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Il censore della nostalgia

7 Settembre 2023 - di Dino Cofrancesco

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Commentando il ‘discusso libro’ del generale Roberto Vannacci, Corrado Augias, uno dei terroristi della mente in servizio permanente effettivo sulle colonne di ‘Repubblica’, dopo aver ricollegato Il mondo al contrario al clima di esaltazione delle ‘famigerate SS naziste’, ironizza sulla nostalgia del mondo di ieri che cola dalle pagine del saggio. Rimpiangere l’Italia che fu significa ignorarne l’arretratezza, la diffusa povertà, i diritti civili inesistenti, il divorzio da conquistare a colpi di pistola, il delitto d’onore, l’assistenza sanitaria rudimentale. ‘E’ inutile polemizzare col presente tanto più se si considera la portata rivoluzionaria del passaggio in corso, dalla cultura della carta a quella digitale’. Sono preziose stille di saggezza! E tuttavia, vorremmo chiedere all’onnipresente columnist, è un reato ritenere che l’Italia di Pane amore e fantasia avesse anche positività perdute? Cercare di conservare qualcosa del passato è un reato di lesa modernità? Parlare di “bellezza del nucleo familiare tradizionale” comporta l’esposizione alla gogna mediatica? Forse è ingenuo voler ritornare al mondo pre-68 ma non si vede perché si debba essere obbligati a guardare al passato come a un blocco compatto in cui, ad es., il positivo (assenza di ballo con sballo) era indissolubilmente unito al negativo (l’autoritarismo familiare) e la meritocrazia era unita a una Università che teneva lontane le masse. In ogni caso, i valori legati al passato stanno sullo stesso piano di quelli che guardano al presente e al futuro e, in democrazia, quel che conta è la diversa risonanza che hanno negli animi dei cittadini. Il pluralismo – quello vero di Isaiah Berlin – è proprio questo: abbiamo idee diverse in campo morale, politico, sociale, bioetico, culturale e tali idee vanno rispettate tutte, dal momento che nessuna scienza è in grado di disporle in ordine gerarchico. Se quello che pensa il generale Vannacci è condiviso in tutti i bar d’Italia, Augias se ne faccia una ragione: vuol dire che la maggioranza dei nostri connazionali si riconosce in una etica tradizionale piuttosto che in quella illuministico-cosmopolita degli opinion makers di ‘Repubblica’. Toglieremo il voto ai retrogradi o li sottoporremo a una rieducazione di massa?

Immigrazione ed elezioni europee – Perché la destra è in pole position

6 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Mancano 9 mesi alle prossime elezioni Europee, e si sente dire che la relativa campagna elettorale è già iniziata. Non mi sembra esatto, almeno in Italia. Quel che si osserva, negli ultimi mesi, è semmai un penoso tentativo dei partiti (specie quelli di governo) di differenziarsi sulla politica interna, mentre quasi nulla sulle grandi tematiche europee – dal patto di stabilità all’immigrazione – né sul problema politico fondamentale: con quale maggioranza la Commissione europea governerà il Vecchio continente?

Eppure questo è il punto cruciale. Accade infatti che, per la prima volta dal 1979 (primo Parlamento Europeo), esiste la concreta possibilità che l’alleanza Popolari-Liberali-Socialisti, che ci ha governati per 45 anni, non abbia più i numeri per governare.  È tutt’altro da escludere, infatti, che i due raggruppamenti di destra (Identità e Democrazia, Conservatori e Riformisti), che attualmente occupano il 18% dei seggi, si rafforzino al punto da rendere numericamente possibile una maggioranza con i Popolari, attualmente al 25%: lo spostamento elettorale necessario per tale ribaltamento è dell’ordine di 7 punti percentuali, che sono tanti ma non tantissimi. Questa eventualità, più che regalarci un governo di destra (impraticabile finché il Partito Popolare manterrà lo sbarramento contro l’estrema destra), si tradurrebbe in una fortissima instabilità, fino alla sostanziale paralisi delle istituzioni europee. Una prospettiva non proprio esaltante.

Ma che cosa rende verosimile l’ipotesi di un successo delle destre in Europa?

Fondamentalmente il combinato disposto di due circostanze: l’aggravamento del problema migratorio, particolarmente acuto in Italia; la rimozione del problema da parte dei maggiori partiti progressisti europei.

