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Società

Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

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A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

CRITERI NECESSARI PER ASSICURARE ALLE DISCUSSIONI, AI DIBATTITI, AI TALK SHOW, UN ESITO UTILE E POSITIVO

28 Novembre 2023 - di Alfredo Ambrosetti

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Quando ho avuto la fortuna di vedermi assegnata la Borsa di Studio “Giacinto Motta”, forse la più importante che veniva data in Italia, avevo solo 27 anni ed ero già laureato in Economia. Grazie alla Borsa di Studio ebbi l’opportunità di passare più di un anno negli USA, in un Università prestigiosa.

La motivazione della Borsa di Studio fu la seguente:

“Lei fatto uscire dalla porta rientra dalla finestra. Non si arrende mai. E questa è una dote straordinaria per la sua vita.”

Grazie alla Borsa di Studio arrivai alla Syracuse University, collocata a nord nello Stato di New York, vicino alle Cascate del Niagara. L’Università di Syracuse aveva 17.000 studenti provenienti da 58 nazioni. Fu per me una sorta di “Globalizzazione delle relazioni” a livello mondiale. Infatti, da quel momento mia moglie ed io, nella gran parte dei Paesi dove andavamo, al nostro arrivo c’era un mio compagno o compagna di Università ad attenderci, che ci assicurava, nei giorni disponibili, di vedere e conoscere quanto di importante e bello c’era nel loro Paese.

All’inizio dei corsi universitari, mi dovetti confrontare con criteri di insegnamento nuovi e molto efficaci. Uno di questi criteri consisteva nella selezione casuale di 8/10 studenti, fatti sedere ciascuno intorno ad un tavolo. Il Professore, in piedi, assegnava il tema da discutere, per accertare la propensione o meno di ciascuno di voler imporre le proprie idee oppure di contribuire ad una migliore conoscenza di tutti, compreso me stesso. Il Professore, ripeto, era in piedi con funzione di giudice e si limitava a valutare il comportamento di ciascuno. Se vedeva qualcuno che non cambiava mai le proprie opinioni e voleva imporre le proprie idee agli altri, lo invitava ad alzarsi ed uscire dalla discussione, perché non solo era inutile ma anche dannoso, dal momento che ogni dibattito aveva un tempo limite di durata e chi non contribuiva positivamente, era dannoso. Commentava la sua decisione (e questo mi è rimasto in testa come insegnamento di vita) dicendo:

“SE TU NON HAI DUBBI SU QUELLO CHE PENSI, SU QUELLO CHE CONOSCI, SE IL TUO COMPORTAMENTO È IMPORRE LA TUA OPINIONE AGLI ALTRI,NON HAI SPERANZA DI PROGREDIRE“.

La discussione proseguì e arrivò il momento dell’espulsione di un altro studente: “Tu ti comporti in modo molto rigido e in sostanza non dai alcun aiuto agli altri, né a te stesso. Ti faccio uscire perché la tua rigidità è così forte da essere paragonabile ad un treno costretto a viaggiare solo su un lungo rettilineo.” La definizione che faceva il professore dello studente era: “you have a one track mind = tu hai una mente molto rigida”. Finché un treno viaggia su un rettilineo ce la fa, quando invece arrivano le curve inevitabilmente deraglia. Questa è la realtà della vita di ogni essere umano.

Dopo la discussione, scaduto il tempo, il Professore dava la sua sentenza: “Le discussioni caratterizzate da uno contro l’altro non producono alcun beneficio a nessuno. Le discussioni che producono benefici sono quelle in cui si discute, si dibatte per imparare e nel contempo essere d’aiuto agli altri per migliorare la loro conoscenza”.

Chiunque potrà obiettare ma questa è logica elementare, di una banalità estrema! Eppure, quasi sempre non è messa in pratica!!!

Con il passare degli anni ho mantenuto i rapporti sul tema delle discussioni costruttive e ogni professore di turno mi diceva: “Per avere la speranza di diventare costruttiva, deve essere utile ai fini di una diffusione di cultura positiva per il Paese, per sé stessi e per gli altri.

Il primo requisito che bisogna rispettare è che il conduttore di qualsiasi dibattito o talk show deve avere un obiettivo da raggiungere, un obiettivo positivo.

È facile intuire quale obiettivo un conduttore intende raggiungere, desumendolo dalle persone invitate ad un talk show. Nella maggior parte dei casi diventa chiaro a tutti che le persone ospitate non intendono cambiare la loro opinione, non solo, ma la loro opinione è completamente diversa da quella degli altri e non nascono discussioni costruttive ma solo zuffe.

