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Società

Parole in (troppa) libertà – La lezione di Simone Weil

7 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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È giusto, per amore di una buona causa (o di una causa che si ritiene buona), deformare sistematicamente la realtà?

Non è la prima volta che me lo chiedo, ma mai come negli ultimi anni mi è parsa una domanda pertinente. Certo, molto dipende dalle categorie di persone cui ci rivolgiamo. Nei confronti dei politici la domanda è fuori luogo: deformare la realtà per sostenere la propria causa fa parte dei ferri del mestiere. Nessuno, realisticamente, si sognerebbe di pretendere che un politico rinunci a quei ferri, tutt’al più si auspica che non ne abusi.

All’estremo opposto della scala si situano gli scienziati: da loro si esige che non deformino la realtà, perché è precisamente quello il loro mestiere: se l’ingegnere deforma la realtà il ponte crolla, ma se a deformare è il sociologo o lo psicologo? Qui le cose cominciano a complicarsi, perché non ci sono ponti che crollano, o computer che non funzionano, ma solo discussioni infinite fra addetti ai lavori, nessuno dei quali è abbastanza autorevole da squalificare chi deforma sistematicamente la realtà. E purtroppo molti cosiddetti scienziati sociali non si accontentano di studiare (e spiegare) come la realtà funziona, ma sono inclini a ritoccarne più o meno pesantemente la rappresentazione, nella presunzione che così facendo possano facilitare la causa in cui credono. Tipico esempio: gonfiare le cifre dei mali che si vogliono combattere, nella speranza di “sensibilizzare” pubblico e istituzioni (e magari attrarre finanziamenti).

Il caso più imbarazzante, però, è quello del mondo dell’informazione. Qui la pretesa di parlare della realtà (tipica degli studiosi) troppo spesso si combina con la più o meno dichiarata fede in una causa, una visione del mondo, una missione (come è tipico dei politici e dei predicatori). Così è sempre stato, ma non ricordo un periodo in cui questa attitudine – parlare della realtà deformandola a sostegno di una causa (spesso nobile) – sia stata pervasiva come in questi tempi. Oggi si ascoltano quasi soltanto discorsi enfatici e schierati, in cui non solo è assente qualsiasi dubbio, non solo si stabiliscono nessi di causa-effetto arbitrari, ma la stessa descrizione dei fatti è guidata dall’ideologia, o più genericamente dall’obiettivo, di rafforzare una causa che si ritiene sacrosanta.

Obnubilati dalle nostre passioni politiche, non siamo nemmeno più capaci di usare le parole appropriate per descrivere le cose. Il segno forse più inequivocabile di questa degradazione delle nostre capacità linguistiche è l’abuso dell’iperbole. Che certo talora è relativamente innocuo, come nell’impiego dell’espressione “senza precedenti” per qualsiasi cosa che sembri un po’ nuova, o dell’aggettivo “esponenziale” per dire che un fenomeno cresce rapidamente (mentre in matematica significa tutt’altro). Ma in altri casi l’abuso delle parole è un grave attentato alla verità, che ci impedisce di dare una descrizione fedele della realtà, presupposto indispensabile per cambiarla.

L’esempio più clamoroso (e attuale) di questo intorbidamento della lingua è l’uso del sostantivo ‘genocidio’ per descrivere i crimini di guerra di Israele. Basta leggere attentamente e per intero la definizione ONU del 1948 per accorgersi che, nel caso della guerra a Gaza, mancano i presupposti. La definizione ONU, infatti, richiede che siano presenti due elementi, entrambi indispensabili per integrare il crimine di genocidio: un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e la volontà di distruggerlo “in quanto tale”. Nel caso della guerra in corso a Gaza i due elementi sussistono ma in forma scissa, ossia con due diversi referenti. Israele ha sì l’intenzione di distruggere in toto Hamas, ma Hamas non è un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. I Palestinesi, d’altro canto, sono effettivamente un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, ma verso di esso manca “l’intenzione di distruggerlo in quanto tale”.

Ma ci sono anche altri abusi linguistici. Ad esempio l’impiego di termini come patriarcato (anche quando c’è solo maschilismo), mattanza (per il fenomeno dei femminicidi), o deportazione (per le espulsioni di stranieri autori di crimini, o presenti illegalmente in un paese).