Che il problema migratorio sia in cima alle preoccupazioni di alcune opinioni pubbliche europee si indovina dai risultati elettorali e dai sondaggi più recenti, che segnalano il rafforzamento dei partiti ostili all’immigrazione. Oltre al recente successo della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni, si debbono ricordare: l’avanzata di Alternative für Deutschland in Germania (elezioni politiche e sondaggi), il rafforzamento del Rassemblement National in Francia (elezioni legislative), le recenti clamorose vittorie delle destre in Svezia, Finlandia, Grecia. In apparente controtendenza, i risultati elettorali in Spagna (dove il partito xenofobo Vox ha perso colpi) e in Danimarca (dove la premier socialdemocratica Mette Frederiksen è tornata a guidare il paese).  Dico “apparente” controtendenza perché sia in Spagna sia in Danimarca il consenso elettorale complessivo ai partiti di destra e centro-destra è in realtà aumentato, sia pure di poco.

Il caso danese merita una speciale attenzione. In Danimarca i socialdemocratici, con il 27.5% dei consensi, hanno ottenuto il miglior risultato di sempre, e hanno scelto di formare un governo di grande coalizione (“né rossa né blu”, secondo la premier) con gli altri due maggiori partiti, ossia liberali e i moderati. Il punto interessante, però, è con che tipo di messaggio i socialdemocratici hanno affrontato – e vinto – la prova elettorale. Per mesi, al centro del dibattito politico danese vi è stata la proposta, caldeggiata dai socialdemocratici stessi, di collocare in Rwanda o in qualche territorio straniero una parte dei migranti.

Ed ecco il punto chiave: anche se con ogni probabilità la proposta non sarà attuata, o sarà annacquata in qualcosa d’altro, il fatto è che i socialdemocratici hanno riconquistato la fiducia dell’elettorato mostrando che prendono sul serio il problema dell’immigrazione. Una sorta di variante nordica della “linea Minniti”, che in Italia ebbe breve durata, almeno a sinistra.

Nulla di tutto ciò pare muoversi nelle altre socialdemocrazie europee. Anzi, l’atteggiamento della Commissione è di “comprendere” l’esistenza del problema, ma di essere decisa a non far nulla prima del rinnovo del Parlamento europeo, il prossimo giugno. Ecco perché penso che i partiti di destra, radicale o estrema, abbiamo ottime possibilità di fare un grosso risultato alle prossime elezioni europee. Negare o sottovalutare il problema dei migranti è il più grande regalo che i partiti di sinistra possano fare alle forze politiche di destra.

Al coro del politicamente corretto s’è unita la voce di Maurizio Ferrera

6 Settembre 2023 - di Dino Cofrancesco

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‘La libertà non è una clava’ è il titolo di un editoriale di Maurizio Ferrera pubblicato sul ‘Corriere della Sera’ del 23 agosto. “Il discorso di odio, vi si legge, agisce come un sasso nello stagno, attiva una spirale di polarizzazione di gruppo, di radicalizzazione dei disaccordi e dei conflitti.” E ancora “anche a prescindere dai suoi contenuti, il discorso d’odio erode il terreno comune e trasforma un’idea (un punto di vista, una visione della società, una identità in una credenza assoluta, irri- ducibile, spesso ‘tribale’. “La libertà di espressione diventa una clava che frantuma le basi del regime – liberale e democratico – che rende possibile l’esercizio di quella libertà”. Quante volte ho pensato la stessa cosa leggendo le omelie degli opinion makers di ’Repubblica’, del ‘Fatto quotidiano’, di ‘Domani’, de ‘La Stampa’ etc. C’è un’Italia che viene letteralmente criminalizzata se non condivide ‘tutti’ i valori che stanno a fondamento della Costituzione antifascista e l’universalismo illuministico e cosmopolitico che ormai domina incontrastato nelle scuole italiane e nei mass media(anche quelli di Mediaset) e per il quale tutto ciò che si oppone al ‘pensiero egemone’ va stanato e denunciato. In  qualche caso, forse sotto la suggestione del fascistometro escogitato da Michela Murgia (parce sepultae), si sono proposti attestati ufficiali a dimostrazione di stare dalla parte giusta (v. la dichiarazione di antifascismo sulla carta d’identità proposta da un sindaco del Grossetano).Non sto rigirando la frittata. Il lettore sa bene che i casi da me citati non sono quelli ai quali si riferisce Ferrera, che pensava al libro di Roberto Vannacci e, soprattutto, alle “categorie più bersagliate dai discorsi d’odio” “i migranti in particolare, in particolare se musulmani e/o di pelle scura, gli ebrei, la comunità Lgbtq*” I pronunciamenti pubblici di disprezzo verso queste categorie, scrive tendono a sfuggire alle statistiche, ma costituiscono il retroterra dei veri e propri crimini d’odio”. Mi è difficile trovare un esempio di ‘pronunciamento pubblico’ e di implicito invito all’aggressione  nei vari periodici di area moderata, liberale, conservatrice e persino ‘nostalgica’ che mi capitano tra le mani; anche se non esito ad ammettere che nei bar dello sport disseminati nella penisola discorsi come quello di Vannacci trovano molti consensi: Ma questo poi cosa significa: che una visione tradizionalista della famiglia, dei generi sessuali, delle autorità laiche e religiose va considerata una ‘malattia’ da debellare al più presto? Sono d’accordo che “il valore del nostro modello di società dipende dalla misura in cui sapremo rendere ’normale’ la diversità nel discorso e nelle interazioni pubbliche”. Mi chiedo, però, quali diversità vadano riconosciute e chi debba decidere in merito. Come è stato detto da un giovane, brillante, studioso di Isaiah Berlin, il pluralismo esaltato nella retorica nazionale sono le tonalità diverse di uno stesso colore. Non sembra entrare nella nostra political culture il principio che il ‘diverso’ che legge i libri di Julius Evola e fonda un’associazione culturale intitolata a Ezra Pound va rispettato come il ‘normale’ che colleziona gli scritti di Antonio Gramsci. A Genova, ad es., un sindaco di sinistra ha capeggiato un corteo ANPI che chiedeva di allontanare dalla città i neofascisti (!) di Casa Pound.

