Giacomo Leopardi e (forse) qualche coppietta di innamorati particolarmente su di giri. Eppure, erano emozioni assolutamente sincere. Dunque da che cosa erano state causate?

L’unica risposta possibile è: dall’aspettativa di provarle, generata dalla pressione mediatica. In parole povere, siccome giornali e tv avevano detto che si sarebbe trattato di uno spettacolo unico che avrebbe causato forti emozioni, la gente, o almeno parte di essa, si è per così dire “sentita in dovere” di provare quelle emozioni e così ha finito col provarle realmente.

Ebbene, credo che con Chat sia successa la stessa cosa.

Da decenni, infatti, tutti i media, non solo giornali e tv, ma anche e soprattutto la letteratura e il cinema di fantascienza, ci bombardano in continuazione con la “previsione” che le macchine un giorno saranno più intelligenti di noi e con la descrizione di tutte le cose sconvolgenti che ciò “inevitabilmente” causerà.

Così, i primi che hanno interagito con Chat inconsciamente “si aspettavano” che fosse intelligente e, sia che lo sperassero, sia che lo temessero, si sono comunque “sentiti in dovere” di vedere in lui dei segni di intelligenza e di provare determinate emozioni, benché tutto ciò non avesse alcun rapporto con la realtà che avevano di fronte.

Che questo meccanismo perverso abbia coinvolto anche persone colte, intelligenti e autorevoli, facendo sì che si lasciassero bellamente abbindolare da quell’impostore di Chat, la dice lunga su quanto grave e onnipresente sia ormai diventata la frattura tra ragione e realtà e su quanto ci abbia resi vulnerabili ai tentativi di manipolarci, perfino a quelli più scemi.

Alla prossima per i risultati dell’esperimento e per intanto buon Chat a tutti!

Sul partito di Giorgia Meloni – Il grande abbaglio

21 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

La sinistra è spiazzata. Sia pure a denti stretti, ha dovuto lodare l’intervento del governo sugli extra-profitti delle banche. E sul problema dei bassi salari, del lavoro povero, del salario minimo, non ha potuto non prendere atto della disponibilità di Giorgia Meloni ad aprire un confronto costruttivo.

Non è la prima volta che il Governo dà segni di apertura sul versante sociale: era già successo con la Legge di bilancio, zeppa di misure a favore dei ceti bassi, e più recentemente con il taglio del cuneo fiscale per i dipendenti con redditi medio-bassi. Ma è la prima volta che l’opposizione non sa che cosa ribattere. Ai tempi della Legge di bilancio poteva prendersela con la cancellazione del reddito di cittadinanza, con i condoni più o meno mascherati, con le nuove regole sul contante. In occasione del decreto del 1° maggio sul taglio del cuneo fiscale aveva provato a criticarlo perché temporaneo, e perché accompagnato da misure “precarizzanti”.  Oggi non più. Oggi l’opposizione non ha frecce retoriche al proprio arco perché il governo di centro-destra, uno dopo l’altro, le sta soffiando i cavalli di battaglia: riduzione del cuneo fiscale, tassa sugli extra-profitti, lotta allo sfruttamento.

È dunque giunto il momento di chiedersi: come è potuto accadere? Perché l’opposizione non è riuscita a prendere le misure al governo di Giorgia Meloni?

Io credo che la risposta sia semplice da formulare, anche se non semplicissima da spiegare: i partiti di opposizione e il sistema mediatico che li sostiene hanno commesso, fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, un clamoroso e sistematico errore di classificazione nei confronti della coalizione di destra in generale, e del partito di Giorgia Maloni in particolare. Anziché parlare di centro-destra, come avevano fatto dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi in poi, hanno iniziato a parlare di destra-centro, di destra-destra, di estrema destra, quando non a evocare il fascismo. E il bello è che quasi nessuno degli innumerevoli politologi e sociologi della politica che scrivono sui grandi media ha fatto notare l’abbaglio.

Eppure doveva essere chiaro. Il partito di Giorgia Meloni, che si avviava a diventare di gran lunga il primo partito italiano, è il meno a destra dei tre principali partiti che costituiscono la coalizione di centro-destra, almeno finché accettiamo la classica definizione dell’asse destra-sinistra di Anthony Downs e della sua “teoria economica della democrazia” (1957). Secondo questo modo di vedere – che non è l’unico possibile ma è ancora quello più autorevole – il criterio fondamentale per collocare i partiti lungo l’asse destra-sinistra è la quantità di intervento pubblico desiderato: il minore possibile quanto più ci si muove verso destra, e il maggiore possibile quanto più ci si muove verso sinistra. A un estremo la ricetta liberista meno tasse e meno spesa pubblica, all’altro estremo la ricetta assistenzialista più tasse e più spesa pubblica.