In tutti questi casi lo scopo è chiaro: enfatizzare, drammatizzare, amplificare un fenomeno che consideriamo negativo, senza alcuna preoccupazione di analizzarlo, descriverlo, comprenderne la genesi. Eppure, dovremmo aver imparato la lezione di Simone Weil, che ammoniva: “là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”.

E dove c’è un grave errore di pensiero si rischia di non vedere una parte importante della realtà, e quindi di non riuscire a cambiarla davvero. Credere o far credere che il governo di Israele voglia davvero lo sterminio dei Palestinesi in quanto gruppo etnico non aiuta certo a individuare le vere (e gravi) responsabilità di Israele, e meno che mai a fare passi avanti nella costruzione di uno Stato palestinese. Vedere ovunque in Europa e in America progetti di deportazione anziché piani di rimpatrio dei migranti irregolari conduce a una totale incomprensione dei movimenti di destra, e verosimilmente a una iper-radicalizzazione del conflitto politico, da cui difficilmente potranno trarre giovamento i migranti. Per non parlare dell’equivoco del patriarcato, un concetto cui si ricorre quasi sempre a sproposito, ignorando il suo esatto significato in campo sociologico e antropologico: patriarcato significa potere del capofamiglia sui matrimoni dei figli, sottomissione o segregazione dei membri femminili della famiglia, diritto successorio patrilineare (privilegi del primogenito). Tutte cose che in Italia sussistono sì, ma quasi esclusivamente nelle enclave arcaiche (tipicamente islamiche), dove le figlie vivono sorvegliate, non sono libere di vestire all’occidentale né di scegliere con chi fidanzarsi e sposarsi. Smettere di parlare di patriarcato quando non c’è, aiuterebbe a riconoscerlo – e combatterlo – dove c’è davvero. La tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere con il fidanzato, non ci ha insegnato niente?

[articolo uscito sul Messaggero il 6 settembre 2025]

Rubare a Singapore – Nuotatrici leste

3 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Chi va nell’isola di Singapore, ricca città-stato del sudest asiatico (il suo reddito per abitante è più del doppio di quello italiano), lo sa perfettamente, perché glielo spiegano le agenzie di viaggio e i siti che si occupano di vacanze: a Singapore vigono innumerevoli divieti. Ad esempio: masticare chewingum, fumare in luoghi diversi da quelli appositi (pochissimi), buttare cicche o altro per terra, mangiare o bere sui mezzi di trasporto, girare nudi per casa (se visibili all’esterno), consumare droghe. Ma il vero tratto distintivo di Singapore è che quei divieti li fa rispettare, come – a maggior ragione – fa rispettare i divieti che a noi paiono più ragionevoli: ad esempio rubare.

Tutto questo è noto ma, a quanto pare, era sfuggito ad alcune nuotatrici azzurre, beccate a rubare in un duty free dell’aeroporto. Pare che una di loro, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, abbia infilato un profumo (o due boccette di olii essenziali, secondo un’altra versione) nella borsa della collega, così inguaiandola.

La vicenda, risolta con l’intervento della nostra ambasciata a Singapore, ha suscitato un certo imbarazzo al Ministero degli Esteri, che si è affrettato a dichiarare che il ministro Tajani non ha avuto alcun ruolo. Con tutti gli italiani che abbiamo il problema di riportare a casa, spesso con ottime ragioni, ci mancava solo la figuraccia di un ministro che si batte per rimpatriare una ladruncola.

A quanto pare siamo di fronte a un Fassino-bis, diverso dal famoso profumo rubato in aeroporto dall’ex sindaco di Torino perché la ladra non ha tenuto il profumo per sé, ma l’ha appioppato all’amica. Ma l’attrazione fatale per i profumi non è l’unico elemento che accomuna i due casi. In realtà ce n’è anche un altro. Ricordate la goffaggine delle giustificazioni di Fassino?

“Ero a Fiumicino e volevo fare un regalo a mia moglie. Avevo le mani occupate e ho messo il profumo in tasca, ma intendevo pagarlo”.

Ebbene, le spiegazioni della nuotatrice azzurra sono un capolavoro di reticenza. Anziché dire: “scusate, non ho rubato nulla, è stata una mia compagna a infilarmi il profumo nella borsa”, la ragazza ha tirato fuori un repertorio di circonlocuzioni elusive, astratte, e in perfetto stile burocratico-politichese come “Desidero condividere alcune considerazioni in merito a quanto recentemente emerso sulla mia persona”;
“non ho mai avuto intenzione di compiere gesti inadeguati, e chi mi conosce sa quanto tengo ai valori dello sport, alla correttezza e all’onestà personale”; “da questa esperienza comunque traggo grandi insegnamenti sulla prudenza, sulla responsabilità individuale e sul valore delle persone che mi circondano”.