In realtà, si dovrebbe prendere atto che   un paese non è una lavagna su cui elencare la parte buona e la parte cattiva, i giusti e i reprobi, i fascisti e gli antifascisti, gli amici dell’Occidente e gli amici di Putin. Ma per averne consapevolezza sarebbe necessario riconoscere l’aria di famiglia che in un conflitto politico, sociale e culturale caratterizza i partiti (in senso lato) in competizione. Non c’è comunità nazionale, oggi come ieri, in cui i modi di pensare, gli atteggiamenti verso la vita, i pregiudizi, le sentimentalità non si ripartiscono   equamente tra i vari piani dell’edificio sociale. In parole povere, la sinistra e la destra quasi sempre presentano lo stesso volto sia pure diversamente tatuato e colorato. Alle violenze degli anni venti contro gli agrari – cui non fu estraneo Giacomo Matteotti – corrispondono quelle delle squadre d’azione di Italo Balbo e di Renato Ricci, alla violenza dell’Inquisizione spagnola corrisponde l’efferatezza con cui gli anarchici irrompevano nei conventi, spesso profanandovi le tombe. La ‘manifestazione pubblica di odio’ nei confronti delle classi dirigenti e dei loro intellettuali, è quasi sempre  una reazione (certo inaccettabile) che nasce da quanti si sentono da esse  umiliati e trattati come sudditi di cui vergognarsi. L’idea che ci siano italiani proiettati nella modernità e altri ancorati a pregiudizi del passato circola da secoli nella ‘repubblica delle lettere’ come circola l’altra che ci siano italiani legati alle ‘buone tradizioni’ del tempo che fu e altri malati di novismo e di nichilismo. Ne è derivata la figura dell’intellettuale ‘bonificatore’ incaricato di metter il giardino in ordine, eliminandovi le sterpaglie e i parassiti di piante e animali. Sì, ha ragione Ferrera, “il terreno culturale che favorisce la democrazia è fragile e fatica a tenere il passo con i mutamenti sociali, fra cui l’emergenza di nuove sensibilità e domande di riconoscimento pubblico”. Tale riconoscimento, però, è possibile solo se si viene incontro all’altro, se se ne comprendono i valori profondi, se gli si garantisce che nessuno intende rifargli l’anima. Ma questo comporta – prendendo sul serio il pensiero di J.S.Mill – la rimozione del peccato capitale dell’ideologia italiana, quello di fondare l’identità su una contrapposizione assoluta e radicale invece che su valori positivi intesi a costituire un idem sentire de re publica. Ne rappresenta un esempio da manuale quella che Renzo De Felice chiamava la ‘vulgata antifascista’ e che da settant’anni è stata il fondamento indiscusso della retorica nazionale creando spaccature anacronistiche nel paese e stigmatizzando quanti non si riconoscevano nella retorica ufficiale e anpista. E non vi si riconoscevano non solo per aver letto analisi pacate del famigerato ventennio—quelle di storici come lo stesso De Felice, ma anche di Roberto Vivarelli, di Massimo L. Salvadori etc.—ma anche per esperienza personale, avendo conosciuto bene  persone (familiari e amici) che non corrispondevano affatto allo stereotipo creato dall’antifascismo di regime.

