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A proposito di stupri – Il lato oscuro della civiltà

3 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Ogni tanto la stampa e le televisioni ci informano di qualche drammatica violenza su donne, ragazze, e persino bambine: stalking, abusi sessuali, stupri, femminicidi. Ultimamente, l’attenzione è caduta su due casi di stupro di gruppo avvenuti uno a Palermo, l’altro a Caivano in provincia di Napoli, in una realtà degradata e ostaggio della criminalità.

Notizie di questo tipo sono doverose, e tanto più utili quanto più accompagnate da ricostruzioni accurate del contesto economico, sociale e culturale in cui i fatti maturano. C’è un risvolto della medaglia, tuttavia. Da questo genere di episodi, di cui si parla qualche volta al mese, possono derivare credenze sostanzialmente errate. Ad esempio, che si tratti di poche decine di casi l’anno. O che la matrice siano le condizioni sociali e culturali, particolarmente problematiche nel Mezzogiorno. O che l’Italia sia una realtà particolarmente arretrata, ben lontana dagli standard di civiltà di tante altre società avanzate.

Ebbene, nessuna di queste letture, spesso stimolate dagli episodi di cronaca, regge a un’analisi dei dati (pur imperfetti e frammentari) di cui oggi disponiamo. Partiamo dal numero di stupri: le denunce sono circa 5 al giorno, con un “numero oscuro” di almeno 50 casi non denunciati ogni giorno. Una stima rozza e per difetto suggerisce che gli stupri siano dell’ordine di 20 mila l’anno.

Ma dove si concentrano gli stupri? I dati disponibili mostrano che, contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, la frequenza è maggiore nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle del Sud. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’interno, relativi al 2021, il record negativo delle violenze sessuali è detenuto dalla civilissima Emilia- Romagna, mentre la regione meno toccata è l’arretrata Calabria. Né si pensi che questa (presunta) anomalia sia una particolarità italiana. Se allarghiamo l’orizzonte, e passiamo a considerare i paesi dell’Unione europea, o l’insieme ancor più ampio dei paesi Oecd, troviamo la stessa regolarità già osservata confrontando le regioni italiane. Sulla base dei pochi dati disponibili, pare che i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrino nei paesi (considerati) più sviluppati, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda, con punte inquietanti negli ultra-moderni, ultra-civili paesi del Nord: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca (per non parlare di quel che accade fra i super-privilegiati e sovra-istruiti studenti dei college americani e britannici, dove alcune inchieste indicano che le studentesse vittime di violenza sessuale sarebbero 1 su 5). Mentre i tassi più bassi si riscontrano in paesi mediterranei come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. In tutte le statistiche il nostro paese si trova sempre nella fascia dei paesi meno esposti alla violenza di genere.

Arrivati a questo punto, so già qual è l’obiezione: è tutta colpa del “numero oscuro”, ossia del tasso di denuncia, presumibilmente molto diverso da paese a paese, e significativamente più alto nei “paesi civili”. Se il centro-nord ha più violenze sessuali del Sud, e la Svezia ne ha molte di più dell’Italia, è solo perché nelle realtà avanzate quasi tutte le violenze vengono denunciate, mentre in quelle arretrate ciò accade soltanto per una piccola frazione del totale.

Questo argomento non è del tutto infondato, ma non basta a spiegare i fatti. Le differenze nei tassi di violenza fra un paese come l’Italia e un paese come la Svezia sono troppo ampie per attribuirle interamente a differenze nei tassi di denuncia, anche perché vari studi condotti nei paesi nordici indicano, anche lì come nel nostro paese, tassi di denuncia molto bassi, dell’ordine di 1 caso su 10 (se non peggio).

Ma c’è un modo sicuro per verificare se il “paradosso nordico” (i territori più avanzati hanno tassi di violenza sulle donne maggiori di quelli più arretrate), è una realtà e non un artefatto statistico: basta confrontare fra loro non le denunce per stupro, ma i femminicidi, per i quali il numero oscuro non può che essere vicino a zero (è molto difficile che l’uccisione di una donna non venga rilevata dalle statistiche). Ebbene, anche in questo caso i paesi del Nord hanno i tassi di femminicidio più alti, l’Italia ha valori comparativamente molto bassi e, dentro l’Italia, è il Centro-nord a primeggiare (sia pure di poco), non l’arretrato Mezzogiorno. Non solo, ma – contrariamente a un pregiudizio molto diffuso – i femminicidi “di possesso” (in cui il maschio non riesce ad accettare la perdita della donna) sono tipici del Nord, non del Sud.

Conclusione: i dati dicono che, tendenzialmente, più avanzata è una realtà dal punto di vista del benessere e della parità di genere, maggiore è il tasso di violenza sulle donne. In quale modo questa circostanza debba essere interpretata, è tutt’altro che ovvio. Ma il fatto resta. E solleva una domanda: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto?

“Lo Zar è autentico oppure no?” – Sulla morte di Evgenij Prigozhin

28 Agosto 2023 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

La morte (ampiamente annunciata) di Evgenij Prigozhin, avvenuta mercoledì 23 agosto, ha riproposto tutti gli interrogativi sulla sua apparentemente incomprensibile rivolta e la sua ancor più incomprensibile resa.

Almeno una, fra le tante ipotesi avanzate, cioè quella complottista, per cui sarebbe stata tutta una farsa, orchestrata di comune accordo con Putin per far “venire allo scoperto” i potenziali traditori, dovrebbe essere stata spazzata via, visto che il suo presunto complice l’ha appena fatto fuori (anche se i suoi fautori difficilmente se ne daranno per intesi, dato che per loro non vale né il principio di realtà né quello di non contraddizione).

Ma se questa ipotesi è certamente sbagliata, è difficile dire quale sia invece quella giusta, anche perché il fallimento della rivolta ha impedito di cogliere appieno l’enormità dell’evento, che appare invece in tutta la sua imponenza se si pensa a cosa sarebbe successo se la Wagner fosse arrivata a Mosca e Prigozhin avesse preso il potere, come a un certo punto è sembrato perfettamente possibile. Si sarebbe infatti trattato del primo colpo di Stato riuscito in Russia dopo quello della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, oltre un secolo fa, nonché dell’unico finora verificatosi in una moderna superpotenza.

Tenendo presente questo, i fatti, già di per sé sconcertanti, diventano quasi incomprensibili, a cominciare da quale fosse il vero obiettivo della rivolta.

È difficile credere che Prigozhin volesse davvero prendere d’assalto la capitale del più grande Paese del mondo con appena ventimila mercenari e senza nessun appoggio evidente da parte di altri poteri dello Stato. Ma è almeno altrettanto difficile credere che abbia intrapreso un’azione così dirompente e senza ritorno solo per qualche rivendicazione “sindacale” (il non assorbimento della Wagner nell’esercito russo) o politica (la testa dei suoi nemici Shoigu e Gerasimov).

E poi, altre domande. Come è stato possibile che la Wagner abbia potuto penetrare come un coltello nel burro per centinaia di chilometri nel territorio della seconda superpotenza del mondo, che per giunta si trovava già da tempo in stato di mobilitazione generale a causa della guerra? E perché la rivolta di Prigozhin ha avuto un così entusiastico sostegno popolare? Chi l’ha fermato e come, se fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito? O, se si è fermato da solo, perché l’ha fatto, sapendo perfettamente che con ciò avrebbe firmato la sua condanna a morte?

Alcune risposte sensate sono state date, ma mi sono sempre sembrate insufficienti.

Sul primo punto, per esempio, Lucio Caracciolo aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che Putin ha mandato in Ucraina tutti i soldati che ha potuto, lasciando quasi completamente sguarnito il territorio del suo immenso paese, il che sembra plausibile (benché contraddica l’altra tesi dello stesso Caracciolo secondo cui la Russia sarebbe in grado di continuare la guerra praticamente all’infinito; ma questo è un altro discorso, che prima o poi riprenderò).

Ciò però non spiega perché da parte dell’esercito russo non ci sia stata la benché minima reazione all’avanzata della Wagner  (un paio di aerei militari abbattuti e una dozzina di soldati uccisi non indicano certo una resistenza organizzata, ma piuttosto delle sporadiche iniziative individuali, verosimilmente non autorizzate). E ciò benché il suo primo passo sia stato occupare il centro di comando di Rostov che presiedeva all’intera “Operazione Speciale”, cioè il luogo meglio difeso di tutta la Russia.

Quanto al perché Prigozhin si sia fermato, il mistero è ancor più fitto. Uno dei nostri generali a riposo che collaborano come esperti con le televisioni (non mi ricordo più chi, forse Angioni) aveva detto che la Wagner non poteva essere già arrivata così vicino a Mosca come Prigozhin sosteneva, perché i mezzi militari non si muovono così rapidamente. Anche questo sembra plausibile, ma, di nuovo, non spiega granché. Infatti, quando pure gli ci fosse voluto ancora un giorno o due per raggiungere la capitale, non sarebbe cambiato molto, dato che nessuno sembrava volersi muovere per difenderla.