Evidentemente, parlar chiaro non fa parte delle virtù della nostra nuotatrice, per la quale un furto è “un gesto inadeguato”.

Credo che in questo le nostre atlete non siano granché isolate. Nelle nostre società ultra-civili e ultra-democratiche i divieti di Singapore appaiono assurdi, o nella migliore delle ipotesi esagerati. E gli stessi furti, pur essendo deprecati, e pur tormentando i sonni di tanti italiani, sono considerati quasi fisiologici, un elemento ineliminabile del paesaggio sociale, specie nelle grandi città.

Ma è davvero così?

Il caso di Singapore è interessante perché mina questa percezione di ineluttabilità. Secondo gli ultimi dati disponibili, fatto 100 il numero di furti per abitante in Italia, a Singapore si scende a 9.5, con una riduzione del 90%. E le cose sono ancora più nette nel caso dei furti con scasso: fatto 100 il livello dell’Italia, a Singapore si scende a 0.87, con un abbattimento del 99%. A quanto pare i divieti servono, e ancor più serve la volontà ferrea di farli rispettare.

Dunque, si potrebbe fare anche da noi?

Probabilmente no, perché loro sono buddisti e noi cattolici. Perché da loro c’è la pena di morte e noi abbiamo assimilato la lezione di Beccaria. Perché la nostra stampa è libera e la loro ha restrizioni importanti. Insomma, la loro democrazia è quantomeno imperfetta (noi siamo al 34-esimo posto nella classifica dell’Economist, loro al 70-esimo).

Però, una cosa la possiamo fare: riflettere sui costi della democrazia. O meglio, della nostra democrazia. Noi, rispetto a Singapore, abbiamo non solo molti più furti, ma anche il doppio di femminicidi. Segno che i divieti, e la volontà di farli rispettare, a qualcosa servono. E non solo a pizzicare due bricconcelle a un duty free.

[articolo uscito sulla Ragione il 2 settembre 2025]

A proposito dello stupratore seriale – Violenza e società avanzate

31 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

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Non è la prima volta che, al momento dell’arresto di un uomo con l’accusa di stupro, si scopre che aveva dei precedenti per il medesimo reato o per reati affini. La serialità, infatti, è una caratteristica sovente associata ai crimini che hanno per vittima donne: violenza domestica, stalking, molestie, stupro.

Da questo punto di vista il recentissimo caso del 26-enne muratore gambiano, autore di due stupri a Roma ai danni di due diverse donne (una di 60 anni, l’altra di 44), può sembrare nient’altro che uno fra i tanti episodi consimili (le violenze sessuali denunciate sono circa 15 al giorno). Alcune caratteristiche di questa vicenda, tuttavia, dovrebbero farci riflettere.

In primo luogo, la brevità dell’intervallo fra le due aggressioni: il giovane, dopo il primo stupro, ne ha compiuto un secondo prima ancora di esser arrestato per il primo, ossia nel giro di 48 ore. Di qui il sospetto degli inquirenti che i due episodi più recenti siano solo la coda di una catena di violenze ben più lunga.

In secondo luogo, la condizione di immigrato regolare, in Italia da quasi 10 anni, munito di permesso di soggiorno, regolarmente assunto da una azienda edile, incensurato.

In terzo luogo la confessione di aver agito sotto l’effetto di droghe, presumibilmente crack e cocaina, di cui pare si rifornisse stabilmente.

La vicenda colpisce per il contrasto fra l’immagine di un soggetto fuori controllo, al punto di consumare due stupri (e un tentativo di rapina) nel giro di 48 ore, e i dati di base della sua condizione socio-economica: occupato, assunto con un contratto a tempo indeterminato, titolare di un permesso di soggiorno, a suo tempo destinatario – grazie all’aiutato di un’avvocata italiana – di un provvedimento di protezione umanitaria. In poche parole, siamo di fronte a un caso nel quale non possiamo tirare fuori la solita spiegazione: delinque perché non è integrato. Al contrario: delinque benché non sia né irregolare, né disoccupato, né sfruttato, né abbandonato.

Ci chiediamo allora: che cosa tiene insieme queste due realtà opposte?