Nell’editoriale di Ferrera non c’è neppure il sospetto che certe reazioni—sicuramente deprecabili—possano essere dettate non da una malattia morale, da ignoranza, da atavismi tribali ma dall’oggettiva complessità dei problemi. Si prenda il caso dell’emigrazione. E’ una colpa temere che un’emigrazione incontrollata possa riversare sulle nostre rive fiumane di ‘desperados’ che potrebbero alterare i paesaggi materiali e spirituali nei quali siamo vissuti per secoli? Per l’abitante del quartiere povero la paura di aggressioni da parte di gente che non ha né un tetto né un lavoro non va tenuta in debito conto? E dobbiamo proprio mettere alla gogna Andrea Gianbruno per aver affermato ciò che ogni buon padre di famiglia non fa che ripetere alle figlie: ‘vai pure a ballare, ma ricordati che alcool e droga ti espongono a brutti incontri?’

Forse Ferrera, difensore (giustamente) dei diritti della comunità Lgbtq* dovrebbe riflettere su quanto ha scritto il filosofo Simone Regazzoni, allievo di Jacques Derrida, “In questi anni il discorso della sinistra non si è semplicemente focalizzato sui diritti delle minoranze. Ha fatto due cose, pessime, il cui risultato è una destra sempre più forte in Italia.

  1. Ha affermato, nella prassi e nella teoria, che qualsiasi riconoscimento dei diritti delle minoranze deve passare da una radicale messa in discussione critica e una colpevolizzazione morale di ciò che si presenta, e che la maggioranza delle persone vive, come la norma. Vuoi riconoscere i diritti della famiglia queer? Devi dire che la famiglia tradizionale è il male. Vuoi riconoscere diritti alla genitorialità delle coppie omosessuali? Devi dire che i termini mamma e papà sono formule da non usare. Vuoi riconoscere i diritti a quanti percepiscono la propria sessualità di genere diversa dal sesso biologico? Devi dire che esiste solo la sessualità di genere, che il sesso è un costrutto culturale e che maschile e femminile sono costruzioni oppressive.  Devi riconoscere il diritto a essere a pieno Italiani ai figli di immigrati? Devi dire che non esiste un’identità italiana.
  2. Queste tesi non vengono presentate come ipotesi da discutere in un contesto filosofico o culturale, ma come dogmi di una nuova religione che non possono essere messi in discussione, pena la scomunica morale. Per questo nello stesso spazio intellettuale che le sottoscrive pubblicamente molti sentono il bisogno, in privato, di prendere una distanza ironica da questa neoreligione a tratti kitsch con i suoi santoni e le sue vestali. Immaginiamo quale effetto possa avere questa neoreligione sulle masse… quello di vedere un libro rabberciato e mediocre come un grido liberatorio del tipo: “il re è nudo!”.

Oltretutto comprendere chi sta dall’altra parte non è qualcosa che riguardi solo lo scienziato politico o il filosofo morale ma è, soprattutto, un imperativo politico. Si prevale solo sull’avversario che si conosce.

A proposito di stupri – Il lato oscuro della civiltà

3 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ogni tanto la stampa e le televisioni ci informano di qualche drammatica violenza su donne, ragazze, e persino bambine: stalking, abusi sessuali, stupri, femminicidi. Ultimamente, l’attenzione è caduta su due casi di stupro di gruppo avvenuti uno a Palermo, l’altro a Caivano in provincia di Napoli, in una realtà degradata e ostaggio della criminalità.

Notizie di questo tipo sono doverose, e tanto più utili quanto più accompagnate da ricostruzioni accurate del contesto economico, sociale e culturale in cui i fatti maturano. C’è un risvolto della medaglia, tuttavia. Da questo genere di episodi, di cui si parla qualche volta al mese, possono derivare credenze sostanzialmente errate. Ad esempio, che si tratti di poche decine di casi l’anno. O che la matrice siano le condizioni sociali e culturali, particolarmente problematiche nel Mezzogiorno. O che l’Italia sia una realtà particolarmente arretrata, ben lontana dagli standard di civiltà di tante altre società avanzate.