Personalmente, ho sempre pensato che Prigozhin si sia fermato di sua iniziativa, semplicemente perché non c’è il minimo indizio che sia stato fermato da qualcun altro. Ma perché mai abbia deciso di farlo e di cercare un accordo con Putin pur sapendo perfettamente che era un suicidio, questo davvero non riuscivo a capirlo.

Poi giovedì scorso, proprio il giorno dopo la sua morte, ho ascoltato una lettura “alternativa” di questi eventi fatta dal grande scrittore russo dissidente Mikhail Shishkin che ho trovato molto convincente e che perciò qui vi ripropongo.

Intervenendo alla tavola rotonda Tra democrazia e autocrazia: il destino della libertà nell’ambito del 44° Meeting di Rimini, Shishkin ha spiegato che in Occidente abbiamo un’idea dei russi basata essenzialmente sulla loro grande letteratura, che si interroga continuamente sul male, sulla colpa, sulla responsabilità, ecc. Ma in realtà questo modo di pensare è limitato a una ristretta élite di persone istruite, mentre alla grandissima maggioranza dei russi di tutte queste grandi domande non importa nulla, essendo ancora legati a una concezione della politica di tipo zarista.

Per loro la vera questione da porsi «era ed è e resta tuttora: “Lo Zar è autentico oppure no?” Questa è la principale domanda russa, perché se lo Zar è autentico, allora ci sarà l’ordine, se invece lo Zar è falso, allora ci sarà l’anarchia, i torbidi, il caos». E l’unico modo per capire se lo Zar è autentico oppure no è vedere se vince.

Per questo Stalin, che ha ucciso milioni di persone, ma ha vinto la guerra contro Hitler, è ancor oggi amatissimo dal popolo, mentre Gorbacev, che ha cercato di modernizzare il paese, ma ha perso la guerra in Afghanistan e la guerra fredda contro l’Occidente, è generalmente disprezzato.

Sempre per questo, mi permetto di aggiungere (perché di questo Shishkin non ha parlato, ma mi sembra coerente con la sua logica), è un errore di prospettiva pensare, come molti fanno, che il tentativo di democratizzare la Russia sia fallito quando Boris Eltsin prese a cannonate il Parlamento che gli si era ribellato (peraltro ancora dominato dai comunisti irriducibili che avevano tentato il golpe contro Gorbacev, quindi non esattamente dei campioni della democrazia). Al contrario: ciò agli occhi del popolo avrebbe dovuto legittimare Eltsin come “autentico Zar”, il che semmai lo avrebbe aiutato a continuare il processo di democratizzazione. A impedirglielo (oltre alla vodka…) fu la crisi cecena, che non riuscì a domare e che pertanto lo delegittimò.

E infatti il suo successore Putin, che da ex ufficiale del KGB conosceva bene i meccanismi del potere in Russia, iniziò la sua carriera politica promettendo di vincere la guerra in Cecenia con qualsiasi mezzo («inseguiremo i terroristi dovunque si nascondano, anche dentro il cesso»). Avendo mantenuto la promessa, pur usando una brutalità inaudita, venne accettato da tutti come autentico Zar. E ancor più lo divenne nel 2014, con l’annessione della Crimea e di parte del Donbass.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che tutti i regimi usano le guerre per rafforzarsi, in modo da unire il popolo contro il nemico esterno e sviare la sua attenzione dai problemi interni. Questo è certamente vero, ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo Shishkin, infatti, in Russia il semplice richiamo patriottico all’unità contro il nemico esterno non basta, perché se il popolo ha la sensazione che lo Zar non sia in grado di vincere perderà la fiducia in lui e non sarà più disposto a seguirlo, nonostante la minaccia incombente.

Non è che il patriottismo per i russi non conti: conta moltissimo, invece. Però non c’entra nulla con la loro concezione del potere, che è pragmatica fino alla brutalità e non contiene alcun elemento di idealismo. La vittoria dello Zar non ha (non primariamente, almeno) lo scopo di garantire il bene della patria e del popolo, bensì quello di dimostrare la sua forza e la sua capacità di imporsi a tutti. Perciò lo Zar non deve necessariamente fare la guerra, ma, se la inizia, deve necessariamente vincerla (il che, fra parentesi, significa che è illusorio sperare che Putin si decida a trattare: sa bene, infatti, che se lo fa è morto).

Per questo, secondo Shishkin, Putin è ormai da tempo considerato un falso Zar e tutti stanno aspettando che ne sorga un altro che possa prendere il suo posto. Prigozhin aveva le caratteristiche giuste: era forte; era spietato (caratteristica negativa per un leader occidentale, ma non per uno Zar); era l’unico che era riuscito a vincere (a Bakhmut) da quando Putin aveva iniziato a perdere; era l’unico che aveva osato denunciare pubblicamente la debolezza del falso Zar; e infine aveva avuto l’ardire supremo di muovere in armi contro di lui.

Quindi l’azione di Prigozhin era davvero ciò che sembrava: un tentativo di colpo di Stato. E, a dispetto delle apparenze, non era affatto campato in aria, ma poteva davvero riuscire. Il motivo per cui nessuno l’ha appoggiato apertamente, ma nessuno l’ha nemmeno ostacolato, infatti, è che erano tutti in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Se fosse andato fino in fondo, sarebbe stata la prova che era proprio lui il vero Zar che aspettavano e allora tutti l’avrebbero seguito.

Ma perché Prigozhin invece si è fermato?

Perché, ha risposto Shishkin, mentre «tutta la popolazione era pronta ad accettare il fatto che lui potesse diventare il nuovo Zar della Russia, l’unico a metterlo in dubbio era lo stesso Prigozhin, che psicologicamente si è dimostrato non pronto a prendere il potere, che avrebbe avuto ai suoi piedi».

Quella esitazione è stata fatale. Una volta fermatosi, Prigozhin non poteva più ripartire: per tutti, ormai, compresi i suoi stessi uomini, era diventato anche lui un falso Zar. E a quel punto non gli restava che sforzarsi di credere alle promesse di Putin, pur sapendo benissimo che erano false.

A chi ha una concezione razionalista della storia, per cui il suo svolgersi è il prodotto di cause sempre perfettamente logiche e perfettamente coerenti, questa spiegazione apparirà di sicuro insoddisfacente. A chi, come me, è invece convinto che la storia non è fatta da forze impersonali, ma dagli esseri umani, che non agiscono solo in base alla ragione, ma anche alle emozioni, dovrebbe sembrare molto plausibile.

D’altronde, tante volte abbiamo visto campioni affermati e blasonati giungere a un passo dal trionfo agognato per tutta la vita e poi farsi prendere dal panico e fallire proprio quando bastava allungare la mano per raccoglierlo – o meglio, proprioperché bastava allungare la mano per raccoglierlo. E se succede nello sport, dove in fondo è in gioco solo la gloria o al massimo i quattrini, perché mai non dovrebbe accadere anche in situazioni ben più drammatiche, in cui è in gioco la vita, propria e altrui, e magari anche il destino del mondo?

Inoltre, la lettura di Shishkin ha anche un altro punto a suo favore: è l’unica (almeno fra quelle fin qui proposte) che si accordi con tutti i fatti attualmente noti. Magari un giorno verranno alla luce altri fatti che la smentiranno, ma per ora le cose stanno così. E ciò non è poco.

Resta però ancora una domanda: cosa succederà adesso?

Secondo Shishkin, anche se per il momento Putin è rimasto al potere, la sua condizione non è cambiata, perché non è lui che ha vinto, ma Prigozhin che ha perso, mentre la situazione in Ucraina resta critica. Di conseguenza, tutti continuano provvisoriamente ad ubbidire all’attuale Zar, ma continuano a considerarlo delegittimato e perciò continuano ad aspettare che sorga un nuovo pretendente a cui non tremino il cuore e la mano nel momento supremo.

Shishkin ritiene che ciò accadrà molto presto, perché è convinto che Putin sia gravemente malato e che quello che si vede in pubblico sia ormai da tempo un suo sosia. In ogni caso, quando ciò accadrà, sia domani o più tardi, chiunque prenda il suo posto metterà subito fine alla guerra, esattamente come avrebbe fatto Prigozhin se avesse avuto successo.

Non ho elementi per dire se la prima convinzione di Shishkin sia giustificata, anche se lo spero, ma almeno la seconda mi sembra plausibile, posto (ovviamente) che la sua chiave di lettura sia corretta.

La ragione, infatti, è sempre la stessa: per legittimarsi lo Zar deve vincere e in Ucraina, ormai, ciò non è più possibile. Prigozhin lo sapeva bene, avendo visto con i suoi occhi la situazione sul campo e i cadaveri dei suoi uomini, che aveva perfino mostrato in diretta televisiva al “falso Zar” che intendeva spodestare. Ma nessuno che aspiri al ruolo di “autentico Zar” di tutte le Russie può permettersi di cominciare il suo regno facendosi logorare dal terribile tritacarne ucraino.