Un elemento importante, probabilmente, è il mercato della droga. È vero che il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è enormemente maggiore di quello degli stranieri regolari (per gli extra-comunitari, unico dato aggiornato disponibile, il rapporto è circa 20 a 1). Ma non possiamo nasconderci il potenziale criminogeno che il circuito dello spaccio e del consumo di droghe attivano, non solo fra gli irregolari, ma anche fra gli stranieri regolari e fra gli stessi italiani. Come non possiamo continuare a glissare sul problema delle recidive, contro le quali manca del tutto una legislazione adeguata. Vista da questa angolatura, la ricetta che sovente si sente invocare – azzerare gli ingressi irregolari per combattere la criminalità – andrebbe forse ripensata con maggiore realismo, se non con scetticismo: può mitigare il problema, ma non ne va alla radice.

Ma qual è la radice?

La radice, temo, è che le nostre società, ricche, moderne e avanzate, sono da tempo entrate in una fase di devianza crescente, che sarebbe riduttivo ricondurre al sotto-problema dei flussi migratori irregolari. È vero che, nei rari casi in cui i dati ufficiali distinguono fra nativi e stranieri, sono quasi sempre gli stranieri a presentare i tassi di criminalità più elevati. Ma il problema di fondo è l’aumento complessivo dei crimini violenti, compresi quelli commessi da italiani, sia adulti sia minorenni. Un fenomeno piuttosto ben documentato dalle statistiche nazionali e internazionali, ma che si tende a occultare con vari ben collaudati artifici: usare termini di confronto ad hoc (come il 1991, anno in cui i reati avevano toccato un massimo), scegliere solo i dati che suggeriscono una diminuzione dei reati (il cosiddetto cherry picking), attribuire l’aumento di certi crimini (come le violenze sessuali) a un ipotetico, mai documentato, aumento dei tassi di denuncia.

Eppure basta lavorare su reati senza numero oscuro (gli omicidi) o su intervalli temporali corti (nel breve periodo i tassi di denuncia non possono cambiare drasticamente), per accorgersi che – in Occidente – qualcosa di grave e di profondo sta accadendo. Se prendiamo come riferimento i tre crimini più violenti (i femminicidi, gli omicidi e le violenze sessuali), e consideriamo le tendenze più recenti (gli ultimi 7 anni per cui si hanno dati), dobbiamo constatare che essi sono in preoccupante aumento. E lo sono innanzitutto nelle società più ricche, democratiche e civili. In Europa, i tre crimini violenti sono in diminuzione solo in 4 paesi su 31. E fuori dell’Europa almeno uno dei tre crimini è in aumento in Canada, Nuova Zelanda, Australia, Singapore, Stati Uniti. In generale, la percentuale di paesi a crimine crescente è poco sopra il 50% nel gruppo delle società più povere, sale al 70-80% nelle società a benessere intermedio, ma supera il 90% nelle società più ricche.

E l’Italia? L’Italia si caratterizza proprio per il dinamismo delle violenze sessuali, che sono in crescita sia fra gli adulti sia fra i minori, in particolare immigrati. Quanto agli omicidi volontari, sono in lieve aumento fra gli adulti (in passato diminuivano), ma in forte crescita fra i minori di nazionalità italiana (+ 84.2% fra il pre-Covid e oggi).

Conclusione?

Nessuna, salvo una raccomandazione: smettiamola di illuderci che il trend secolare del declino degli omicidi, iniziato nell’alto Medioevo e vanto degli Stati nazionali europei,  stia proseguendo la sua galoppata civilizzatrice. Quel trend ha esaurito la sua spinta, e nessuno sa esattamente perché.

[articolo uscito sul Messaggero il 30 agosto 2025]

Lo Sato e le tragedie della vita

28 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

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Ci sono vicende per le quali non si può che provare un’immensa, infinita pietà. È il caso di Sara Campanella e del suo assassino, Stefano Argentino, suicidatosi in carcere poche settimane fa, chiudendosi in bagno e impiccandosi con le lenzuola. Ed è più che mai il caso, verificatosi qualche anno fa in un ospedale di Vigevano e riemerso nelle cronache di questi giorni, della donna che, esausta dalla fatica del parto, ha involontariamente schiacciato il suo bambino appena nato, rendendolo tetraplegico e cerebroleso.