Ebbene, nessuna di queste letture, spesso stimolate dagli episodi di cronaca, regge a un’analisi dei dati (pur imperfetti e frammentari) di cui oggi disponiamo. Partiamo dal numero di stupri: le denunce sono circa 5 al giorno, con un “numero oscuro” di almeno 50 casi non denunciati ogni giorno. Una stima rozza e per difetto suggerisce che gli stupri siano dell’ordine di 20 mila l’anno.

Ma dove si concentrano gli stupri? I dati disponibili mostrano che, contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, la frequenza è maggiore nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle del Sud. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’interno, relativi al 2021, il record negativo delle violenze sessuali è detenuto dalla civilissima Emilia- Romagna, mentre la regione meno toccata è l’arretrata Calabria. Né si pensi che questa (presunta) anomalia sia una particolarità italiana. Se allarghiamo l’orizzonte, e passiamo a considerare i paesi dell’Unione europea, o l’insieme ancor più ampio dei paesi Oecd, troviamo la stessa regolarità già osservata confrontando le regioni italiane. Sulla base dei pochi dati disponibili, pare che i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrino nei paesi (considerati) più sviluppati, come Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Olanda, con punte inquietanti negli ultra-moderni, ultra-civili paesi del Nord: Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca (per non parlare di quel che accade fra i super-privilegiati e sovra-istruiti studenti dei college americani e britannici, dove alcune inchieste indicano che le studentesse vittime di violenza sessuale sarebbero 1 su 5). Mentre i tassi più bassi si riscontrano in paesi mediterranei come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia. In tutte le statistiche il nostro paese si trova sempre nella fascia dei paesi meno esposti alla violenza di genere.

Arrivati a questo punto, so già qual è l’obiezione: è tutta colpa del “numero oscuro”, ossia del tasso di denuncia, presumibilmente molto diverso da paese a paese, e significativamente più alto nei “paesi civili”. Se il centro-nord ha più violenze sessuali del Sud, e la Svezia ne ha molte di più dell’Italia, è solo perché nelle realtà avanzate quasi tutte le violenze vengono denunciate, mentre in quelle arretrate ciò accade soltanto per una piccola frazione del totale.

Questo argomento non è del tutto infondato, ma non basta a spiegare i fatti. Le differenze nei tassi di violenza fra un paese come l’Italia e un paese come la Svezia sono troppo ampie per attribuirle interamente a differenze nei tassi di denuncia, anche perché vari studi condotti nei paesi nordici indicano, anche lì come nel nostro paese, tassi di denuncia molto bassi, dell’ordine di 1 caso su 10 (se non peggio).

Ma c’è un modo sicuro per verificare se il “paradosso nordico” (i territori più avanzati hanno tassi di violenza sulle donne maggiori di quelli più arretrate), è una realtà e non un artefatto statistico: basta confrontare fra loro non le denunce per stupro, ma i femminicidi, per i quali il numero oscuro non può che essere vicino a zero (è molto difficile che l’uccisione di una donna non venga rilevata dalle statistiche). Ebbene, anche in questo caso i paesi del Nord hanno i tassi di femminicidio più alti, l’Italia ha valori comparativamente molto bassi e, dentro l’Italia, è il Centro-nord a primeggiare (sia pure di poco), non l’arretrato Mezzogiorno. Non solo, ma – contrariamente a un pregiudizio molto diffuso – i femminicidi “di possesso” (in cui il maschio non riesce ad accettare la perdita della donna) sono tipici del Nord, non del Sud.

Conclusione: i dati dicono che, tendenzialmente, più avanzata è una realtà dal punto di vista del benessere e della parità di genere, maggiore è il tasso di violenza sulle donne. In quale modo questa circostanza debba essere interpretata, è tutt’altro che ovvio. Ma il fatto resta. E solleva una domanda: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto?

“Lo Zar è autentico oppure no?” – Sulla morte di Evgenij Prigozhin

28 Agosto 2023 - di Paolo Musso

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La morte (ampiamente annunciata) di Evgenij Prigozhin, avvenuta mercoledì 23 agosto, ha riproposto tutti gli interrogativi sulla sua apparentemente incomprensibile rivolta e la sua ancor più incomprensibile resa.

