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Fortezza Europa?

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È dei giorni scorsi la notizia che 8 paesi europei, fra cui l’Italia, hanno più o meno completamente sospeso la convenzione di Schengen, che dal 1990 permette la libera circolazione all’interno dell’Europa. Da sabato, in particolare, Giorgia Meloni ha disposto di ripristinare i controlli alle numerose località di frontiera con la Slovenia, a partire dal valico Fernetti, uno dei maggiori punti di transito tra l’Europa occidentale e quella centro-orientale.

La misura è stata motivata con la necessità di filtrare gli ingressi in chiave anti-terrorismo, ma il suo significato – a mio parere – finirà per andare molto al di là delle ragioni contingenti che l’hanno motivata. Essa ha infatti finito per mettere in luce due aspetti per lo più trascurati del problema migratorio.

Il primo è che gli ingressi irregolari in Italia non avvengono solo via mare, tramite i barconi, ma anche via terra. Il secondo è che, finora – ossia vigente la convenzione di Schengen – gli ingressi in Europa via terra sono sempre stati ancora meno controllabili di quelli via mare. Tali e tanti, infatti, sono i punti di frontiera non controllabili (boschi, valichi, pianure poco abitate), che risulta impossibile intercettare e registrare una frazione cospicua di quanti entrano in Europa alla spicciolata da un confine terrestre. Un problema acuito dal fatto che diversi paesi europei, in particolare gli ultimi arrivati Slovenia e Croazia, non sembrano minimamente intenzionati né a controllare gli ingressi dai Balcani né le uscite verso l’Italia. Insomma, se fermare le partenze via mare dall’Africa è difficile, anche con l’impegno dell’Europa contro scafisti e trafficanti, fermare quelle dai Balcani e dall’Est Europa è praticamente impossibile, almeno con le norme attuali.

Prendere atto di questa impossibilità è importante perché rende più chiaro il fatto che, in materia di politiche migratorie, determinate alternative o non esistono, o hanno prezzi elevatissimi. L’alternativa che non esiste è quella di fermare gli ingressi irregolari in Europa bloccando le partenze dall’Africa: anche azzerandole, resterebbe un enorme flusso da terra, destinato a ingrossarsi man mano che avesse successo la politica di contrasto agli sbarchi dal mare, in particolare verso Italia, Grecia e Malta. L’alternativa che esiste ma ha un prezzo (economico, ma anche morale) elevatissimo è la via della “fortezza Europa”: costruire muri lungo tutti i confini esterni, come da decenni, chiunque – repubblicano o democratico – fosse il presidente, hanno provato a fare gli Stati Uniti sul confine con il Messico.

Questo significa che il problema del controllo dei flussi migratori è irrisolvibile? Probabilmente sì, con le regole attuali. Non a caso nessuna forza politica ha un piano che sia al tempo stesso realistico e compatibile con il diritto vigente a livello nazionale, europeo, internazionale.

Così stando le cose, le strade aperte sono solo due. Proclamare, come fa la sinistra, che il problema non esiste, che abbiamo bisogno dei migranti, e che le frontiere aperte, il melting pot fra popolazioni europee ed extra-europee, non sono un problema ma, semmai, un’occasione di arricchimento della nostra civiltà. Oppure prendere atto, come una parte della destra sta provando a fare, che se vogliamo essere noi a decidere chi può entrare in Europa (dottrina von der Leyen), non possiamo non rendere molto più severe le regole che ci siamo dati fin qui. Regole che ci inorgogliscono per la nostra apertura, il nostro garantismo, la nostra umanità, ma – inevitabilmente – ci sottraggono il diritto di decidere chi può entrare in Europa e chi no. Perché sono le nostre regole, non certo le Ong, il vero pull-factor che – nonostante pericoli e difficoltà – rende così attrattivo il viaggio verso l’Europa.