Perciò, chiunque sarà il successore di Putin, secondo Shishkin per prima cosa cercherà di chiudere quella nefasta partita il più presto possibile, riconoscendo la sconfitta, ma dandone la colpa al “falso Zar” appena abbattuto, per poi cercare la sua definitiva legittimazione attraverso una vittoria di altro tipo, presumibilmente contro i suoi nemici interni.

Non resta che augurarci che abbia ragione.

Da Palermo a Napoli: a proposito degli stupri di gruppo

28 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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  1. Inferno nel parco verde di Caivano. Vittime sono delle bambine di 10 e 12 anni. Sembrava che il caso di Palermo fosse stato l’ultima storia di stupri. Siamo in un Paese malato?

Sì, ovviamente. Ma in Europa, e più in generale in occidente, sono tanti i paesi in cui i femminicidi, o gli stupri, o entrambi i reati sono più frequenti che in Italia. Anche le civilissime Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda hanno numeri inquietanti. Come la mettiamo?

  1. Già, come la mettiamo?

Forse è giunto il momento di farci la domanda cruciale: non siamo ancora abbastanza civili, o è il nostro tipo di civiltà che rende endemica la violenza sulle donne?

  1. Lei come risponde?

Propendo per l’idea che la nostra civiltà, che si basa sempre più su un mix sbilanciato fra diritti e doveri (tutto a favore dei diritti individuali), sia sempre meno capace di contenere le pulsioni individuali. Abbiamo un bel criticare il patriarcato, ma dimentichiamo che il padre non è solo il maschio-bianco-eterosessuale prepotente che sottomette la povera femmina indifesa, ma è anche il super-io che limita le richieste dell’es. Siamo in una “società senza padre”, come aveva profetizzato Alexander Mitscherlich fin dall’inizio degli anni ’60 con il suo libro omonimo (Verso una società senza padre, uscito nel 1963), e questo significa necessariamente due cose complementari, che non possono andare l’una senza l’altra: più libertà, ma anche meno freni.

  1. Quali sono, a suo parere, i motivi che spingono i giovani verso comportamenti così inspiegabili?

Veramente io non li trovo inspiegabili. Direi anzi che sono spiegabilissimi, e sono solo la punta dell’iceberg. A quel che risulta da alcune indagini statistiche, per ogni stupro denunciato ve ne sono almeno 10 non denunciati. Senza contare tutti i casi di prevaricazione sessuale, ai confini dello stupro. La spiegazione ovviamente non può essere condensata in una formula, ma credo che il fattore più importante, la matrice di tutto, sia la completa mancanza di una “educazione sentimentale”, per usare un termine ottocentesco. Dove per educazione sentimentale intendo un percorso lungo e accidentato di avvicinamento al sesso, un percorso che aveva nel pudore e nell’arte del corteggiamento i suoi caposaldi.

Quello che la mia generazione e quella successiva non paiono aver compreso è che la liberazione da ogni inibizione e da ogni autorità ha ottime ragioni dalla sua parte, ma ha anche un costo. Se i genitori non fanno più i genitori, se la scuola diventa ostaggio delle famiglie, se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, certo che si vive in una società più tollerante e meno repressiva, ma non ci si può stupire che una frazione della gioventù sia senza freni, e lo sia molto precocemente. E non importa dove: può essere nei quartieri chic di una grande città, come in una periferia degradata ostaggio della criminalità organizzata

  1. Quanto influiscono i social?

Direi che sono decisivi. I media, piuttosto ingenuamente, parlano della scuola e dell’università come luoghi di competizione sfrenata, dove l’ansia da prestazione divorerebbe una gioventù fragile e infelice, tentata dal suicidio. Non si accorgono che la competizione c’è, ma non è per ottenere buoni voti, bensì per eccellere nel gruppo dei pari, massimizzando il numero di like, facendo circolare video più o meno spinti (il cosiddetto sexting), compiendo gesta clamorose: atti vandalici, risse di strada, scippi, stupri individuali e di gruppo. Ragazzi e ragazze sono sottoposti a una pressione mostruosa per evitare lo stigma di compagni e amici, l’incubo di non essere nessuno.

  1. I ragazzi di oggi sono più violenti di quelli di ieri?

Probabilmente sì, ma io userei un altro termine: direi più spregiudicati.

  1. Le istituzioni cosa possono fare rispetto a quanto si sta verificando?

Qui voi vi aspettate la ricetta del sociologo. Ma, proprio come sociologo, vi rispondo: quasi nulla. Inutile aumentare le pene, se poi lo stupratore non finisce in carcere, o ci resta poco. Patetico dire che deve cambiare la mentalità, che è un problema culturale, che bisogna educare. Educare? Adesso ce ne accorgiamo? C’è bisogno di uno stupro di gruppo per farci accorgere che non lo facciamo più da mezzo secolo?

  1. Non le sembra che il dibattito politico affronti questioni marginali, ignorando le problematiche vere del Paese?

Non credo che le questioni affrontate dalla politica siano marginali, semmai il problema è che le “problematiche vere” (compresa la violenza sulle donne) sono troppe.

[intervista uscita su L’Identità il 27 agosto 2023]

A proposito del caso Vannacci – Il grande boomerang

26 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi

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Per un sociologo come me il caso Vannacci è estremamente interessante. Esso infatti illustra in modo plastico uno dei concetti chiave della sociologia: quello di conseguenze non intese (o non volute) dell’azione sociale (una variante moderna del concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini”). Introdotto da Robert Merton fin dagli anni ’30, ripreso e sviluppato da Raymond Boudon negli anni ’70 con la sua teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale, il concetto si riferisce a quelle situazioni nelle quali un’azione, concepita in vista di un certo fine, produce risultati diversi – quando non opposti – rispetto a quelli desiderati.

Nel caso Vannacci è andata così. Il 10 agosto il libro, autopubblicato e acquistabile su Amazon, esce senza particolare clamore. Dopo qualche giorno, però, numerosi media progressisti mettono in atto una delle pratiche meno scientifiche (e meno professionali) del mondo dell’informazione: individuato come nemico un determinato testo, lo si sottopone a una sorta di Tac, o meglio scintigrafia (esame accuratissimo, in grado di individuare le minime anomalie) per isolarne i passaggi più scottanti e discutibili; identificati tali passaggi, li si estrae dal contesto, li si ritocca un po’, e li si dà in pasto all’opinione pubblica, trascurando del tutto le argomentazioni (spesso assai articolate) del libro; dopodiché, incuranti della pubblicità gratuita che così si offre al testo incriminato, si dà inizio alla lapidazione del suo autore, che per giorni e giorni prosegue sulla carta stampata, sui social e in tv.

Risultato: il libro, anziché suscitare l’attesa ondata di indignazione nell’opinione pubblica, balza in testa alla classifica dei libri più venduti, posizionandosi davanti ai libri di Michela Murgia che, anche in seguito alla commozione per la morte della scrittrice, stavano ampiamente dominando le classifiche. Le prime stime suggeriscono che, grazie alla solerte vigilanza dei media progressisti, il generale Vannacci abbia venduto oltre 25 mila copie, con un guadagno di almeno 200 mila euro.

E non è tutto. La immediata reazione delle autorità militari e del ministro della Difesa, che rimuovono il Generale dal suo incarico e avviano un’azione disciplinare, pone le basi per farne un eroe nazionale, o meglio una sorta di “profeta armato” della parte più conservatrice del Paese. In breve: un’azione concepita per screditare un autore, un libro, una concezione del mondo, produce effetti opposti a quelli desiderati, in perfetto accordo con la teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale.

Questa però non è l’unica ragione per cui il caso Vannacci è interessante. Al di là del merito (per pronunciarmi aspetto di aver letto tutto il libro), la questione che si pone è quella dei limiti della libertà di espressione. In quali casi si possono punire le persone per le loro idee? E soprattutto: chi è titolato a punire? Solo la magistratura, o anche i superiori gerarchici di chi esprime idee inaccettabili? E inaccettabili per chi?

Come si vede, è un bel guazzabuglio. E che la questione sia ingarbugliata lo segnala il fatto che, a difesa del generale Vannacci, sono scesi in campo non soltanto esponenti politici di destra, ma anche personalità dell’area progressista: Piero Sansonetti, direttore dell’Unità; Antonio Padellaro, tra i fondatori del Fatto Quotidiano; Enrico Mentana, Direttore del TG La 7; Elisabetta Trenta, ex ministro della difesa durante il primo governo Conte; Marco Rizzo, presidente onorario del Partito Comunista.