Almeno una, fra le tante ipotesi avanzate, cioè quella complottista, per cui sarebbe stata tutta una farsa, orchestrata di comune accordo con Putin per far “venire allo scoperto” i potenziali traditori, dovrebbe essere stata spazzata via, visto che il suo presunto complice l’ha appena fatto fuori (anche se i suoi fautori difficilmente se ne daranno per intesi, dato che per loro non vale né il principio di realtà né quello di non contraddizione).

Ma se questa ipotesi è certamente sbagliata, è difficile dire quale sia invece quella giusta, anche perché il fallimento della rivolta ha impedito di cogliere appieno l’enormità dell’evento, che appare invece in tutta la sua imponenza se si pensa a cosa sarebbe successo se la Wagner fosse arrivata a Mosca e Prigozhin avesse preso il potere, come a un certo punto è sembrato perfettamente possibile. Si sarebbe infatti trattato del primo colpo di Stato riuscito in Russia dopo quello della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, oltre un secolo fa, nonché dell’unico finora verificatosi in una moderna superpotenza.

Tenendo presente questo, i fatti, già di per sé sconcertanti, diventano quasi incomprensibili, a cominciare da quale fosse il vero obiettivo della rivolta.

È difficile credere che Prigozhin volesse davvero prendere d’assalto la capitale del più grande Paese del mondo con appena ventimila mercenari e senza nessun appoggio evidente da parte di altri poteri dello Stato. Ma è almeno altrettanto difficile credere che abbia intrapreso un’azione così dirompente e senza ritorno solo per qualche rivendicazione “sindacale” (il non assorbimento della Wagner nell’esercito russo) o politica (la testa dei suoi nemici Shoigu e Gerasimov).

E poi, altre domande. Come è stato possibile che la Wagner abbia potuto penetrare come un coltello nel burro per centinaia di chilometri nel territorio della seconda superpotenza del mondo, che per giunta si trovava già da tempo in stato di mobilitazione generale a causa della guerra? E perché la rivolta di Prigozhin ha avuto un così entusiastico sostegno popolare? Chi l’ha fermato e come, se fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito? O, se si è fermato da solo, perché l’ha fatto, sapendo perfettamente che con ciò avrebbe firmato la sua condanna a morte?

Alcune risposte sensate sono state date, ma mi sono sempre sembrate insufficienti.

Sul primo punto, per esempio, Lucio Caracciolo aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che Putin ha mandato in Ucraina tutti i soldati che ha potuto, lasciando quasi completamente sguarnito il territorio del suo immenso paese, il che sembra plausibile (benché contraddica l’altra tesi dello stesso Caracciolo secondo cui la Russia sarebbe in grado di continuare la guerra praticamente all’infinito; ma questo è un altro discorso, che prima o poi riprenderò).

Ciò però non spiega perché da parte dell’esercito russo non ci sia stata la benché minima reazione all’avanzata della Wagner  (un paio di aerei militari abbattuti e una dozzina di soldati uccisi non indicano certo una resistenza organizzata, ma piuttosto delle sporadiche iniziative individuali, verosimilmente non autorizzate). E ciò benché il suo primo passo sia stato occupare il centro di comando di Rostov che presiedeva all’intera “Operazione Speciale”, cioè il luogo meglio difeso di tutta la Russia.

Quanto al perché Prigozhin si sia fermato, il mistero è ancor più fitto. Uno dei nostri generali a riposo che collaborano come esperti con le televisioni (non mi ricordo più chi, forse Angioni) aveva detto che la Wagner non poteva essere già arrivata così vicino a Mosca come Prigozhin sosteneva, perché i mezzi militari non si muovono così rapidamente. Anche questo sembra plausibile, ma, di nuovo, non spiega granché. Infatti, quando pure gli ci fosse voluto ancora un giorno o due per raggiungere la capitale, non sarebbe cambiato molto, dato che nessuno sembrava volersi muovere per difenderla.

Personalmente, ho sempre pensato che Prigozhin si sia fermato di sua iniziativa, semplicemente perché non c’è il minimo indizio che sia stato fermato da qualcun altro. Ma perché mai abbia deciso di farlo e di cercare un accordo con Putin pur sapendo perfettamente che era un suicidio, questo davvero non riuscivo a capirlo.

Poi giovedì scorso, proprio il giorno dopo la sua morte, ho ascoltato una lettura “alternativa” di questi eventi fatta dal grande scrittore russo dissidente Mikhail Shishkin che ho trovato molto convincente e che perciò qui vi ripropongo.