L’Occidente e il deficit di cultura liberale – Una risposta a Marcello Veneziani

23 Ottobre 2023 - di Dino Cofrancesco

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I. Su ‘La Verità’ del 13 ottobre u.s., Marcello Veneziani ha scritto un lungo articolo, in realtà, un vero e proprio saggio storico-filosofico, sull’Occidente peggiore nemico di se stesso. In esso manifesta tutto il disagio di chi, come lui, da un lato, “ama la civiltà da cui proveniamo” e dall’altro  “detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento”. Il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, “l’assenza di valori salvo i codici woke, black o politicamente corretti” a suo avviso non sono  valori  per cui vale la pena ancora battersi. L’Occidente “che rinnega la sua civiltà, la sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane” è un’idea da accantonare. L’occidentalista – di cui  abbiamo tanti esempi sui grandi giornali, soprattutto tra gli scienziati politici divenuti quasi tutti predicatori delle crociate ‘antifasciste’(!) – alla fine difende “solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia”.

E’ un discorso che non può non far presa su un liberale ‘ottocentesco’, come lo scrivente, per il quale la ‘comunità politica’(ieri lo stato nazionale, domani chissà cosa) non è la nemica dei diritti civili e politici, né della logica del mercato ma costituisce il sostrato terreno che sostiene gli uni e l’altra sicché il suo dissolvimento nell’embrassons nous universalista non rappresenta un progresso ma il temuto trionfo del nichilismo. Condivido anche quanto dice Veneziani in polemica con chi “risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale” Per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, avverte Veneziani, non ci sono soluzioni semplici e unilaterali al grande conflitto planetario esploso dopo l’invasione russa dello stato ucraino (sovrano e multinazionale) ieri e alimentato a dismisura oggi dall’attentato terroristico di Hamas. Personalmente ritengo che i tagliagole islamici si sono abbandonati a tali atti di crudeltà da far impallidire gli stessi guardiani nazisti dei Lager che incolonnavano uomini, donne, bambini verso i forni crematori ma non infierivano sui loro corpi, non decapitavano bambini, non si esaltavano nel versare il loro sangue. E un discorso analogo va fatto per il comunista Pol Pot che erigeva piramidi di teschi ma si asteneva (sembra) dall’uccidere i bambini. Se fossi un dirigente israeliano non avrei alcuna difficoltà ad applicare ai responsabili dei massacri nel kibbutz Be’eri  la Legge Eichmann, perseguitandoli in ogni angolo del mondo, per poi impiccarli e disperderne le ceneri nel Mediterraneo. Detto questo, però, sono d’accordo anch’io con le conclusioni dell’articolo: “sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati”.

C’è però un punto – cruciale – in cui mi sento di prendere le distanze da Veneziani. Le società occidentali, a suo avviso, ormai condizionate dall’individualismo, dal benessere, dal mercato non hanno altri valori. Posso essere anche d’accordo a patto di aggiungere che, però, hanno una risorsa che manca nel resto del mondo: la libertà di parola, il diritto al dissenso e a far mancare la propria cooperazione al potere. Abbiamo milioni di difetti noi euro-occidentali ma  la libertà di dire nonon ce la toglie nessuno, nonostante  i duri colpi che a tale libertà danno il politicamente corretto e una political cultureche, in Italia ad esempio, in nome dell’antifascismo, dell’antisovranismo, dell’antipopulismo cerca vanamente di mettere a tacere ogni voce fuori dal coro. Se dovessi fare un’ipotesi sulle ragioni di tale risorsa, non le troverei nella dimensione culturale – sovrastrutturale, avrebbe detto il vecchio Marx – ma in quella sociopolitica. Siamo privilegiati del destino giacché, nella nostra parte di mondo, i vari poteri che cementano la coesione sociale – quello spirituale, quello politico, quello economico: oratores, bellatores, laboratores – non sono stati mai monopolizzati da nessuna autorità superiore. E i regimi totalitari (ma anche autoritari) che hanno tentato di farlo sono finiti sempre male. E’ questa base storica oggettivamente ‘ingovernabile’ la garante delle nostre libertà non le retoriche partorite nelle menti degli intellettuali, oggi sedicenti tutti liberali. Questo è vero, soprattutto, del nostro paese in cui l’identità politica è sempre stata un’identità polemica e l’ “altro” è una figura che non si può certo eliminare – la Costituzione sta lì a salvaguardia di tutte le parti in conflitto – ma si può sempre delegittimare moralmente e culturalmente.