In molti casi, vengono invitate persone che si sa già cosa diranno prima che parlino e magari sono professori che ritengono di insegnare agli altri “che non vogliono capire” o che sono “troppo ignoranti per capire”.

Non voglio dilungarmi troppo, voglio solo dire che tutto ciò che viene trasmesso dalla televisione nel nostro Paese e viene visto da un enorme numero di telespettatori durante una serata, è spesso esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere. Il Paese, la sua cultura ne soffrono.

Una constatazione a dir poco singolare è che tutto è impostato nel modo che il conduttore di turno è di fatto il Protagonista. Sempre singolare il fatto che essendo Protagonista e trattando in ogni talk show temi diversi, finisce per essere un tuttologo, esperto di qualsiasi tema.

La situazione nella realtà è esattamente contraria di ciò che mi era stato insegnato negli USA:

  • Nei nostri talk show il Conduttore è il Protagonista sin dal primo minuto e gli altri anziché essere persone che possono contribuire ad un risultato positivo per tutti, per il Paese e per ogni italiano, sono di fatto “pedine” che il Conduttore muove a suo piacimento.
  • In sintesi, una realtà opposta. È la cultura italiana, così come il ruolo delle emittenti nell’intero Paese, che rimangono quelle che sono.

Hamas e dintorni, il velo della cecità

27 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

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La morte di una persona cara mette completamente a nudo il nostro essere. Il primo impatto è quello di sentirsi venir meno per l’incredulità: la persona amata -fino a ieri piena di vita -giace afflosciata come una marionetta. E tuttavia, come ha detto il padre di Giulia Cecchettin-‘’Posso capire una malattia, un incidente, ma questo è il modo più inconcepibile. Non te ne fai una ragione’’ Che cosa è dunque ‘inconcepibile’? È il modo della morte, la violenza sanguinaria e la ferocia delle coltellate.

         Questa considerazione evoca in qualche modo le parole di Francesca da Rimini nel suo colloquio con il pellegrino Dante (V canto dell’Inferno)

        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

        prese costui de la bella persona

        che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Francesca sembra soffrire ancora per il modo violento della sua morte più che per le pene dell’Inferno a cui è condannata.

         Questo preambolo per confutare una volta per tutte il parallelismo che viene istituito da parte di intellettuali, artisti, politici, opinionisti(?) tra quanto accaduto il 7 Ottobre scorso per mano di Hamas nei kibbutz  confinanti con la striscia di Gaza e le successive azioni militari israeliane.

         Nessuno mette in dubbio l’atrocità della guerra in sé che -per quanti sforzi vengano fatti da parte dell’esercito di Israele- finisce per coinvolgere anche civili, innocenti e non, ma è pura ipocrisia, frutto di una visione ideologica settaria, non vedere la differenza nei modi della morte.

         Essere uccisi da qualcuno che gioisce, esulta, brinda e fa baldoria con occhi sfavillanti per l’ebbrezza dell’adrenalina nell’infierire sui corpi di neonati, giovani donne e bambine, vecchi e disabili non è la stessa cosa che morire sotto una bomba.

         Mente chi dice il contrario citando la sproporzione nel numero delle vittime e finendo per considerare carnefici le vittime di quegli assassini che hanno negli occhi la goduria dell’onnipotenza di infliggere la morte agli inermi.

         Solo ad Israele si chiede moderazione nella risposta militare. I civili palestinesi, che in molti casi hanno festeggiato il massacro con dolci e pasticcini, non devono subire alcuna conseguenza.

Ma quando gli alleati bombardavano senza tregua Berlino o Dresda c’è stato qualcuno che si è preoccupato dei bambini tedeschi colpiti dalle bombe che -certamente data l’età- non erano responsabili delle atrocità commesse dalle SS e dal regime nazista?

         La guerra-duole ammetterlo- è tremenda ma a volte è necessaria. Lo è stata per abbattere il nazismo, lo è stata per distruggere il Califfato in Siria. In quel caso non abbiamo visto mobilitarsi nessuno per salvare donne e bambini di Daech.

         Ma per essere ancora più chiara mi servirò delle parole dello scrittore Tahar Ben Jelloun.