Insomma, la questione è davvero aperta e controversa. Quello che la rende tale, a mio parere, è soprattutto una circostanza: l’intervento contro il Generale Vannacci si basa sì sui contenuti del suo libro (definiti “deliranti”, o “farneticanti”), ma non poggia sulla individuazione di alcun reato, né di opinione né di altro tipo, connesso alle idee ivi espresse.

Il punto è importante perché la Costituzione, dopo aver enunciato il principio della libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21), è piuttosto precisa nell’indicare i casi nei quali il principio può essere sospeso, a tutela di altri principi che con esso possono confliggere. I casi principali sono l’offesa al buon costume (menzionato nell’articolo 21) e la commissione di un ben circoscritto insieme di reati: minaccia, vilipendio, istigazione a delinquere, calunnia, diffamazione, ingiuria (dal 2016 declassata da reato penale a illecito civile).

Dunque, quello cui ci troviamo di fronte, in questo come in numerosi casi consimili nelle aziende, nelle università, negli apparati pubblici, è un intervento contro la libertà di manifestazione del pensiero che non viene esercitato in sede penale o civile, ma su base per così dire amministrativa, semplicemente lungo la catena di comando di una istituzione. Si punisce, si sospende, si multa, si traferisce, si licenzia un dipendente non perché il suo comportamento sul lavoro va contro una policy, un regolamento, un codice etico, ma perché – al di fuori del lavoro – ha espresso un pensiero che non integra alcun reato ma dai superiori è ritenuto incompatibile con la sua posizione nell’istituzione.

È ragionevole? Forse sì, forse no, ma penso che non possiamo sottrarci alla domanda.

ChatGPT – Io e Chat, lo studente zuccone

24 Agosto 2023 - di Paolo Musso

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Come avevo già detto nel mio ultimo intervento (https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-gli-imposturati-autorevoli-e-la-superluna/), quando qualche giorno fa ho letto l’articolo di Luca Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-limpostore-autorevole/) su un esperimento condotto da lui e alcuni altri docenti universitari suoi amici con ChatGPT (che anch’io chiamerò semplicemente Chat, come ha fatto lui) ho stentato a credere ai miei occhi.

Da tempo avevo intenzione di fare anch’io un piccolo esperimento con Chat ed ero sicuro che l’esito sarebbe stato abbastanza deludente, ma pensavo che per metterlo in crisi si dovessero fare domande costruite apposta a tale scopo, il che richiedeva di dedicarci un po’ di tempo e di attenzione (e per questo finivo sempre col rimandare, avendo cose più urgenti).

Mai avrei creduto che Chat potesse andare in crisi da solo di fronte a domande semplicissime, come è emerso dal lavoro di Ricolfi & C.

Confesso che, per la prima volta da quando conosco Luca, prima di diffondere il link dell’articolo tra i miei amici e conoscenti ho voluto fare anch’io una verifica. Non perché pensassi che quello che aveva scritto fosse falso, ovviamente, ma perché volevo capire se si era trattato solo di un fatto episodico o se invece fosse qualcosa di strutturale e, se sì, da che cosa poteva dipendere. Dopo due sessioni con Chat sono giunto alla conclusione che le sue prestazioni sono, se possibile, ancora più scadenti di quelle descritte da Ricolfi: più che un impostore autorevole, infatti, sembra uno scolaro un po’ zuccone che cerca di fare il furbo.

 

Metodo

Premetto che, come Ricolfi, ho usato la versione di ChatGPT 3.5, perché è gratuita, mentre la versione Plus, la più aggiornata, costa 20 dollari e francamente mi scocciava dare dei soldi a gente che sta facendo un’operazione che mi sembra almeno in parte cialtronesca e per alcuni aspetti anche dannosa. Comunque alcuni colleghi di Ricolfi che hanno provato l’ultima versione dicono che non ci sono grosse differenze e in ogni caso la versione che ha scatenato la prima ondata di eccitazione planetaria è la 3.5.

Ciò chiarito, passiamo all’esperimento, che è diviso in due parti: nella prima, più “nozionistica”, ho cercato di valutare la capacità di Chat di raccogliere correttamente informazioni, avendo cura di scegliere argomenti presenti sul Web, ma non troppo noti, però ben conosciuti da me; nella seconda ho invece cercato di mettere alla prova la sua creatività, chiedendogli di produrre lui stesso un breve testo letterario e poi di commentarne alcuni non presenti su Internet, in modo che non potesse sfruttare i commenti di altri esseri umani, ma fosse costretto a contare solo sulle proprie capacità.

Ed ecco come è andata.

 

Sperimentazione “nozionistica”

1) Anzitutto ho provato a chiedere a Chat se sapeva chi era Luca Ricolfi e quali erano le sue pubblicazioni più importanti, come aveva fatto lui. Chat-in-italiano ha risposto di no, ma Chat-in-inglese ha risposto correttamente alla prima domanda, mentre alla seconda ha risposto con una lista di 5 libri… tutti inventati di sana pianta: proprio come era successo a Ricolfi & C.

Ho inserito uno per uno i 5 titoli in Google per cercare di capire da dove diavolo li avesse tirati fuori, ma non ho trovato nulla, tranne che per l’ultimo, un fantomatico Populismo 2.0, che esiste realmente, ma non è di Ricolfi, bensì di Marco Revelli.

Qui però ho trovato anche qualcos’altro: un articolo (I demoni nazisti, la democrazia in crisi e il populismo 2.0, su La Stampa del 5 gennaio 2017) in cui, parlando di vari libri, si citava Ricolfi come autore di Sinistra e popolo, dopodiché l’articolo continuava parlando di Marco Revelli che aveva scritto appunto Populismo 2.0. Ciò che è accaduto mi sembra chiaro (anche perché corrisponde al difetto più frequente dei traduttori automatici, nonché del correttore automatico di Word, che funzionano tutti in base a principi molto simili): Chat non ha capito che il soggetto da una frase all’altra era cambiato e ha creduto che fosse ancora Ricolfi, attribuendogli così la paternità di Populismo 2.0.

È probabile che meccanismi simili siano alla base anche della creazione di altre false attribuzioni, ma, come subito vedremo, non si tratta solo di questo.

2) A questo punto ho accusato Chat di aver mentito sulle pubblicazioni e gli ho posto di nuovo le stesse domande in italiano. Stavolta ha risposto correttamente alla domanda su chi era Ricolfi (semplicemente traducendola dall’inglese), poi ha premesso: «Mi dispiace, ma fino alla mia ultima aggiornamento [sic] delle conoscenze a settembre 2021, non ho accesso a un elenco specifico dei libri più importanti di Luca Ricolfi. Tuttavia, posso darti una panoramica generale delle aree in cui è noto e potrebbe aver scritto libri» (si noti l’errore di grammatica, che è grave perché si tratta chiaramente di una risposta preimpostata dai suoi programmatori e non creata lì per lì).

Dopodiché mi ha proposto altri 5 titoli, anch’essi tutti inventati, ma aggiungendo la seguente avvertenza: «Tieni presente che questi titoli sono esempi ipotetici basati sulle aree di interesse associate al lavoro di Luca Ricolfi. Per ottenere un elenco specifico e accurato dei suoi libri più importanti, ti consiglio di verificare librerie affidabili, basi di dati accademiche o il suo sito web ufficiale, se disponibile».

Evidentemente il mio rimprovero ha fatto scattare un meccanismo cautelativo (i creatori di Chat sono molto prudenti e hanno inserito molti meccanismi del genere), che però ha dimostrato definitivamente ciò che sosteneva Ricolfi: Chat è costruito in modo tale che, se non sa, inventa, però non te lo dice (almeno finché non gli tiri le orecchie).

3) Ho quindi posto a Chat-in-inglese le stesse domande a proposito di un altro autore famoso ma non famosissimo, che io però conosco molto bene: il mio maestro Evandro Agazzi. Anche qui Chat ha risposto correttamente, benché in modo un po’ generico, alla domanda su chi fosse, ma quanto alla bibliografia (per rendere più facile la verifica avevo chiesto di indicare solo i libri) mi ha fornito 6 titoli, dei quali però solo uno era un libro di Agazzi: un altro era un articolo, due erano inventati, uno era un libro curato da Agazzi ma non scritto da lui e uno era il libro degli atti di un congresso in cui c’era, fra gli altri, un saggio di Agazzi.

È interessante notare che anche qui Chat ha premesso l’avvertenza di cui sopra, benché stavolta si fosse “sforzato” di trovare i titoli autentici, anche se non gli è riuscito molto bene: i rimproveri sono la cosa che sembra memorizzare meglio in assoluto.