II. L’ideale di tanti politici e intellettuali, da noi,  è quello di monopolizzare la legittimità politica, lasciando fuori dalla sua area gli attori, per varie ragioni, poco rispettabili. Sennonché, fino a quando si può votare liberamente le divisioni sociali ‘strutturali’ non consentiranno mai tale appropriazione indebita. Negli anni in cui, in seguito a Mani pulite, la sinistra sembrava ormai venire incontro alle aspettative del paese e pronta a insediarsi nei palazzi del potere chissà per quanti anni, la gioiosa macchina di guerra di Achille Occhetto venne fatta a pezzi da una maggioranza silenziosa che aveva interessi e valori da tutelare molto diversi da quelli che parevano ormai prevalenti e vincenti. L’esempio più emblematico dell’impossibilità di una parte della classe politica di identificarsi con le istituzioni, mettendo alla porta tutti i concorrenti, è la costituzione del PD nel 2007. Conosco non pochi esponenti del PD degni di stima e per i quali  sarei tentato di votare, se li avessi nel mio collegio elettorale ma tale considerazione non m’impedisce di  metterne in luce il fondo inconsapevolmente ‘totalitario’ se non ‘integralistico’ in una delle due accezioni del termine, riferita a “ogni concezione che, in campo politico (ma anche sociale, economico, culturale), tenda a promuovere un sistema unitario, ad abolire cioè una pluralità di ideologie e di programmi, sia appianando contrasti e divergenze tra gruppi contrapposti e conciliando tendenze ideologiche diverse”. Esponendo nelle sezioni di partito i ritratti di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi i fondatori del PD, in sostanza, si ponevano come asse portante del sistema politico dal momento che nel comune contenitore ideologico (assolutamente inedito nella storia della democrazia in Europa) confluivano le due ‘scuole di pensiero, la cattolica e la comunista, divenute, nel secondo dopoguerra. le aziende più importanti – a livello sindacale, sociale, culturale – del mercato politico nazionale. Saltavano così le linee divisorie garanti di quella dialettica politica che, nelle democrazie a norma, prevede una maggioranza di governo e una minoranza di opposizione, nonché l’alternanza di ruolo in seguito al responso delle urne. Le forze che si coagulavano attorno al PCI e alla DC, espressione dei diversi interessi e valori in competizione nelle società aperte, univano le proprie risorse ma senza poter rispondere alla domanda: chi sarebbe rimasto fuori da questa union sacrée e come considerarlo? Se il meglio delle tradizioni politiche nazionali si era fuso nel PD, quale legittimità poteva ancora rivendicare una forza di opposizione? Riappariva un vecchio costume di casa, quello di declassare gli avversari nella lotta per il potere a nemici del bonum commune e delle istituzioni, naturalmente, per il PD, quelle nate dalla Resistenza e dalla lotta antifascista.

Sennonché le masse non hanno premiato quanti proclamavano che la salus rei publicae suprema lex esto e di quella salus se ne facevano custodi e medici, sicché nell’impossibilità di disarmarli di nuovo con un ‘governo di tecnici’ si è tentati di seppellirli sotto la solita valanga di accuse—fascismo, sovranismo, populismo, nazionalismo, antieuropeismo etc. Col risultato di far dimenticare le reali pecche dell’esecutivo di centro-destra e le proposte di leggi sbagliate o abortite.