Ebbene, basta un minimo di conoscenza della storia di Fratelli d’Italia per rendersi conto che la flat tax non è mai stata una sua bandiera, e che le sue radici stanno semmai nella destra sociale, per la quale l’intervento dello Stato nell’economia a sostegno dei più deboli non è certo un tabù. Sull’asse destra-sinistra quale lo caratterizza la teoria economica della democrazia, Fratelli d’Italia non sta più a destra di Lega e Forza Italia, ma più a sinistra. Ecco perché è stato un clamoroso errore di classificazione quello di descriverlo come collocato all’estrema destra.

Ora quell’errore presenta il conto. Non avendo capito che Fratelli d’Italia non è, come viene ingenuamente dipinto, un partito che aspira a tutelare i ricchi e punire i poveri, l’opposizione si trova a dover fare i conti con uno scenario imprevisto: l’irruzione della questione sociale, resa esplosiva dal caro-vita e dal caro-mutui, in un contesto in cui i partiti più importanti – Fratelli d’Italia, Pd, Cinque Stelle – sono tutti in qualche misura statalisti e interventisti, anche se ciascuno a modo suo.

È questo che ha spiazzato l’opposizione. È su questo che, presumibilmente, si giocherà la partita di autunno.

Umanizzazione del software e professione dello psicologo – L’impero del verosimile

16 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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Quando chiacchiero con una psicologa o uno psicologo che esercita la professione (anziché limitarsi a far lezione all’università), immancabilmente registro la medesima credenza: che il paziente, per guarire, abbia necessità di interagire sistematicamente con il terapeuta. Fino a qualche tempo fa, questi discorsi tendevano ad escludere, limitare, o sminuire il ruolo degli psicofarmaci, tipicamente somministrati dai neurologi. Oggi è diverso: lo spettro che si aggira sulle professioni dell’aiuto psicologico non è la concorrenza delle cure neurologiche, ma quella delle applicazioni dell’intelligenza artificiale.

La possibilità che in futuro i pazienti accettino di farsi curare da un chatbot – ossia da un programma che conversa più o meno amabilmente con loro – o da un avatar dello psicologo, che si presenta con il medesimo aspetto del terapeuta ma è animato da un algoritmo soggiacente, non è affatto una eventualità remota. Verso questo esito, infatti,  sospingono e convergono almeno tre grandi processi storici.

Il primo è la crescente tendenza dei pazienti a fidarsi di tutto ciò che trovano in rete, senza la mediazione di operatori umani. Se sei abituato a curare l’insonnia, la gastrite, o il mal di testa consultando direttamente uno degli innumerevoli siti di consigli medici, sei già predisposto ad accogliere con entusiasmo qualsiasi programma che, presentandosi in vesti umane, renda ancora più agevole la tua ricerca di una cura.

Il secondo processo storico è la perdita della capacità di distinguere ciò che è vero da quel che è solo verosimile, o spudoratamente fake. Ma forse sarebbe più esatto dire: la perdita di interesse per la distinzione fra reale e artificiale, fra autentico e artefatto. Se un video è divertente, a nessuno interessa che sia reale o inventato. Se Musk e Zuckerberg, padroni rispettivamente di Twitter e Facebook, si affrontano in un sito archeologico, a nessuno interessa se combattono per finta o per davvero. Se un film piace, a pochi importa che i protagonisti siano attori in carne e ossa, o siano invece attori virtuali generati da un software di grafica 3D (da tempo esiste la tecnologia per far recitare attori scomparsi).

Del resto, è l’evoluzione stessa della tecnologia che rende sempre più velleitaria l’antica pretesa di distinguere il vero dal fake. È dei giorni scorsi la notizia che una donna americana è riuscita a scoprire i tradimenti del fidanzato con un software capace di trasformare la voce della donna stessa in quella di uno specifico maschio: è bastato assumere l’identità vocale di un amico del fidanzato fedifrago per farsi raccontare la scappatella. E basta giocare per qualche ora con ChatGPT per rendersi conto di quanto la produzione di informazioni verosimili ma false stia diventando la norma della comunicazione online.