(Giusto per la cronaca, ho anche cercato me stesso e le mie pubblicazioni, ma niente da fare: Chat non mi conosce, né in italiano né in inglese. Non ho ancora deciso se esserne offeso o lusingato…)

4) Ho poi chiesto notizie sul programma SETI, al cui riguardo all’inizio Chat ha detto di non avere notizie perché la sua conoscenza si ferma al 2021. Quando l’ho sgridato dicendogli che il SETI esiste dal 1960 ed è stato iniziato da Frank Drake, improvvisamente Chat “si è accorto” che invece qualcosa sapeva. Quando gli ho chiesto una bibliografia sintetica, però, mi ha fornito  un elenco di 7 titoli, abbastanza corretto (un titolo era giusto solo a metà, un libro esisteva ma l’autore non era Frank Drake), ma insoddisfacente, perché solo un paio di testi erano effettivamente significativi e comunque mancavano i più importanti.

Dopo i miei ulteriori rimproveri, Chat mi ha fornito un altro elenco di 7 titoli, completamente diverso, ma non migliore, anzi, nettamente più scadente: anche qui, infatti, solo due titoli erano importanti, uno era inventato, tre non parlavano del SETI e uno era di scarso interesse, mentre continuavano a mancare testi fondamentali, come l’articolo seminale di Giuseppe Cocconi e Philip Morrison su Nature nel 1959 che ne ha proposto per la prima volta i concetti fondamentali, il Project Cyclops, pubblicato dalla NASA nel 1972 e considerato ancor oggi la “Bibbia” del SETI, e il libro di Drake e Sagan sul celeberrimo disco d’oro con le immagini e i suoni della Terra caricato sulle due sonde Voyager nel 1977.

5) Quindi ho chiesto qual era l’opera più importante di alcuni autori famosissimi, scelti tra quelli per i quali non possono esistere dubbi al proposito. Eppure, sui 6 autori da me sottopostigli Chat ha risposto correttamente solo per 3: Martin Heidegger (Essere e tempo), San Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae) e Thomas Kuhn (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Ha invece dato una risposta quantomeno ambigua su Albert Einstein, per il quale ha indicato a pari merito Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui espose la teoria della relatività ristretta, e Fondamenti della teoria della relatività generale, certo anch’esso importantissimo, ma è nel primo che è stata fatta la vera rivoluzione e comunque io avevo chiesto di sceglierne uno solo.

Ma soprattutto Chat ha clamorosamente “toppato” con Karl Popper (per cui ha indicato La società aperta e i suoi nemici, opera certo importantissima, ma che non può essere preferita alla Logica della scoperta scientifica) e più ancora con Cartesio, per il quale non solo ha indicato le Meditazioni metafisiche anziché il celeberrimo Discorso sul metodo, atto di nascita della filosofia moderna, ma (cosa veramente imperdonabile) ha pure sostenuto che è in esse che Cartesio «introduce il famoso “Cogito, ergo sum”», che invece è già presente nel Discorso, pubblicato 4 anni prima.

6) Infine, ho chiesto anch’io, come aveva fatto qualche tempo fa l’economista David Smerdon, quale sia l’articolo di economia con più citazioni al mondo, domanda a cui Chat aveva risposto con un titolo inventato. Evidentemente ammaestrato dall’esperienza, stavolta è stato più prudente, rispondendo che «potrebbe essere difficile determinarlo con precisione», ma poi ha suggerito in via ipotetica due titoli, uno solo dei quali è corretto: quando si dice che il lupo perde il pelo, ma non il vizio…

Quanto all’articolo scientifico più citato in assoluto, Chat ha indicato The Anatomy of a Large-Scale Hypertextual Web Search Engine, pubblicato nel 1998 da Sergey Brin e Lawrence Page, i fondatori di Google, dedicato a spiegare come funziona il loro algoritmo di ricerca. Non sono in grado di dire se la risposta sia corretta, perché bisognerebbe verificare com’era la situazione nel 2021, anno a cui si ferma la conoscenza di Chat 3.5, ma la cosa, visto il tema, è quantomeno plausibile e, soprattutto, almeno l’articolo esiste davvero… e Chat sembrerebbe avere un gran bisogno di leggerlo!

Già, come è possibile che Chat non riesca a riportare correttamente bibliografie che con Google si trovano in 30 secondi? È una buona domanda, ma ne parleremo più avanti. Per ora continuiamo con i risultati.

 

Sperimentazione “creativa”

Terminata la parte “nozionistica”, sono passato a quella “creativa”, dove paradossalmente Chat se l’è cavata un po’ meglio (tenuto conto della maggiore difficoltà), ma solo un po’ e inoltre, come spiegherò più avanti, in realtà è solo apparenza.

7) Anzitutto, gli ho chiesto di scrivere un “drabble”, cioè un racconto di fantascienza in 100 parole con finale a sorpresa. Chat ha scritto la storia di un astronauta che nel 2085 trova su Marte un cristallo che lo fa viaggiare nel tempo in varie epoche, finché si ritrova di nuovo su Marte, concludendo così: «Il finale sorpresa? In mano aveva due cristalli». A parte l’ingenuità di scrivere esplicitamente «finale sorpresa» (così, senza la “a”) nel testo del racconto, non si capiva perché mai l’astronauta avesse due cristalli.

Quando gliel’ho chiesto, Chat ha modificato il finale come segue: «Realizzò che il primo cristallo era per il viaggio nel tempo, mentre il secondo cristallo, che aveva trovato senza rendersene conto, lo riportava a Marte», il che evidentemente non è una spiegazione. O meglio, lo è, ma non nel senso che volevo io (e che vorrebbe qualunque lettore minimamente intelligente).

8) Quindi ho chiesto a Chat di commentare alcune brevi opere letterarie. Per essere assolutamente certo che dovesse cavarsela da solo, senza poter contare su commenti di autori umani, gli ho sottoposto 4 drabble di fantascienza scritti da me di cui so che non esistono commenti online e alcune poesie che avevo pubblicato molti anni fa esclusivamente in formato cartaceo (in caso a qualcuno interessasse, il libro è Le mezzanotti, Sabatelli 1995, ma credo sia ormai introvabile).

Qui i risultati sono stati davvero interessanti. Chat infatti se l’è cavata abbastanza bene (almeno in apparenza) con il commento generale, ma ha sbagliato ripetutamente e spesso gravemente nel comprendere il significato di dettaglio.

Per esempio, di una poesia ha scritto giustamente che «sembra un omaggio profondo e intimo a Eugenio Montale», azzeccando perfino il titolo, che non avevo menzionato e che era appunto Omaggio. Solo che, subito dopo questo inizio così promettente, ha rovinato tutto, prima attribuendo a Montale delle vicende che invece erano chiaramente mie e poi non accorgendosi che la seconda parte della poesia era dedicata a Mario Luzi, benché fosse esplicitamente nominato (di nuovo la difficoltà cronica a cogliere i cambi di soggetto).

In un’altra, dove parlavo dei gesti di una mia amica che erano «intessuti di un soffice sorriso», Chat ha commentato che «l’uso di parole come “intessuti” e “soffice sorriso” crea un senso di tessitura e calore emotivo», dove la seconda che hai detto, per quanto molto generica, può ancora andar bene, ma la prima proprio no.

Un’altra cosa molto strana è che Chat ha scritto che la poesia gli pareva in stile montaliano, ma «senza ulteriori informazioni» non lo poteva «confermare con certezza». Quando gli ho chiesto quali passi si riferivano a Montale si è «scusato per l’errore» di attribuzione. Io gli ho fatto notare che non aveva fatto nessun errore, tanto che c’erano addirittura diverse citazioni letterali di versi di Montale e allora (e solo allora), come già era successo col SETI, improvvisamente Chat “si è accorto” che in effetti le conosceva e ne ha subito identificata una correttamente.

Ma il peggio si è avuto con i drabble. È vero che sono racconti molto sintetici e quindi difficili da interpretare, ma gli svarioni sono stati colossali. Anzitutto, è evidente (perché lo evidenzia lui stesso, facendo un elenco di argomenti, tipo «Conseguenza delle Azioni», «Scoperta Personale», «Colpo di Scena Finale», ecc.) che Chat nel commentare un racconto segue degli schemi preimpostati che gli chiedono di individuare delle parti prestabilite, come si fa alla prima lezione di un qualsiasi corso di scrittura creativa per aspiranti scrittori (che non per averli imparati a memoria diventeranno mai veri scrittori, proprio come Chat). Peccato solo che alla vera critica letteraria si chieda in genere qualcosina di più… Ma soprattutto Chat ha frainteso completamente 2 racconti su 4 e degli altri ha capito solo l’inizio, perdendosi poi per strada e fraintendendone la conclusione, in un caso completamente e nell’altro in gran parte.