III. Dovrebbe essere chiaro il senso di questa digressione, sine ira ac studio, sul PD. E’ il ‘costume’ politico che m’interessa non le battaglie che non finiscono mai tra una sinistra (che si crede votata dalle persone per bene) e una destra (per definizione poco raccomandabile). Ciò che intendo ribadire è molto semplice: almeno in Italia, per la salvaguardia del bene più prezioso per un liberale, la libertà – di parola, di associazione, di critica etc. – non c’è da fare alcun affidamento sulla political culture, insegnata nelle Università, propagata dai mass media. Il liberalismo alla Isaiah Berlin, alla Raymond Aron ma anche alla Benedetto Croce è un’esile pianticella esposta alle tempeste di una lotta politica, de facto, senza regole. A garantire le nostre libertà sono le nostre divisioni storiche, il fatto che la società civile è da sempre dilacerata, sicché a nessuna parte è consentito di unificarne, sotto il suo controllo, tutte le risorse, ideali e materiali. Non è quanto passa nelle menti dei filosofi politici, degli scienziati politici, degli storici ’impegnati’ a rassicurarmi sulla tenuta delle nostre libertà. Ormai si dicono tutti ‘liberali’ anche quanti scrivono sul ‘Domani’ o sul ‘Manifesto’—“quotidiano comunista” ma de facto sono i guerrieri nascosti nel cavallo di Troia (forse inconsapevolmente) per mettere a sacco e  a fuoco la ‘società aperta’.

E’ l’anarchia–nel senso della mancanza di un’autorità spirituale e temporale suprema– che ci protegge: le nostre libertà nascono negli interstizi di corposi interessi materiali in insanabile con-trasto e di ideali – legati al passato o proiettati nel futuro – che non intendono lasciarsi assorbire.
Tutto questo, agli occhi di un tradizionalista come Veneziani, può essere desolante: significa, infatti, che non ci sono ‘valori comuni’ a tenerci uniti – il tentativo di crearne fatto dal fascismo finì nelle leggi razziali, nell’alleanza con Hitler, nella catastrofe bellica – ma ci sono crepe antiche che ci consentono di raggiungere una barricata se in un’altra ci sentiamo poco protetti.

Quanto può durare tutto questo? E’ difficile dirlo. In ogni caso, non resta che rassegnarci, pensando al privilegio che nessuno ci ha ancora tolto e su cui non poteva contare Trilussa, sotto il regime fascista, quando scriveva nel sonetto All’ombra (riportato poi nel monumento a Trastevere a lui eretto del 1954): Mentre me leggo er solito giornale/ spaparacchiato all’ ombra d’un pajaro/ vedo un porco e jè dico: Addio maiale./ vedo un ciuccio è je dico: Addio somaro./ Forse ste bestie nun me capiranno /ma provo armeno la soddisfazione de potè di le cose come stanno/ senza paura de finì in prigione”. Oggi non finiamo in prigione neppure se critichiamo (lo fanno pochissimi) il Presidente della Repubblica per le sue omelie antifasciste fuori stagione. Indubbiamente, il con-flitto tra potentati non protegge il dissenziente da sanzioni indirette, talora pesanti, comminate dall’establishment. A un Roberto Vivarelli che avesse scritto l’esemplare, civilissimo, saggio  La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Ed. Il Mulino 2000) nessuno avrebbe garantito il più che meritato cursus honorum accademico  .

Tanti anni fa l’allora direttore de ‘La Stampa’, il compianto Arrigo Levi, a Domenico Settembrini, autore di un articolo in cui si criticava Palmiro Togliatti, faceva notare. ”Caro Professore si rende conto delle migliaia di operai comunisti che lavorano per la Fiat e del fatto che un giornale della Fiat non può pubblicare  una critica così dura del leader del PCI?”. C’erano, però, altri quotidiani che avrebbero ospitato (e ospitarono) gli articoli di Settembrini giacché la libertà di stampa nel nostro paese non è mai venuta meno. E’ vero, erano quotidiani meno letti de ‘La Stampa’ sennonché bisogna prendere atto che, in Italia, il pubblico di lettori moderati o conservatori è molto meno numeroso di quello della sinistra – basta entrare in una Libreria Feltrinelli per rendersene conto. Delle ‘due culture’ nazionali quella progressista recluta più proseliti di quella liberal-conservatrice ma la colpa non è sicuramente della mancanza di libertà. Liberi son tutti e se le risorse a disposizione sono ineguali dipende anche dall’ incapacità a reperirle – o forse meglio  dalla  sottovalutazione del momento culturale come fabbrica del consenso. In fondo la woke culture da noi non infierisce come negli Stati Uniti. E nessuno può neppure immaginare di mettere il bavaglio a Marcello Veneziani.