Il terzo processo che mette a repentaglio il futuro professionale degli psicoterapeuti è il meno facile da intercettare, ma è il più pericoloso. Poco per volta, e per ora in modo appena percettibile, ci stiamo abituando a umanizzare il software, o meglio i personaggi virtuali con cui il software basato sull’intelligenza artificiale cerca di sedurci. Non mi riferisco solo agli assistenti virtuali, come Alexa (Amazon) e Siri (Apple), che da tempo dialogano amabilmente con noi e ci accompagnano nei gesti della vita quotidiana. Il vero “salto di umanizzazione” lo fanno i programmi di intelligenza artificiale che si presentano direttamente come persone, con tanto di sentimenti, capacità di dialogo, amicizia, empatia. È il caso di Replika, un chatbot nato alla fine del 2017 che – a pagamento – può fornire all’utente un partner “romantico”, con tendenza a virare sul sessualmente molesto. Negli Stati Uniti ci sono casi di donne che lo hanno usato per trovare (si può dire così?) il compagno ideale, fino all’innamoramento e alla pagliacciata di celebrare un “matrimonio” con il partner virtuale.

Il punto interessante non è che il chatbot riesca a interagire come un essere umano, che sappia corteggiare, molestare, chiedere foto sessualmente esplicite, ma che milioni di utenti (non si sa esattamente quanti) lo usino, e siano disposti a pagare per farlo passare dallo stadio dell’amicizia a quelli più spinti del corteggiamento, della pornografia, dell’adescamento. In breve: la attribuzione al software di caratteristiche umane, e la connessa disponibilità a impegnarsi in relazioni sentimentali ed emotive con chatbot più o meno spregiudicati, non è un rischio del futuro, ma una realtà perfettamente attuale. Perché accada che lo psicoterapeuta, lo psicanalista, lo psichiatra vengano rimpiazzati da un chatbot-psicologo, meno costoso e sempre a disposizione, non occorre costruire una macchina in grado di provare sentimenti: basta che sempre più esseri umani imparino a credere che lo sia.

ChatGPT – L’impostore autorevole

12 Agosto 2023 - di fondazioneHume

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Quando si parla di ChatGPT – il programma che fornisce risposte istantanee su quasi tutto lo scibile umano – di solito scatta lo schema: molto comodo e interessante, ma non infallibile. Come dire: quasi sempre ChatGPT fornisce una risposta corretta, ma alle volte può incorrere in infortuni più o meno clamorosi. Quindi state attenti, controllate anche altre fonti, eccetera.

Questa visione delle capacità e dei limiti di ChatGPt è ancora quella dominante in Italia, e in parte anche all’estero. Ma è profondamente errata. Del tutto errata, direi. Perché presuppone che Chat (d’ora in poi userò l’abbreviazione) sia programmato per soddisfare un utente che cerca la verità, solo la verità, e non desidera ricevere informazioni false.

Questa, alla luce del funzionamento effettivo di Chat, è una credenza decisamente ingenua. Come ha notato qualche mese fa Tim Harford sul Financial Times, Chat non è programmato per generare affermazioni vere, ma per fornire risposte verosimili, ossia risposte che possano essere credute vere, anche a costo di inventarle di sana pianta. In questo senso, nota Tim Harford, Chat è la perfetta realizzazione di un concetto messo a punto dal filosofo statunitense Harry Frankfurt in un celebre saggio-pamphlet degli anni ’80, significativamente intitolato Bullshit (letteralmente: stronzate): quello della proliferazione incontrollata di affermazioni campate per aria ma verosimili, ovvero plausibili.

Ecco, in passato eravamo soli a raccontare, millantare, inventare storie, per gli scopi più diversi: far impressione su una ragazza, essere ammirati dai nostri amici, mostrare competenza davanti ai colleghi, in generale intrattenere gli astanti. Ora non più, ora interagiamo con un software che si comporta con noi come noi ci comportavamo con i nostri interlocutori. Lo scopo di Chat non è dirci la verità, ma farci credere di conoscerla. Impressionarci con la sua competenza. Catturare la nostra fiducia e la nostra attenzione, come peraltro si intuisce dallo stile estremamente accattivante, amichevole, personalizzato, gentile, per non dire seduttivo, con cui interagisce con noi.

Mi rendo conto che le mie sono affermazioni molto forti, e poco condivise (almeno in Italia). Ma ho le prove. Un mare di prove. In questo primo articolo su Chat ne fornirò un piccolo campionario, raccontando rapidamente l’esito di alcune interrogazioni.