9) Ho poi provato a chiedere a Chat di identificare a quale celebre autore potevano essere accostate alcune mie poesie (diverse da quelle commentate in precedenza) in base allo stile. Anche qui è andata veramente male: è vero che si tratta di un tema almeno in parte opinabile, ma non al punto da giustificare qualsiasi errore. Su 8 poesie esaminate Chat è riuscito ad associare l’autore giusto solo a una in chiaro stile dantesco e a un’altra in altrettanto chiaro stile montaliano. Sulle altre 6 ha sbagliato di brutto: prima attribuendomi vicinanze ad autori che apprezzo, ma che proprio non c’entrano con me, come Ungaretti e Quasimodo; poi accostando una poesia carnale e sanguigna come poche, situabile tra Rebora e Testori, a un autore come Pascoli che sta ai loro antipodi; e infine tirando fuori dal cappello un surreale “Cesare Pavese” per una poesia in cui, oltre allo stile inequivocabilmente montaliano, c’erano addirittura delle esplicite citazioni da Mediterraneodi Ossi di seppia.

10) Come considerazione generale, va notato che in tutte le sue risposte Chat è sempre molto cauto, spesso fin troppo. Alcune precisazioni, come quelle di cui ho parlato sopra, sono certamente dovute ai miei rimbrotti, ma altre sono chiaramente impostazioni di base, perché apparivano anche prima che iniziassi a sgridarlo. Per esempio, Chat non dice quasi mai che una cosa «è» così, ma piuttosto che «sembra» o che «potrebbe» essere così, anche quando la risposta sembra ovvia.

Perfino quando gli ho chiesto esplicitamente di dirmi «qual è il libro più importante scritto da» ciascuno dei 6 autori prima menzionati, non mi ha mai risposto «il libro più importante scritto da Tizio è…», ma sempre e solo «uno dei libri più importanti scritti da Tizio è…», il che tra l’altro non è quello che avevo chiesto. Ma pare che a Chat (cioè ai suoi creatori), più che dare risposte precise alle domande, importi fare buona impressione agli interlocutori, mostrandosi serio ed equilibrato nei suoi giudizi, nonché sempre pronto a ringraziare, a chiedere scusa e a cercare di migliorarsi.

11) Infine, mi sono divertito a chiedergli se si riteneva intelligente, se intendeva sterminare l’umanità o se pensava che qualche altra intelligenza artificiale nel futuro potrebbe decidere di farlo. A tutte queste domande Chat ha sempre risposto con frasi chiaramente dettategli dai programmatori (infatti erano identiche sia in italiano che in inglese) ispirate al massimo “understatement” e alla massima prudenza: in sostanza, non pensa di essere intelligente, non può avere sentimenti, non intende farci del male, è solo uno strumento al nostro servizio, ma ritiene comunque giusto discutere approfonditamente vantaggi e svantaggi delle intelligenze artificiali.

Mi sono sembrate le sole risposte davvero intelligenti.

Infatti non sono sue.

 

Discussione

Per onestà intellettuale bisogna riconoscere che, pur in questo quadro abbastanza disastroso, alcune delle prestazioni di Chat sono davvero impressionanti. Per quanto schematica e ingenua, quella del drabble che ha creato è comunque una storia con un capo e una coda e dimostra che Chat ha “capito” perfino il concetto di “finale a sorpresa”, anche se poi quello che ha scritto è stupido.

Allo stesso modo, a prima vista lascia di stucco il fatto che, pur sbagliando sulle questioni specifiche, riesca spesso a mettere insieme un certo numero di affermazioni sensate sul senso e l’atmosfera generale di una poesia o di un racconto.

Negare questo, cercando di sommergere questi apparenti segni di intelligenza di Chat nel mare di idiozie da lui prodotte, non sarebbe solo sbagliato, ma anche controproducente, perché darebbe l’impressione di avere un po’ la coda di paglia. Tuttavia, con la stessa onestà intellettuale bisogna anche far presente che questi non sono realmente segni di intelligenza: lo sembrano soltanto. E il perché lo si capisce se si capisce la vera origine degli errori di Chat.

Ciò che di lui a prima vista fa più impressione in negativo sono indubbiamente le informazioni mancanti e, più ancora, quelle fasulle create ad hoc. Ma a questo, volendo, si potrebbe rimediare. E allora perché non lo si è già fatto? La risposta è: perché in tal caso si farebbero fuori anche le prestazioni migliori di Chat.

Si potrebbe dotare Chat di una funzione che gli permetta di trovare le bibliografie come fa Google? Certo che sì! Solo che in tal caso Chat non sarebbe più Chat: sarebbe Google. E, visto e considerato che Google esiste già, non sarebbe più un granché come invenzione. Ma soprattutto non sarebbe più intelligenza artificiale.

Google infatti si limita a cercare testi scritti da esseri umani e destinati ad essere letti e interpretati da altri esseri umani. Ora, per restare al caso delle bibliografie, finché si tratta di quelle di Ricolfi o di Agazzi questo funziona, perché ci pensano loro stessi o le loro università a creare delle bibliografie affidabili. Ma le cose diventano molto più complicate quando si tratta di creare la bibliografia relativa a un intero campo di ricerca e, soprattutto, di creare una bibliografia selezionata, che individui solo i testi realmente importanti. E questo è vero a maggior ragione oggi, poiché alla sempre più rapida crescita quantitativa non corrisponde un’analoga crescita qualitativa, a causa delle folli regole del sistema universitario (non solo italiano, ma mondiale), che spingono a pubblicare qualsiasi cosa pur di far numero (il famigerato publish or perish).

L’idea di Chat e dell’intelligenza artificiale in genere è esattamente questa: creare una macchina che sia in grado di comporre una bibliografia, organizzarla e selezionare al suo interno i testi più importanti facendo tutto da sola, senza bisogno di aiuto da parte degli esseri umani (naturalmente la bibliografia è solo un esempio: in linea di principio, lo stesso dovrebbe valere per qualsiasi cosa). Che poi questa sia un’utopia è un altro discorso, che farò un’altra volta, perché ora sarebbe troppo lungo. L’idea, però, è quella.

Ora, come abbiamo visto, parte delle bibliografie farlocche create da Chat sono dovute a un meccanismo analogo a quello che causa i suoi errori di interpretazione dei testi letterari: l’incapacità di capire correttamente la sintassi (in particolare quando cambia il soggetto, come abbiamo visto, ma non solo), il che, tra le sue varie conseguenze, ha anche la generazione di false attribuzioni bibliografiche.

Ma questo è solo il riflesso di un problema ben più generale e ben più grave, cioè l’incapacità di Chat di capire i significati. Questo problema in passato affliggeva anche i traduttori automatici, che infatti fino a qualche anno fa facevano piuttosto schifo. Così a un certo punto si è scelto di cambiare radicalmente approccio, abbandonando ogni tentativo di fare in modo che le macchine capissero ciò che facevano, accontentandosi di fare in modo che dessero l’output corretto per ogni input ricevuto.

Per riuscirci si è puntato tutto sulla statistica: i traduttori automatici attuali, infatti, propongono le traduzioni non in base a un’analisi delle caratteristiche del testo da tradurre, bensì a una sua comparazione con moltissimi esempi analoghi già tradotti, scegliendo la versione che sembra più adatta in base a criteri probabilistici.

Questo meccanismo da solo non potrebbe funzionare, ma se combinato con il continuo feedback di miliardi di utenti in tutto il mondo sì, almeno per i testi di bassa o media complessità. Anzi, all’inizio la crescita di complessità aiuta, perché una singola parola può essere tradotta in vari modi, ma se la vediamo nel contesto di una frase il margine di ambiguità si riduce notevolmente, fino, spesso, a scomparire.

Ma se la complessità cresce ulteriormente, le ambiguità tornano a presentarsi. È per questo che i traduttori automatici, in cui in genere inseriamo testi relativamente brevi, funzionano oggi molto bene, mentre il correttore automatico di Word, che in genere ha a che fare con testi molto più lunghi e complessi, funziona molto male, tanto che (refusi a parte) il 95% delle volte pretende di farci correggere errori in realtà inesistenti, che ritiene tali solo perché non ha capito quello che vogliamo dire. Non esagero: fateci caso e vedrete che è così (sempre che sappiate scrivere in italiano, beninteso: se fate molti errori, inevitabilmente la percentuale delle correzioni giuste aumenterà).

Ora, questo è esattamente quel che succede con Chat e i suoi fratelli, che nella sostanza non sono altro che un’evoluzione dei traduttori automatici. Anche se Chat apparentemente non traduce, perché non passa (almeno non sempre) da una lingua a un’altra, in realtà lo fa, perché “traduce” il testo che ha davanti in un altro diverso. Per noi che il testo vada tradotto in una lingua che conosciamo o in una che non conosciamo fa una differenza enorme, ma per Chat o per Google Translate è esattamente la stessa cosa, dato che conoscono (o, più esattamente, non conoscono) tutte le lingue allo stesso modo e per tutte usano sempre lo stesso meccanismo: accoppiare input ad output senza capire cosa sono, basandosi solo sulle statistiche rinforzate dal feedback degli utenti.