[Intervento uscito sul blog del ‘Corriere della Sera’ La nostra storia, di Dino Messina]

 

Consumismo, rivendicazione di diritti individuali e violenza contro le donne

20 Ottobre 2023 - di Silvia Bonino

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Luca Ricolfi nel suo articolo A proposito di stupri. Il lato oscuro della civiltà, del 3 settembre scorso, ha fatto chiarezza sui dati statistici italiani ed europei relativi agli stupri e alle uccisioni di donne, compresi i femminicidi “di possesso”, in cui l’uomo non accetta di perdere quella che considera la “sua” donna. In questo come in altri casi, il confronto con i dati obiettivi consente di fare luce su un fenomeno, mettendo in discussione le interpretazioni stereotipate, individuali e collettive, che vanno per la maggiore.

A conclusione del suo intervento, l’autore si chiede: non sarà che il nostro modello di civiltà, basato sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali, contenga in sé un difetto di fabbricazione, una sorta di vizio nascosto? Cerco qui di rispondere alla sua domanda, che a mio parere va al cuore della questione. Lo faccio riferendomi all’analisi del rapporto tra influenze culturali e disposizioni biologiche, relativamente alle relazioni tra uomini e donne, che ho approfondito nel mio libro Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (Laterza, 2019).

Riguardo alle disposizioni biologiche, occorre in primo luogo prendere atto dell’esistenza di una tendenza filogeneticamente primitiva, radicata nella parte più arcaica dl cervello umano, che collega sessualità e aggressione nei maschi, così come sessualità e paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. Ci sono fortissime resistenze nel prendere consapevolezza dell’esistenza di queste disposizioni, e in particolare della disposizione maschile primitiva, principalmente per due ragioni: una di carattere generale, poiché si ritiene che tutto sia solo culturale (“dipende tutto soltanto dal modello patriarcale”), e una specifica, poiché vi è il timore che riconoscere l’esistenza di disposizioni biologiche significhi legittimare come inevitabile la violenza sulle donne (“la natura dei maschi è necessariamente violenta, non si può fare nulla, bisogna rassegnarsi”). Non è così, perché stiamo parlando di disposizioni filogeneticamente arcaiche e preumane, risalenti ai primi vertebrati (i rettili), quindi non specifiche della sessualità umana. Quest’ultima, al contrario, ha congiunto lungo la filogenesi il sesso ai legami e non alla violenza: nessuna necessità biologica costringe gli uomini alla sopraffazione, che è del tutto disadattiva e genera solo sofferenza individuale e sociale. Nella complessità dell’architettura e del funzionamento del cervello, da cui la mente emerge, queste disposizioni sono però ancora presenti come possibilità, non certo come necessità, e negarle costituisce un pessimo meccanismo di difesa, che non aiuta a evitare che tali disposizioni si manifestino e si traducano in azioni violente. Finché non si prende atto – come uomini e anche come donne – dell’esistenza di questa possibilità ancora presente nel cervello maschile non si farà mai nessun passo in avanti nel superamento dei rapporti di dominanza e sopraffazione delle donne, che non si concretizzano unicamente nello stupro.

Ma la presa d’atto non è che il primo passo, necessario ma non sufficiente, dal momento che siamo “animali culturali”, in cui la cultura – con l’educazione, i modelli, i simboli, gli stimoli, ecc. – interagisce continuamente con le nostre disposizioni biologiche. Si tratta quindi di chiedersi come la cultura può favorire l’emergere delle disposizioni primitive a scapito di quelle più evolute, specificamente umane, che congiungono la sessualità ai legami personali e danno luogo a rapporti egualitari, gli unici capaci di procurare benessere.