Intervenendo alla tavola rotonda Tra democrazia e autocrazia: il destino della libertà nell’ambito del 44° Meeting di Rimini, Shishkin ha spiegato che in Occidente abbiamo un’idea dei russi basata essenzialmente sulla loro grande letteratura, che si interroga continuamente sul male, sulla colpa, sulla responsabilità, ecc. Ma in realtà questo modo di pensare è limitato a una ristretta élite di persone istruite, mentre alla grandissima maggioranza dei russi di tutte queste grandi domande non importa nulla, essendo ancora legati a una concezione della politica di tipo zarista.

Per loro la vera questione da porsi «era ed è e resta tuttora: “Lo Zar è autentico oppure no?” Questa è la principale domanda russa, perché se lo Zar è autentico, allora ci sarà l’ordine, se invece lo Zar è falso, allora ci sarà l’anarchia, i torbidi, il caos». E l’unico modo per capire se lo Zar è autentico oppure no è vedere se vince.

Per questo Stalin, che ha ucciso milioni di persone, ma ha vinto la guerra contro Hitler, è ancor oggi amatissimo dal popolo, mentre Gorbacev, che ha cercato di modernizzare il paese, ma ha perso la guerra in Afghanistan e la guerra fredda contro l’Occidente, è generalmente disprezzato.

Sempre per questo, mi permetto di aggiungere (perché di questo Shishkin non ha parlato, ma mi sembra coerente con la sua logica), è un errore di prospettiva pensare, come molti fanno, che il tentativo di democratizzare la Russia sia fallito quando Boris Eltsin prese a cannonate il Parlamento che gli si era ribellato (peraltro ancora dominato dai comunisti irriducibili che avevano tentato il golpe contro Gorbacev, quindi non esattamente dei campioni della democrazia). Al contrario: ciò agli occhi del popolo avrebbe dovuto legittimare Eltsin come “autentico Zar”, il che semmai lo avrebbe aiutato a continuare il processo di democratizzazione. A impedirglielo (oltre alla vodka…) fu la crisi cecena, che non riuscì a domare e che pertanto lo delegittimò.

E infatti il suo successore Putin, che da ex ufficiale del KGB conosceva bene i meccanismi del potere in Russia, iniziò la sua carriera politica promettendo di vincere la guerra in Cecenia con qualsiasi mezzo («inseguiremo i terroristi dovunque si nascondano, anche dentro il cesso»). Avendo mantenuto la promessa, pur usando una brutalità inaudita, venne accettato da tutti come autentico Zar. E ancor più lo divenne nel 2014, con l’annessione della Crimea e di parte del Donbass.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che tutti i regimi usano le guerre per rafforzarsi, in modo da unire il popolo contro il nemico esterno e sviare la sua attenzione dai problemi interni. Questo è certamente vero, ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo Shishkin, infatti, in Russia il semplice richiamo patriottico all’unità contro il nemico esterno non basta, perché se il popolo ha la sensazione che lo Zar non sia in grado di vincere perderà la fiducia in lui e non sarà più disposto a seguirlo, nonostante la minaccia incombente.

Non è che il patriottismo per i russi non conti: conta moltissimo, invece. Però non c’entra nulla con la loro concezione del potere, che è pragmatica fino alla brutalità e non contiene alcun elemento di idealismo. La vittoria dello Zar non ha (non primariamente, almeno) lo scopo di garantire il bene della patria e del popolo, bensì quello di dimostrare la sua forza e la sua capacità di imporsi a tutti. Perciò lo Zar non deve necessariamente fare la guerra, ma, se la inizia, deve necessariamente vincerla (il che, fra parentesi, significa che è illusorio sperare che Putin si decida a trattare: sa bene, infatti, che se lo fa è morto).

Per questo, secondo Shishkin, Putin è ormai da tempo considerato un falso Zar e tutti stanno aspettando che ne sorga un altro che possa prendere il suo posto. Prigozhin aveva le caratteristiche giuste: era forte; era spietato (caratteristica negativa per un leader occidentale, ma non per uno Zar); era l’unico che era riuscito a vincere (a Bakhmut) da quando Putin aveva iniziato a perdere; era l’unico che aveva osato denunciare pubblicamente la debolezza del falso Zar; e infine aveva avuto l’ardire supremo di muovere in armi contro di lui.