         ‘’Io, arabo e musulmano di nascita, non riesco a trovare le parole per dire quanto sono inorridito da ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei.La brutalità non ha scuse né giustificazione. Sono inorridito perché le immagini che ho visto mi hanno toccato nel profondo della mia umanità. Credo che possiamo resistere e lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di grande ferocia. La causa palestinese è morta il 7 Ottobre 2023, assassinata da elementi fanatici impantanati in una ideologia islamista della peggior specie. Hamas è il nemico del popolo palestinese. Non è solo nemico del popolo israeliano. Un nemico crudele, senza alcun senso politico, manipolato da un paese dove le giovani donne che si oppongono vengono impiccate per la mancanza di un velo in testa.

         La presa degli ostaggi e la richiesta di riscatto non fa altro che esacerbare la rabbia di tutti noi. Èdifficile credere che questi uomini abbiano fatto questo per ‘liberare’ un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati, non uccidendo civili innocenti. (Questa) è una ferita per tutta l’umanità.

         NO, questa è una lotta che non fa loro onore ..…NO agli applausi in certe capitali arabe (e non solo). Prima o poi sarà la popolazione palestinese a pagare questo pesante conto…….’’ [Le Point, 13 Ottobre 2023]

         Chiaro e forte bisogna dire che un conto è la guerra, un altro è  un pogrom.

Senza considerare che nel caso delle adolescenti e giovani donne, alla violenza sessuale, alla ferocia sanguinaria si è aggiunto il vilipendio dei cadaveri. Sui loro corpi si è urinato e sputato e, dulcis in fundo, son stati mutilati e smembrati ed esibiti come trofeo coram populo.

         Se Hamas, che ha esercitato il suo controllo su Gaza dopo il ritiro degli israeliani nel 2005 e la sconfitta degli avversari politici dell’OLP, avesse avuto a cuore la costruzione dello stato di Palestina,avrebbe usato le ingenti risorse afferite da ogni parte del mondo per costruire l’ossatura di base del futuro stato puntando sull’istruzione e la conoscenza, la produzione di acqua potabile, l’agricoltura avanzata e così via. Viceversa le risorse finanziarie sono state usate, secondo uno schema simil-mafioso di taglieggiamento (vedi analisi di F. Fubini) per accumulare ingenti patrimoni in favore dei capi delle varie fazioni e soprattutto per costruire cunicoli sotterranei sotto Gaza city dove accatastare armi e strumenti di morte con l’obiettivo dichiarato di distruggere gli ebrei e lo stato di Israele.

Il singhiozzo dell’uomo maschio – A proposito di violenza sulle donne

25 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Era il 1983, giusto 40 anni fa, quando Pascal Bruckner pubblicava il suo libro più famoso, Il singhiozzo dell’uomo bianco, in cui descriveva gli impulsi di autoflagellazione della cultura occidentale, già allora in via di autoliquidazione.

Ma oggi siamo ben oltre. Quello cui ci tocca assistere, dopo la orribile, tristissima vicenda di Giulia Cecchettin, è il singhiozzo dell’uomo maschio: il bisogno di tanti maschi di dire che sì, si sentono anche loro responsabili, si vergognano di essere maschi, insomma la responsabilità di quel che è accaduto alla povera Giulia sarebbe anche loro.

La cosa interessante è che questo moto di autodenuncia, che per lo più scopiazza le più ardite (e indimostrate) teorie del movimento woke d’oltre oceano, non tocca minimamente la gente comune, che con difficoltà più o meno grandi, continua a condurre la sua vita ordinaria. Difficile ascoltare un operaio che si sente corresponsabile del femminicidio di Giulia, ma facilissimo leggere le riflessioni di un intellettuale, di uno studioso, di un giornalista, di un politico, che mettono in scena esercizi più o meno sofisticati di autoaccusa e rincrescimento.

Perché questa differenza?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due, del tutto diverse l’una dall’altra. La prima è che chi occupa posizioni di prestigio nella sfera pubblica corre oggi un grandissimo rischio: quello di entrare nel mirino delle attiviste che conducono la crociata conto il maschio, il maschilismo, il cosiddetto patriarcato. Improvvisamente, ci si rende conto che, solo se ci si schiera “dalla parte giusta”, si ha qualche possibilità di salvarsi dalla valanga di accuse dell’attivismo woke, tradizionalmente debole in Italia ma improvvisamente sdoganato dal (sacrosanto) moto di indignazione per la morte di Giulia Cecchettin. Può accadere così che, nella schiera dei maschi pensosi, mi capiti di trovare Ignazio La Russa (quello certo dell’innocenza del figlio, sotto indagine per stupro) che propone una manifestazione bipartisan di soli maschi, ma anche alcuni dei miei giornalisti e intellettuali preferiti. Mattia Feltri, sulla Stampa, per far sentire “tutti noi” corresponsabili di quel che è accaduto a Giulia, scomoda nientemeno che il concetto di “responsabilità collettiva” di Hannah Arendt. Francesco Piccolo, su Repubblica, non esita a stigmatizzare – quasi fossero comportamenti orribili, propedeutici ai peggiori crimini – comunissimi comportamenti della vita quotidiana di maschi e femmine: “urlare sopra, non far parlare, pretendere di parlare per primi, spiegare come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere”. Una mia amica, madre di tre figli, ha commentato divertita: è esattamente quel che faccio io quando sono esasperata con mio figlio adolescente!