Veniamo allora alla domanda se non sia il nostro modello di civiltà, basato “sull’espansione illimitata dei consumi e dei diritti individuali”, a favorire e stimolare le disposizioni maschili più arcaiche. Dall’analisi dei processi psicologici implicati nei modelli individualisti e consumistici in cui siamo immersi ormai da decenni, la risposta è affermativa (ho esaminato in specifico questi aspetti nel capitolo 3 del libro citato).

Partiamo dal consumismo e dall’educazione consumistica che ne è derivata. Quest’ultima rappresenta la massima concretizzazione dell’educazione permissiva, che prevede il soddisfacimento di ogni richiesta infantile. Già era noto da tempo, perché confermato da tutti gli studi in proposito, che l’educazione permissiva conduce, assai più di quella autoritaria, a un aumento generalizzato del comportamento aggressivo e al mancato sviluppo del comportamento prosociale (Mestre et  Al., 2006) Con l’affermarsi del consumismo, non solo ogni desiderio infantile viene assecondato, ma le richieste sono crescenti, spinte dalla pubblicità e dal confronto conformistico con i coetanei; quest’ultimo diventa particolarmente pressante in adolescenza, per l’importanza che il gruppo dei pari acquisisce a quest’età. Inoltre, queste richieste sono soddisfatte grazie al denaro, che assume così un grandissimo valore come strumento per ottenere tutto ciò che si vuole.

I bambini educati in questi ultimi decenni secondo modalità permissive e consumistiche sono quindi cresciuti nell’abitudine a veder soddisfatto ogni desiderio di possedere qualcosa; di fatto non si tratta nemmeno di un vero desiderio, che richiederebbe ben altra consapevolezza, ma di un impulso, una voglia, un capriccio momentaneo. L’immediato passaggio da questo al possesso ha impedito lo sviluppo di tutte quelle capacità che consentono di raggiungere nel tempo un obiettivo significativo e appagante. Si tratta di capacità tra loro collegate che vengono distinte solo per comodità di analisi: cognitive (immaginazione, creatività, progettazione di uno o più percorsi, aggiramento, valutazione, ecc.), emotive (saper rimandare, avere pazienza, perseverare, gestire la paura e l’ansia, scegliere, riconoscere i limiti, ecc.), sociali (empatia, sapersi mettere dal punto di vista altrui, tenere conto dei desideri altrui, saper coinvolgere gli altri, saper cooperare per uno scopo comune, ecc.).  È stata al contrario favorita l’impulsività, con un appiattimento sul presente (voler ottenere tutto subito) e su di sé (conta solo il proprio desiderio). In modo ancora più profondo, questo tipo di educazione non sviluppa la sicurezza e la fiducia nelle proprie capacità di essere in grado di raggiungere un obiettivo e di superare gli eventuali ostacoli o insuccessi: sono aspetti basilari che si possono sviluppare solo facendo esperienza, lungo l’età evolutiva, di situazioni in cui il proprio desiderio non è immediatamente soddisfatto e il denaro non serve per raggiungere lo scopo.

Tutto questo ha effetti rovinosi sul piano relazionale, con un incremento dei comportamenti aggressivi. Un bambino diventato adolescente e adulto con questo modello educativo risulta incapace di rimandare la soddisfazione del suo desiderio sessuale, e quindi di tenere conto della volontà dell’altra persona, così come di tollerarne il rifiuto, che non sa come affrontare. Abituato a ottenere tutto ciò che desidera, ritiene di poter avere anche il corpo di chi desidera.  Viene quindi favorita l’imposizione sessuale con la violenza.