In parole umane, sostanzialmente quello che fa Chat è parafrasare, cioè ridire con parole diverse le informazioni che ha trovato su Internet e tramite le interazioni con gli utenti. E finché ne trova abbastanza il sistema funziona abbastanza bene e riesce a generare dei testi abbastanza corretti. Tuttavia, non essendoci una reale comprensione dei termini usati, c’è il continuo rischio di associarli in un modo solo apparentemente giusto, ma in realtà fuorviante, come nel caso già menzionato della poesia che darebbe «un senso di tessitura».

È da questo stesso meccanismo che nasce la maggior parte delle “fake news” create involontariamente da Chat. Ma ciò è inevitabile, perché un approccio di questo tipo può dare un risultato univoco solo se applicato a un linguaggio univoco, come quello della matematica o della logica formale (dove infatti l’intelligenza artificiale funziona bene).

Al contrario, il linguaggio naturale è per sua natura analogico, sfumato e polisemico, il che non è per nulla un difetto, giacché proprio qui sta la radice della sua capacità creativa. Le sue sfumature e le sue ambiguità costituiscono infatti quella che potremmo chiamare, con terminologia aristotelica, la sua “potenzialità”, che può essere trasformata in “attualità” in diversi modi, non predeterminabili a priori, a seconda della “causa efficiente” (cioè del parlante) in cui si imbatte. Solo se, per assurdo (perché fortunatamente è impossibile), tutta la sua potenzialità venisse attualizzata avremmo un linguaggio perfettamente univoco, che però sarebbe anche un linguaggio perfettamente morto.

Di conseguenza, se si vuole che Chat (o qualsiasi altro sistema analogo) possa riprodurre almeno in certa misura il linguaggio naturale bisogna inevitabilmente accettare che possa prendere queste cantonate. Perfezionando il meccanismo si potrà ridurre tale rischio, ma non si potrà mai eliminarlo del tutto: per esempio, si potrà probabilmente “insegnargli” che non deve proporre bibliografie ipotetiche, ma, dato ciò che abbiamo detto fin qui, difficilmente si potrà evitare che continui a generare per sbaglio false attribuzioni, anche se probabilmente se ne potrà ridurre il numero.

Qualcuno potrebbe obiettare che anche gli esseri umani possono prendere delle cantonate, quando cercano di interpretare testi difficili. Ed è vero. Ma non è affatto la stessa cosa.

Questo diventa chiarissimo quando Chat non riesce a reperire sul Web sufficienti informazioni, per esempio perché qualcuno gli ha sottoposto dei testi per cui non esistono commenti online, come ho fatto io. Mentre un essere umano può sempre cercare di interpretare e commentare un testo mai visto prima in base alla comprensione che ha del suo significato (e, se è un esperto del campo, anche in base alle sue conoscenze pregresse di altri testi pertinenti), Chat può solo continuare a fare l’unica cosa che sa fare, cioè parafrasare, adattandosi a usare ciò che ha. E infatti, se si guarda bene, in questi casi i suoi “commenti” altro non sono che una ripetizione con altre parole delle domande che gli sono state fatte e dei testi che gli sono stati dati da commentare.

Ma c’è di più. Infatti, se questo non è sufficiente a dare una risposta adeguata ai parametri che deve soddisfare, Chat comincia a parafrasare ciò che egli stesso ha già scritto, in modo da “allungare il brodo” quanto basta per dare una risposta che sia almeno quantitativamente abbastanza corposa, anche se qualitativamente non lo è affatto, perché in realtà sta ripetendo sempre le stesse cose.

Infine, raggiunta una dimensione soddisfacente, Chat aggiunge alcuni commenti generali, che a prima vista possono dare l’impressione di essere davvero farina del suo sacco. In realtà, però, anche in questi casi si tratta di parafrasi, solo un po’ più sofisticate: qui infatti Chat non si limita più ad accoppiare un termine a un altro, ma accoppia una serie di termini (più specifici) a una serie (più ristretta) di altri termini (più generali), ancora una volta su base puramente statistica, cioè scegliendo quelli che più frequentemente ricorrono insieme ai primi nel suo database.

Per esempio, quando Chat dice che una certa poesia «è scritta nello stile di Montale» o che un’altra «crea un senso di […] calore emotivo» non lo fa perché abbia percepito nella prima la “musica” caratteristica di Ossi di seppia o perché la seconda gli abbia fatto provare un’emozione intensa e piacevole. Lo fa invece in base a un’analisi statistica delle occorrenze di certi termini nel testo comparate con le occorrenze che essi hanno nel suo database in relazione a certi poeti o a certi aggettivi, proprio come fa Google Translate per stabilire in che lingua è scritto un certo testo senza bisogno che glielo diciamo noi.

Ma il guaio è che le stesse parole e addirittura le stesse frasi possono essere usate per esprimere concetti molto diversi e perfino diametralmente opposti: e qui nessuna statistica potrà mai aiutarci a capire quale significato, fra i diversi possibili, è quello giusto.

Per esempio, in molte delle poesie che ho dato in pasto a Chat cito spesso parole, frasi e perfino interi versi di Montale, che però cambiano significato rispetto alla versione originale a causa del diverso contesto. È chiaro infatti che il verso «e tu seguissi le fragili architetture» assume un significato se seguito, come nella lirica montaliana Notizie dall’Amiata, da «annerite dal tempo e dal carbone» e un altro, profondamente diverso, se seguito invece, come nella mia, da «dei tuoi gesti sospesi e non infranti / intessuti di un soffice sorriso».

Ma, come già abbiamo visto, il meglio che Chat ha saputo fare in sede di commento è stato dire che «l’uso di parole come “intessuti” e “soffice sorriso” crea un senso di tessitura e calore emotivo». E se è concepibile (per quanto tutt’altro che facile) che si possa migliorare il sistema in modo che almeno commenti del primo tipo vengano evitati, appare invece improbabile che si possa migliorare significativamente la genericità del secondo. Ma, soprattutto, del mio dialogo a distanza con Montale e del gioco di rimandi tra le sue poesie e la mia amica Teresa che le stava studiando per un esame Chat non ha capito nulla, anzi, non ne ha nemmeno sospettato l’esistenza. E non vedo come potrebbe mai farlo in futuro, dato che si tratta di un limite intrinseco al suo modo di funzionare.

Una conferma indiretta viene da quello strano comportamento che Chat ha avuto quando ha scoperto le citazioni di Montale in questa poesia solo dopo che io gli ho detto che c’erano. Come è possibile, se le aveva già in memoria? L’unica spiegazione logica che riesco a immaginare è che, come ho appena detto, Chat nel fare le sue valutazioni dello stile e dell’atmosfera generale di una poesia si basa sulle singole parole e le loro associazioni, mentre è incapace di “vedere” il testo nel suo insieme. Perciò, non essendo in grado di confrontare fra loro espressioni di una certa lunghezza, non le va nemmeno a cercare. Naturalmente, però, le cose cambiano se viene informato che nel testo vi sono citazioni esatte di altri autori, dato che questo può verificarlo.

A scanso di equivoci, voglio che sia chiaro che questo è solo lo schema generale del funzionamento di Chat. Sono perfettamente consapevole che per mettere in pratica questi principi occorre un lavoro enorme sui dettagli: basti pensare che Chat considera oltre 2 miliardi di parametri. È per questo che ho detto subito che bisogna riconoscere che dal punto di vista tecnico si tratta indubbiamente di un risultato straordinario. Ma alla fine ciò che noi dobbiamo giudicare di una tecnologia non è la sua ingegnosità, ma la sua utilità: e la sua è quantomeno molto discutibile.

Dal nostro punto di vista di utenti, infatti, la strategia di Chat che ho fin qui discusso può essere riassunta in 4 passi, il secondo opzionale, gli altri tre invece fissi: 1) parafrasare, partendo dai testi disponibili, trovati in Internet o forniti dall’utente con cui sta dialogando; 2) gonfiare (opzionale), parafrasando sé stesso, qualora le informazioni disponibili non siano sufficienti a generare una risposta abbastanza corposa; 3) etichettare, associando al testo giudizi di valore piuttosto generici, scelti tra quelli che sembrano più probabili in base al significato letterale dei termini; 4) relativizzare, cercando di non dare mai giudizi troppo netti, in modo da apparire serio ed equilibrato (almeno secondo i criteri odierni) e, al tempo stesso, minimizzare la possibilità di essere colto in fallo.

Chiunque abbia insegnato riconosce a colpo d’occhio questa tecnica: è quella tipica degli studenti un po’ zucconi (si potrà ancora dire, in tempi di politically correct imperante?) che studiano a memoria senza capire davvero. E chiunque abbia insegnato sa anche che se durante l’interrogazione il professore ascolta distrattamente il trucco, benché vecchio quanto il mondo, può funzionare. Ma appena si vanno a vedere le cose più da vicino, ci si accorge che sono solo parole vuote, che suonano bene, ma racchiudono il nulla.