Ma c’è anche un’altra ragione per cui il “singhiozzo dell’uomo maschio” ha tanto spazio sui media, ma lascia indifferente la gente comune. Ed è che, nel dibattito pubblico, da tempo hanno trovato un enorme spazio le opinioni astruse, o antiscientifiche, o contrarie al senso comune. Se un’idea strampalata, o semplicemente priva di basi scientifiche, è affermata in nome di una buona causa, i media tendono a presentarla come vera. Nel mondo dell’attivismo woke, ma soprattutto in quello di una parte (solo una parte, per fortuna) dell’attivismo femminista, negli ultimi anni hanno preso piede diverse idee indimostrate. Ad esempio, che la biologia non conti nulla, e tutto dipenda dalla cultura. Che alle radici dell’aggressività maschile vi siano gli stereotipi di genere e la sopravvivenza del patriarcato. Che il linguaggio sia il medium fondamentale della violenza. Che esista una precisa catena causale che dalla battuta sessista conduce alla prevaricazione, alla violenza, allo stupro, quando non al femminicidio. Che sterilizzare il linguaggio sia la via maestra per fermare la violenza. Che l’azione preventiva più efficace sia l’introduzione precoce di corsi di educazione sessuale e sentimentale nelle scuole.

Nessuna di queste credenze è palesemente falsa, ma nessuna è sostenuta da prove scientifiche robuste. Alcune sono, almeno a prima vista, incompatibili con i dati. Quasi tutte sono in contrasto con il senso comune. Il quale senso comune, a differenza degli intellettuali e dei politici, è umile, empirista, e non pretende di imporsi agli altri in nome un’ideologia. Perché di questo si tratta, purtroppo: il modo in cui si parla del dramma di Giulia non ha nulla di scientifico, e tutto della solita pretesa di imporre il proprio punto di vista e di aver ragione dell’avversario politico.

In questo, è paradossale doverlo osservare, molte donne oggi impegnate nella giusta battaglia contro i femminicidi, mostrano un’inquietante somiglianza con i maschi che mettono sotto accusa: forse l’unico segno inequivocabile dell’ubiquità del maschio che è in tutti noi.

Sulla violenza contro le donne, un cambio di prospettiva

24 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

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Vexata quaestio quella della violenza che si manifesta in forme diverse contro donne e bambine in ogni angolo del pianeta, e controversa l’analisi che se ne fa.

         C’è chi semplifica la questione adottando lo schema binario vittima/carnefice. Ma così si rischia di tralasciare proprio quelle zone d’ombra che spiegano la persistenza del fenomeno, una violenza che sembra non cessare mai nonostante le misure prese per contrastarla. Regolarmente, dopo ogni femminicidio, si invoca un intervento delle istituzioni più incisivo ed efficace. Ma non si può certo porre freno alla violenza domestica mettendo un poliziotto in ogni famiglia.

         L’Onu ha istituito il 17 Dicembre 1999 la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 Novembre. Gesto simbolico importante, ma che non sposta di un millimetro la soluzione del problema che presenta tuttora aspetti altamente problematici.

         In mancanza di interventi efficaci si rischia di fare i conti con atti di disperazione che non possono essere additati come esempi da imitare.

         In Francia, per esempio, ha fatto molto discutere il caso di Valerie Bacot. Una giovane donna, violata, picchiata, fatta prostituire dal compagno Daniel Polette, che era stato suo patrigno prima di diventare suo marito, nonché padre dei suoi quattro figli. Dopo 24 anni d’inferno Valerie ha ucciso il marito. Condannata a quattro anni, è uscita di prigione subito dopo la sentenza grazie alla sospensione condizionale della pena. La condanna è risultata del tutto simbolica considerato che si trattava di omicidio premeditato. Il suo gesto è stato considerato come una sorta di legittima difesa, sia pure ritardata. Il caso Bacot non è un caso isolato. Prima di lei c’erano stati quelli di Jacqueline Sauvage e poi quello di Edith Scaravetti, condannata in primo grado a tre anni e in appello a dieci per aver ucciso e murato il marito maltrattatore.