Con alcuni amici professori universitari abbiamo provato a interrogare Chat su noi stessi e le nostre pubblicazioni. Ebbene, il risultato tipico sono notizie biografiche (data e luogo di nascita) del tutto false, e una lista di pubblicazioni (con tanto di rivista, numero di pagine, eccetera), tutte o quasi tutte inesistenti. Ma, attenzione: quando interrogo Chat su me stesso, i miei campi di interesse sono ben individuati, e i libri e gli articoli che mi vengono attribuiti potrei benissimo averli scritti io. Insomma non c’è un bit di verità nel profilo che Chat mi attribuisce, ma non c’è nulla di inverosimile.

O meglio: non c’è nulla di inverosimile nella lista delle mie pubblicazioni finché la interrogazione avviene da una postazione a Cambridge, in Inghilterra. Ma se ripeto l’interrogazione da una postazione in Italia, escono libri che non solo non ho scritto, ma non avrei mai potuto scrivere: ad esempio: Volemose bene. Chi ha detto che gli italiani sono furbi?, e Amore liquido all’italiana. Posso solo congetturare che una routine “generativa” di Chat mi abbia classificato come giornalista (anziché come sociologo e docente di Analisi dei dati) e mi abbia assegnato pubblicazioni nello stile di certo giornalismo creativo.

Più interessante il caso di mia moglie Paola Mastrocola, che di mestiere fa la scrittrice. Qui Chat sembra adottare la tecnica dei pentiti quando vogliono depistare le indagini, cioè: mescolare fatti veri con fatti inventati ma verosimili. I romanzi citati sono tre: uno vero (Non so niente di te), uno esistente ma di un’altra scrittrice italiana (Lei così amata, di Melania Mazzucco), l’altro anch’esso esistente ma della scrittrice britannica Kerry Hudson (Tutti gli uomini di mia madre).

Potrei continuare con altri esempi. Se chiedi una bibliografia su un dato argomento, può succederti di ottenere una lista con decine di saggi inesistenti, eppure indicati con precisione per rivista, data, numero di pagine. Se chiedi qual è l’articolo di economia più citato di tutti i tempi (ci ha provato l’economista David Smerdon), puoi ottenere un titolo del tutto plausibile (A Theory of Economic History), con due autori a loro volta plausibili (Douglas North e Robert Thomas), e una rivista ospite più che appropriata (Journal of Economic History), salvo scoprire che l’articolo non è mai stato scritto. Non esiste. È la risultante di una routine di Chat, che ha messo insieme elementi effettivamente esistenti per combinarli in una risposta plausibile, senza alcun riguardo alla verità della risposta stessa.

E non è tutto. Ho provato a interrogare Chat sul pensiero di alcuni autori italiani controversi, come Pasolini e don Milani. Il risultato è sconcertante. Le risposte di Chat sembrano il risultato di un processo deduttivo in due stadi: primo, si classifica l’autore dal punto di vista ideologico-culturale; secondo, gli si attribuiscono i pensieri che è ragionevole attendersi in base a come è stato classificato. Pasolini era progressista, quindi era a favore del divorzio (sappiamo invece che è vero il contrario). Don Milani era un educatore illuminato, quindi doveva amare la letteratura antica e lo sport come strumenti di crescita personale (anche qui sappiamo che non è così).

Il caso di Don Milani è particolarmente interessante, perché Chat non solo risponde in modo errato a domande specifiche sul priore di Barbiana, ma ne traccia un profilo del tutto fantasioso. Dopo avergli assegnato tutte le credenze tipiche delle pedagogie progressiste dei nostri giorni, ne segnala il libro Lettera a un professore, che conterrebbe un dialogo con lo storico Adolfo Omodeo. Rimbrottato da me, Chat mi risponde scusandosi, ammettendo che Don Milani non ha affatto scritto Lettera a un professore, ma si guarda bene dal segnalare che – invece – ha scritto Lettera a una professoressa.

Tornerò, in altri articoli, sul funzionamento di ChatGPT. Quel che vorrei sottolineare fin da ora, però, è il suo status epistemico: ChatGPT non è un algoritmo che persegue più o meno imperfettamente la verità, ma un dispositivo che – quando non conosce la verità – si comporta come un affabulatore (Treccani: Affabulatore = persona che narra in maniera affascinante e abile, o che racconta storie affascinanti ma poco fondate o totalmente infondate). In poche parole: un impostore. O meglio: un impostore autorevole, che tale resterà finché ci ostineremo a credergli.