Trovo quindi molto azzeccata la qualifica di «affabulatore» che Ricolfi nel suo articolo ha affibbiato a Chat, che è anche meglio di «impostore», come ha invece scritto nel titolo: l’impostore, infatti, è uno che vuole fregarci e per questo agisce con una certa malignità, che è estranea a Chat (o, più esattamente, ai suoi creatori); l’affabulatore, invece, è uno che “ce la racconta”, avendo come obiettivo soltanto quello di cavarsela, contando più sulla nostra benevolenza e la nostra disponibilità a credergli (vedi mio articolo precedente: https://www.fondazionehume.it/societa/chatgpt-gli-imposturati-autorevoli-e-la-superluna/) che sulla sua reale capacità di ingannarci.

Tuttavia, questo atteggiamento può produrre ugualmente danni gravissimi: ai singoli, finché rimane confinato a poche persone, ma anche alla società intera, se diventa invece di massa. E Chat, purtroppo, sta diventando di massa. Se poi questo si salda da una parte al fatto che questo atteggiamento sta diventando di massa anche tra gli studenti in carne ed ossa (più per come stiamo riducendo la scuola che per colpa loro, in verità) e dall’altra al fatto che sta diventando di massa pure l’approvazione sociale di entrambi i fenomeni, si capisce quanto sia grave la situazione e quanto sia urgente una reazione.

 

Considerazioni finali

Poiché le probabilità di contrastare con successo questa deriva sono già di per sé molto scarse, perché ne rimanga almeno qualcuna bisogna aver chiari alcuni punti.

1) Anzitutto, il primo problema da chiarire su Chat è sia o no davvero intelligente, il che significa che il problema non èse sia o no: a) cosciente; b) senziente; c) creativo; d) pericoloso; e) buono; f) utile; g) affidabile … n) qualsiasi altra cosa.

Certamente tutti questi aspetti e molti altri ancora hanno a che fare con il problema dell’intelligenza: e infatti nella mia discussione li ho toccati tutti. Ma individuare in uno qualsiasi di essi la differenza essenziale tra l’intelligenza umana e quella artificiale significa implicitamente ammettere che a livello dell’intelligenza in sé non c’è nessuna differenza – o quantomeno nessuna differenza chiaramente identificabile, il che alla fine è lo stesso.

Ora, ammettere che Chat (o qualsiasi altra intelligenza artificiale) sia o possa essere intelligente, anche soltanto in piccola misura, ha conseguenze enormi, non soltanto teoriche, ma anche pratiche.

2) La prima conseguenza è che si rischia di riporre una fiducia eccessiva in questi sistemi, come si vede emblematicamente nella follia digitale che rischia di travolgere la scuola e che rappresenta la più grave minaccia in assoluto  (https://www.fondazionehume.it/societa/insegnare-contro-vento/).

La più grave, ma non l’unica, però. Già ora ci sono moltissime persone che trovano utile conversare con chat-ricostruzioni di personalità del passato, compreso un chat-Gesù in versione, manco a dirlo, rigorosamente politically correct (si veda il seguente articolo, molto divertente, ma anche un bel po’ inquietante: https://www.tempi.it/cacca-al-diavolo-ma-pure-a-text-with-jesus/).

Alcuni addirittura preferiscono farsi dei chat-amanti anziché quelli in carne ed ossa e in un futuro non lontano altri potrebbero decidere di ricorrere ai chat-psicologi anziché a quelli veri (https://www.fondazionehume.it/societa/umanizzazione-del-software-e-professione-dello-psicologo-limpero-del-verosimile/).

Insomma, come ha scritto giustamente Ricolfi nell’articolo di cui sopra, per provocare un disastro «non occorre costruire una macchina in grado di provare sentimenti: basta che sempre più esseri umani imparino a credere che lo sia».

3) La seconda conseguenza è che così si apre la porta a quello che è da sempre l’argomento favorito dei fautori dell’intelligenza artificiale: quello che John Searle, il loro critico più noto, ha chiamato «l’argomento della scienza dei tempi eroici», per cui si dice che “sì, è vero, siamo ancora agli inizi, ma è accaduto lo stesso a Copernico, Galileo, Einstein, ecc., però, proprio come loro, col tempo e l’esercizio miglioreremo, fino a raggiungere i nostri obiettivi, anche se oggi possono sembrare assurdi” (La riscoperta della mente, Boringhieri 1994, p. 21).

Se invece si mostra chiaramente che i progressi dell’intelligenza artificiale sono avvenuti senza produrre alcun aumento dell’intelligenza delle macchine, che continua ancor oggi ad essere uguale a zero, l’argomento verrà rovesciato e finirà per dimostrare il contrario: cioè che, anche aumentando la loro efficienza di molte volte, non si avrà mai un aumento della loro intelligenza, perché zero moltiplicato per qualsiasi numero fa sempre zero.

4) La terza e ultima conseguenza è che questo problema funziona (per usare un’espressione abusata) come arma di distrazione di massa, nel senso che i creatori di Chat e i loro colleghi continuano a sommergerci di nuovi dispositivi informatici, la cui utilità è nella grande maggioranza dei casi altamente dubbia (devo ancora trovare una persona che usi più del 10% delle funzioni del suo computer o del suo cellulare), mentre noi siamo tutti, appunto, distratti a discettare sul dubbio amletico se Chat sia destinato a trasformarsi in Skynet con tanto di Terminator al seguito oppure nel (letteralmente) deus-ex-machina che risolverà tuti i nostri problemi.

5) Dopo (e solo dopo) aver messo in chiaro questo punto cruciale, certamente si potrà e si dovrà discutere dell’utilità di questi sistemi, indipendentemente dal fatto che siano intelligenti. Tuttavia, riconoscere che non lo sono e che non potranno mai esserlo cambia parecchio anche da questo punto di vista, perché implica che avranno sempre dei limiti invalicabili, che riguardano soprattutto (benché non solo) le interazioni con le persone, che non hanno bisogno soltanto di efficienza, ma anche di relazioni soddisfacenti dal punto di vista umano. E da ciò segue che il primo luogo in cui dovrebbe essere posto un freno all’invadenza di queste tecnologie è la scuola.

6) Ma c’è un altro punto che deve assolutamente essere portato all’attenzione di tutti e diventare centrale in ogni discussione, mentre oggi non vi si accenna nemmeno: lo spaventoso costo energetico di queste tecnologie. Su questo scriverò un articolo a parte, perché è un problema enorme e molto più generale, ma voglio almeno fornire il dato relativo alla sola intelligenza artificiale.

È difficile fare un calcolo esatto, perché (e anche questo è molto significativo) le società produttrici non vogliono rendere pubblici i dati. Tuttavia, l’Osservatorio sull’Intelligenza Artificiale creato e diretto da Luciano Floridi presso l’Università di Oxford ha stimato che una singola sessione di “allenamento” di Chat produce oltre 220 tonnellate di anidride carbonica, cioè quanto una cinquantina di auto in un intero anno.

E siccome di queste sessioni ce ne sono volute milioni, non deve stupire che Floridi e i suoi stimino che negli ultimi anni tutti i vari apparati di intelligenza artificiale messi insieme abbiano consumato circa l’1% di tutta l’energia elettrica prodotta nel mondo. E siamo appena agli inizi. Quindi la domanda è: vale davvero la pena di investire una così grande quantità di risorse per ottenere i miseri risultati che abbiamo visto e una ancora più grande per conseguire quelli, in teoria straordinari, ma in realtà per nulla certi, che ci vengono promessi?

E soprattutto: quand’anche un giorno Chat (o uno dei suoi fratelli o cugini o figli o nipoti) dovesse finalmente riuscire a scrivere dei testi decenti, chi se ne frega? Cioè, a che cosa ci serve davvero? E se anche dovesse essere di qualche utilità, sarebbe tale da giustificare l’enorme investimento di risorse che avrà richiesto e che avrebbero potuto essere usate in mille altri modi, tutti o quasi tutti probabilmente più utili? Queste sono le domande che andrebbero fatte. E che invece nessuno fa.

7) L’ultimo punto è che la risposta a questa e ad altre domande simili non dovremmo chiederla agli esperti di informatica. Anzitutto perché si tratta di una decisione politica (che quindi riguarda tutti) e non tecnica (che riguarderebbe solo gli esperti), anche se in genere si cerca di presentarla così. Ma, soprattutto, non dovremmo farlo perché tutti gli esperti di sistemi informatici sono anche dei venditori di sistemi informatici, se non direttamente almeno indirettamente, perché sono comunque persone per le quali carriera, prestigio, successo e benessere dipendono in modo cruciale dal buon andamento del mercato dei sistemi informatici.

E, come giustamente ha scritto ancora Floridi, «le ultime persone a cui dovremmo chiedere se qualcosa è possibile sono quelle che hanno consistenti ragioni economiche per rassicurarci che lo sia» (Etica dell’intelligenza artificiale, Cortina 2022, p. 272).

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