         Ora l’eliminazione fisica del ‘carnefice’ si può certo capire, ma non può essere giustificata. Ben prima di arrivare a un punto di non ritorno bisognerebbe mettere al sicuro la donna e i suoi figli, prendersene cura, rimarginare ferite profonde e ricostruire la sua soggettività. Ma tutto questo non è per niente facile.

         L’accoglienza di donne maltrattate nelle case-rifugio a indirizzo segreto dove possono godere dell’assistenza psicologica, legale, economica è molto utile, ma è uno strumento che ha molti limiti. Il più serio è che si tratta di un intervento comunque limitato nel tempo. Una volta che la donna esce dal circuito di sostegno e torna alla propria casa, nella maggioranza dei casi la violenza del convivente ricomincia senza soluzione di continuità.

         Per sperimentare metodi più efficaci si potrebbe introdurre un nuovo modello, già utilizzato in paesi come Canada e Islanda, e che comincia a farsi strada anche da noi, sia pure a fatica. Si tratterebbe di portare fuori dalla casa in cui si consuma la violenza non la vittima e i suoi figli, ma il maltrattatore. Il partner aggressivo viene preso in carico da strutture apposite nelle quali viene aiutato a prendere coscienza del suo essere violento e dei danni che il suo comportamento produce: non solo nei riguardi della compagna ma anche dei figli che subiscono traumi profondi per le aggressioni e il clima di paura.

         In Italia ci sono già alcune strutture dedicate a maschi violenti che abbiano raggiunto un minimo di consapevolezza del loro comportamento nefasto. A Firenze è in funzione dal 2009 il CAM (Centro di Ascolto uomini Maltrattanti) che successivamente è stato esteso a Ferrara, Roma, Cremona e al Nord Sardegna. A Bassano è sorto il centro Ares con l’obiettivo di avviare adeguati percorsi di cambiamento per uomini che agiscono con violenza all’interno della coppia. Sarebbe interess ante vedere se queste esperienze hanno avuto un impatto locale significativo e cercare di espanderle a livello nazionale.

         L’unica nota positiva in questo contesto così complicato è il dato numerico che riguarda i femminicidi nel nostro paese. Sono ancora troppi ma, contrariamente a quello che la cronaca sembra suggerire, i dati non sono in crescita, semmai ci sono timidi segnali di un numero che si sta lentamente riducendo. È un dato di fatto che in Italia il fenomeno è numericamente molto inferiore rispetto a quasi tutti i paesi europei, in particolare quelli del Nord. A questo proposito qualcuno ha parlato di ‘paradosso nordico’. Paesi come Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, che rispettano molto più degli altri l’eguaglianza di genere, sono anche quelli in cui si registra  il maggior numero di violenze domestiche contro le donne. Portogallo, Italia e Grecia che sono molto indietro per quanto riguarda l’uguaglianza di genere, hanno invece tassi molto più bassi di violenza domestica (Nov. 2017 Social Science and Medicine). La Harvard Political Review sottolinea come questa inattesa discrepanza vada indagata per capire, prevenire e soprattutto cercare di bloccare il fenomeno.

         Quello che è certo è che occorre un cambio di passo, un vero cambio di civiltà. Fin dalla più tenera età bisogna educare bambini e bambine al rispetto reciproco e coltivare la loro autostima. Il giovane adolescente o adulto che sia stato sminuito nel corso della sua infanzia  cercherà con la forza di ricostituire un’immagine di sé ‘forte e virile’ brutalizzando la propria donna per far tornare i conti. A sua volta la giovane adolescente o giovane donna che non ha stima di se stessa, che si considera di poco valore non troverà la forza di fermare la mano di chi la brutalizza scambiando spesso le attenzioni malate per gesti di cura. Alla base del progetto educativo va posto il concetto di inviolabilità del proprio corpo. La centralità di questo concetto metterebbe al riparo non solo dalle violenze fisiche ma anche dalle molestie e dagli abusi di natura sessuale.

 

 

(pubblicato su Free Skipper 25 Novembre 2021 e su Lilìa, giornalino dell Associazione dei pugliesi di Pisa).

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