Anche a livello affettivo l’educazione permissiva consumistica ha provocato una diffusa incapacità a costruire relazioni sentimentali, poiché non ha permesso lo sviluppo delle competenze necessarie per coinvolgere l’altro. Poiché ci si aspetta che il proprio desiderio venga sempre soddisfatto, e ci si illude che sia possibile possedere l’affetto di un’altra persona, così come si posseggono le cose, i fallimenti e le frustrazioni sono inevitabili.  Infatti l’affetto non si può imporre e nemmeno comprare – come invece si può fare con il sesso – ma soltanto condividere e costruire insieme, cosa che non si è in grado di fare per mancanza delle indispensabili capacità relazionali. Di conseguenza, diventati adolescenti e adulti, i bambini cresciuti secondo il modello educativo consumistico sono del tutto incapaci di tollerare il rifiuto affettivo o l’abbandono, situazioni che appaiono allo stesso tempo inconcepibili (“come si permette di sfuggire al mio possesso?”) e insuperabili (“non posso fare niente”). La violenza rappresenta la reazione più facile a un tale profondo vissuto di frustrazione.

La soddisfazione illimitata dei propri desideri, caratteristica del modello consumistico, ha avuto un’altra importante conseguenza: essa ha favorito la trasformazione di ogni desiderio in diritto, reclamato non solo a livello individuale ma anche collettivo. Sul piano psicologico, questa trasformazione ha due grandi vantaggi: anzi tutto, essa converte una richiesta soggettiva ed egocentrica – e come tale censurabile – in qualcosa di oggettivo ed eticamente fondato; di conseguenza, essa permette di condannare chi avanza critiche come un illiberale che non rispetta i diritti altrui. Il risultato è una crescente enfasi sui diritti individuali, caratteristica delle società occidentali “avanzate”.

Questa centratura sui diritti individuali – espressione in realtà di desideri personali – è andata di pari passo con la disattenzione alle corrispondenti esigenze altrui, fino a dimenticare che la rivendicazione di un diritto comporta il riconoscimento speculare dell’analogo diritto degli altri, da cui derivano necessariamente dei limiti all’affermazione del proprio. Infatti, l’enfasi sui diritti ha avuto l’effetto retroattivo di favorire l’egocentrismo, poiché ha legittimato la pretesa di vedere soddisfatto ogni desiderio, senza tenere conto degli altri e dei limiti che da essi provengono. Si è così creato un circolo vizioso di progressiva chiusura egocentrica e di aumento della conflittualità relazionale, che sfocia facilmente in comportamenti aggressivi.

Per tornare dal punto da cui è partita questa analisi – l’interazione tra fattori biologici e culturali – dobbiamo essere consapevoli che la cultura consumistica in cui siamo immersi non sta favorendo lo sviluppo delle potenzialità di socialità positiva che sono caratteristiche della nostra specie (Bonino, 2012). Al contrario, l’espansione illimitata dei consumi e dei diritti che la caratterizza, sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti sia nella vita degli adulti, favorisce l’emergere delle disposizioni aggressive più arcaiche ancora presenti in noi, in particolare nel cervello maschile. Ne deriva che il superamento della diffusa sopraffazione e violenza sulle donne è possibile solo modificando in profondità i modelli educativi e culturali in cui siamo immersi: piccoli aggiustamenti non sono sufficienti. Di certo le disposizioni di socialità positiva di cui siamo biologicamente dotati come specie umana rendono possibile questo superamento e inducono alla speranza; occorre però una cultura e un’educazione che ne favoriscano l’attuazione.

 

Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva. Roma: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza: Roma.

Mestre V., Tur A.M., Samper P., Nàcher M. J., Cortés M. T., Stili educativi e condotta prosociale. In: Caprara G. V., Bonino S. (2006). Il comportamento prosociale. Erickson: Trento, pp. 135-156.

Salvate il soldato Elena – Israele e la guerra delle parole

18 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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C’è una seconda guerra, che scorre parallela a quella vera fra Israele e Hamas. È la guerra delle parole fra le fazioni politiche che se le dànno di santa ragione nei talk show, nei programmi radiofonici, sui social, sui quotidiani grandi e piccoli. E’ una guerra che, come la guerra vera, fa ampio uso di armi improprie, talora di armi proibite, o scorrette, o immorali.

Non possiamo fare quasi nulla per fermare la guerra vera, ma forse quel poco,  pochissimo, che possiamo fare è di rinunciare alle armi improprie, innanzitutto nel mondo dell’informazione.