Quindi l’azione di Prigozhin era davvero ciò che sembrava: un tentativo di colpo di Stato. E, a dispetto delle apparenze, non era affatto campato in aria, ma poteva davvero riuscire. Il motivo per cui nessuno l’ha appoggiato apertamente, ma nessuno l’ha nemmeno ostacolato, infatti, è che erano tutti in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Se fosse andato fino in fondo, sarebbe stata la prova che era proprio lui il vero Zar che aspettavano e allora tutti l’avrebbero seguito.

Ma perché Prigozhin invece si è fermato?

Perché, ha risposto Shishkin, mentre «tutta la popolazione era pronta ad accettare il fatto che lui potesse diventare il nuovo Zar della Russia, l’unico a metterlo in dubbio era lo stesso Prigozhin, che psicologicamente si è dimostrato non pronto a prendere il potere, che avrebbe avuto ai suoi piedi».

Quella esitazione è stata fatale. Una volta fermatosi, Prigozhin non poteva più ripartire: per tutti, ormai, compresi i suoi stessi uomini, era diventato anche lui un falso Zar. E a quel punto non gli restava che sforzarsi di credere alle promesse di Putin, pur sapendo benissimo che erano false.

A chi ha una concezione razionalista della storia, per cui il suo svolgersi è il prodotto di cause sempre perfettamente logiche e perfettamente coerenti, questa spiegazione apparirà di sicuro insoddisfacente. A chi, come me, è invece convinto che la storia non è fatta da forze impersonali, ma dagli esseri umani, che non agiscono solo in base alla ragione, ma anche alle emozioni, dovrebbe sembrare molto plausibile.

D’altronde, tante volte abbiamo visto campioni affermati e blasonati giungere a un passo dal trionfo agognato per tutta la vita e poi farsi prendere dal panico e fallire proprio quando bastava allungare la mano per raccoglierlo – o meglio, proprioperché bastava allungare la mano per raccoglierlo. E se succede nello sport, dove in fondo è in gioco solo la gloria o al massimo i quattrini, perché mai non dovrebbe accadere anche in situazioni ben più drammatiche, in cui è in gioco la vita, propria e altrui, e magari anche il destino del mondo?

Inoltre, la lettura di Shishkin ha anche un altro punto a suo favore: è l’unica (almeno fra quelle fin qui proposte) che si accordi con tutti i fatti attualmente noti. Magari un giorno verranno alla luce altri fatti che la smentiranno, ma per ora le cose stanno così. E ciò non è poco.

Resta però ancora una domanda: cosa succederà adesso?

Secondo Shishkin, anche se per il momento Putin è rimasto al potere, la sua condizione non è cambiata, perché non è lui che ha vinto, ma Prigozhin che ha perso, mentre la situazione in Ucraina resta critica. Di conseguenza, tutti continuano provvisoriamente ad ubbidire all’attuale Zar, ma continuano a considerarlo delegittimato e perciò continuano ad aspettare che sorga un nuovo pretendente a cui non tremino il cuore e la mano nel momento supremo.

Shishkin ritiene che ciò accadrà molto presto, perché è convinto che Putin sia gravemente malato e che quello che si vede in pubblico sia ormai da tempo un suo sosia. In ogni caso, quando ciò accadrà, sia domani o più tardi, chiunque prenda il suo posto metterà subito fine alla guerra, esattamente come avrebbe fatto Prigozhin se avesse avuto successo.

Non ho elementi per dire se la prima convinzione di Shishkin sia giustificata, anche se lo spero, ma almeno la seconda mi sembra plausibile, posto (ovviamente) che la sua chiave di lettura sia corretta.

La ragione, infatti, è sempre la stessa: per legittimarsi lo Zar deve vincere e in Ucraina, ormai, ciò non è più possibile. Prigozhin lo sapeva bene, avendo visto con i suoi occhi la situazione sul campo e i cadaveri dei suoi uomini, che aveva perfino mostrato in diretta televisiva al “falso Zar” che intendeva spodestare. Ma nessuno che aspiri al ruolo di “autentico Zar” di tutte le Russie può permettersi di cominciare il suo regno facendosi logorare dal terribile tritacarne ucraino.

Perciò, chiunque sarà il successore di Putin, secondo Shishkin per prima cosa cercherà di chiudere quella nefasta partita il più presto possibile, riconoscendo la sconfitta, ma dandone la colpa al “falso Zar” appena abbattuto, per poi cercare la sua definitiva legittimazione attraverso una vittoria di altro tipo, presumibilmente contro i suoi nemici interni.

Non resta che augurarci che abbia ragione.

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