Salario minimo legale – Le conseguenze

10 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Sul problema di un minimo salariale decente, tutti i governi fin qui succedutisi hanno nicchiato. Ora però non sarà più possibile far finta di niente: l’Unione Europea, infatti, ha fissato al 24 novembre del 2024 la data ultima per recepire la direttiva UE sul “salario minimo adeguato”.

In Italia, l’opposizione tutta (Renzi a parte) ha trovato nella proposta di un salario minimo di 9 euro lordi un punto di convergenza, anzi la prima vera occasione di convergenza dal giorno dell’insediamento del governo di Giorgia Meloni. Qui non voglio entrare nella disputa politica, già asprissima, sulla giustezza o meno di questa misura. Piuttosto, vorrei provare a rispondere alla domanda: se dovesse passare la proposta delle opposizioni, che conseguenze osserveremmo sul mercato del lavoro?

Su questo, fortunatamente, la teoria economica ha molto da dire. Ma, prima di indicarne alcune, dobbiamo mettere a fuoco due punti.

Primo, la proposta delle opposizioni non riguarda la retribuzione oraria complessiva, che, oltre alla paga base, include tredicesima, quattordicesima, scatti di anzianità, e altre voci, ma il cosiddetto trattamento minimo tabellare, che esclude tutti gli elementi aggiuntivi della retribuzione. Questo significa che i 9 euro lordi proposti, possono diventare 11 o 12, in dipendenza delle varie situazioni. Le associazioni delle imprese artigiane, come la CGIA di Mestre, hanno già lanciato l’allarme: 9 euro lordi possono andare bene ma solo se vengono calcolati sulla retribuzione complessiva, incluse le voci aggiuntive come la tredicesima.

Il secondo punto è: quali saranno le categorie escluse dal salario minimo? Solo colf e badanti, o anche apprendisti, stagionali, voucher, collaborazioni, finte partite Iva? A seconda della platea di lavoratori coinvolti, l’aggravio di costi complessivo per i datori di lavoro (circa 6.7 miliardi secondo l’INAPP) potrebbe variare considerevolmente.

Ed ora passiamo alle conseguenze. Supponiamo che il salario minimo venga introdotto per legge, ossia che la strada non sia quella di estendere la contrattazione, ma di stabilire un obbligo giuridico. Che cosa capiterebbe dopo l’entrata in vigore della norma?

Dipende dal tipo di datore di lavoro. Nelle imprese regolari in salute e che non ricorrono al lavoro nero, avremmo un aumento dei salari per i lavoratori sottopagati, e quindi una riduzione dei profitti, talora accompagnata da una contrazione degli investimenti. Nelle imprese regolari che operano con margini ridotti, invece, a seconda della propensione al rischio dell’imprenditore, potremmo assistere alla chiusura dell’impresa, o al ricorso al lavoro nero. Nelle imprese che già attualmente operano in modo irregolare, con ampio utilizzo di lavoro nero, non succedere nulla, a meno che cambiasse completamente la politica dei controlli (attualmente quasi del tutto inesistenti). In quest’ultimo caso, avremmo due impatti di segno opposto: per le imprese più floride, l’emersione del nero, per quelle più fragili la chiusura.

In sintesi: il salario minimo legale produrrebbe sia effetti positivi, sia effetti negativi. Nessuno però ha ancora calcolato il saldo di tali effetti, ovvero se quelli positivi supererebbero quelli negativi. Una valutazione di massima suggerisce che quelli positivi potrebbero essere prevalenti nel Centro-nord, quelli negativi nel Sud, dove si concentra il grosso del lavoro irregolare e dei salari inferiori al minimo legale di 9 euro l’ora.

Si potrebbe osservare che, almeno, verrebbe raggiunto l’obiettivo più volte proclamato da Elly Schlein, ossia una drastica riduzione del fenomeno dei working poor (lavoratori poveri, che lavorano ma guadagnano troppo poco). Sfortunatamente, nemmeno questo obiettivo è realisticamente raggiungibile: le statistiche dimostrano che il grosso del fenomeno non si deve ai salari orari bassi, ma allo scarso numero di ore lavorate.

Conclusione: l’idea di un salario minimo legale merita la massima attenzione, ma è ingenuo pensare che basti a spazzare via sfruttamento, precarietà e lavoro povero.

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