Quali sono le armi improprie?

Io ne vedo essenzialmente due. La prima è nascondere, dissimulare o manipolare i fatti quando appaiono sfavorevoli alla causa che si intende difendere. Non si può, perché si solidarizza con Israele, sorvolare – come molti grandi media hanno fatto nei giorni scorsi – sui bambini morti a Gaza a causa dell’intervento militare. Si può benissimo ritenere che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, che non abbia alternative, e che i morti civili – come in tutte le guerre – siano effetti collaterali inevitabili (la storia del Novecento è piena di esempi). Questo però non autorizza a non raccontare il dramma di Gaza per quel che è. Fino in fondo. Con la dovuta spietatezza, come da quasi due anni si fa ogni volta che un villaggio ucraino viene devastato dalle bombe di Putin. Il problema, semmai, è che – nella quasi totale assenza di giornalisti sul campo – il dovere di raccontare si scontra con il fatto che le fonti sono inquinate dalla propaganda. Il giornalista scrupoloso è sempre di meno un testimone, e sempre più un decodificatore di informazioni che non è in grado di verificare.

La seconda arma impropria è la criminalizzazione del dissenso, che di solito assume una di queste tre forme: togliere o ostacolare la parola (interruzioni), offendere l’interlocutore, usare la tecnica dello straw man (fraintendere volutamente l’opinione altrui). Anche qui c’è un salto logico: si pensa che, se una opinione ci appare del tutto inaccettabile, sia nostro diritto (o addirittura dovere) zittire, denigrare, deformare.

Ne abbiamo avuto un perfetto esempio qualche giorno fa a Otto e mezzo, dove la dottoressa Elena Basile, diplomatica in pensione, è stata sottoposta al trattamento completo. Aveva espresso una opinione, paradossale e discutibile quanto si vuole, ma più che legittima, ossia che il fatto che gli ostaggi americani fossero pochi era una brutta notizia perché riduceva l’incentivo degli Stati Uniti a esercitare un ruolo di moderazione. A quel punto sono cominciate le interruzioni e la lapidazione in diretta della malcapitata, più volte interrotta, invitata a vergognarsi, e del tutto fraintesa, come se avesse auspicato più ostaggi americani, anziché esporre un ragionamento politico sul possibile ruolo di mediazione degli Stati Uniti. E il processo è continuato sulla carta stampata e su internet, dove la Basile è stata dipinta come “algida”, “macchietta”, “mitomane”, “frustrata”, “usurpatrice di titoli” (perché nel programma è stata presentata come “ambasciatrice”), per lo più rinunciando a qualsiasi tentativo di smontarne razionalmente le argomentazioni.

E dire che di argomenti ve ne sarebbero stati, e ve ne sono. Le si sarebbe potuto dire, ad esempio, che è vero, la vita dei bambini ha il medesimo valore a Gaza e in Israele, ma nessun israeliano ucciderebbe mai un bambino in quanto palestinese, mentre i miliziani di Hamas i bambini israeliani li hanno uccisi in quanto israeliani. Le si sarebbe potuto ricordare la differenza capitale fra le regole di ingaggio dei soldati israeliani, e quelle dei terroristi di Hamas, per cui gli obiettivi civili – se israeliani – sono perfettamente legittimi.  Le si sarebbe potuto chiedere se si sentiva di appoggiare le manifestazioni studentesche pro-Palestima anche quando non pronunciano una sola parola di condanna per gli eccidi di civili israeliani, né manifestano il minimo moto di pietà per le vittime di tali eccidi.

Invece no. Alcuni difensori dell’ortodossia pro-Israele preferiscono impedire ai dissenzienti di esprimersi. Come se non avessero contro-argomenti, o non credessero abbastanza nelle proprie buone ragioni. È uno spettacolo triste: perché gli ospiti eterodossi si possono anche non invitare, ma – una volta che sono stati invitati – devono poter dire quello che pensano, senza subire linciaggi e processi sommari. La tanto invocata democrazia è anche questo.

L’incertezza del diritto

13 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

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È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.

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