Ma non è solo la pietà ad accomunare questi casi, per tanti altri versi diversissimi. C’è anche un altro aspetto, al tempo stesso giuridico e culturale, che li accomuna e merita una riflessione: in entrambi i casi la giustizia si è mossa alla ricerca di un colpevole, in entrambi i casi il colpevole è stato individuato in un ente Ente Statale (Ministero della Giustizia a Azienda Sanitaria Locale), in entrambi i casi sono state attivate o ipotizzate procedure per i risarcimenti, in entrambi i casi l’individuazione dei beneficiari e dei non beneficiari solleva interrogativi.

Andiamo con ordine. Nel caso di Sara Campanella e del suo assassino ci sono già 7 indagati per “omessa sorveglianza” e lo Stato potrebbe essere costretto a risarcire pesantemente la famiglia dell’assassino, mentre – in base alla legge vigente – ai familiari della ragazza uccisa nella migliore delle ipotesi verrà attributo un risarcimento poco più che simbolico. Quanto all’eventualità che la famiglia della ragazza uccisa intraprenda una causa civile contro la famiglia dell’assassino, come stanno facendo i familiari di Giulia Cecchettin (oltre 2 milioni di euro la loro richiesta), si tratta di una via puramente teorica, perché occorrerebbe che il ragazzo suicida possedesse un suo patrimonio e che i parenti ne accettassero l’eredità. In breve: niente (o quasi) alla famiglia della ragazza uccisa; probabile risarcimento milionario – a carico dei contribuenti – per i familiari dell’assassino suicida in carcere; possibile condanna per 7 imputati rei di non aver previsto e impedito l’atto suicida: la direttrice e la vice-direttrice dell’istituto di pena, la responsabile del trattamento e il pool di 4 esperti – uno psichiatra e tre psicologi – che avevano in cura il giovane.

Apparentemente diverso, ma per determinati aspetti assai simile, il caso della mamma che, inavvertitamente, schiaccia il suo bambino nel letto rendendolo invalido. La Asl – dunque, ancora una volta, i contribuenti – è stata condannata a pagare un risarcimento milionario alla madre, al marito e ai loro familiari perché, così riferiscono le cronache, il giudice ha ritenuto corresponsabile della disgrazia il personale ospedaliero che: a) non avrebbe vigilato con sufficiente frequenza (ogni 10 minuti) le operazioni di allattamento; e b) non avrebbe adeguatamente istruito la neo-mamma sulle procedure e le precauzioni da seguire.

Ma il dato più sorprendente è non tanto l’entità quanto la ripartizione dei risarcimenti: 1.091.218 euro al bambino per i danni permanenti (e si può capire); 100 mila euro a ciascuno dei genitori (e forse si può capire pure questo); 25mila euro al fratello minore (mah…); 35mila euro a ciascuno dei quattro nonni (qui qualcosa mi sfugge).

Va detto, naturalmente, che in entrambi i casi – il suicidio di un assassino in carcere e l’errore di una madre esausta per il parto – è difficilissimo sapere come sono andate esattamente le cose, e se vi siano state davvero omissioni da parte di chi, secondo i protocolli e secondo la legge – avrebbe dovuto sorvegliare e vigilare. Quel che mi colpisce, però, è la completa sparizione dal nostro orizzonte mentale delle categorie con cui questi fatti sarebbero stati percepiti un tempo: come una scelta individuale (il suicidio di un assassino) e come una tragica fatalità (l’errore di una madre). In noi, ormai, prevale l’imperativo di trovare per ogni male un responsabile, e di cercarlo immancabilmente nello Stato e negli apparati pubblici. Ai quali sempre meno viene richiesto di proteggerci dal male che possono farci gli altri, e sempre più dal male che può venire da noi stessi e dai nostri errori. Con il corollario che, una volta messi alla sbarra gli apparati pubblici, da essi vengono fatti scaturire benefici ben poco comprensibili (premi alla famiglia dell’assassino) e dimenticanze scandalose (spiccioli per le famiglie delle vittime).

Forse c’è qualcosa da rivedere. Non solo nelle leggi, ma anche nel nostro modo di reagire alle tragedie della vita.

[articolo uscito sulla Ragione il 26 agosto 2025

Il mito dei “due popoli, due stati”

25 Agosto 2025 - di Luca Ricolfi

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Due notizie, negli ultimi giorni, hanno monopolizzato l’attenzione riguardo a Israele. Da un lato, la decisione, non condivisa dai vertici dell’esercito, di completare l’occupazione di Gaza entrando a Gaza City, nella speranza di assestare il colpo finale a Hamas e nella presunzione (a mio parere poco fondata) che questo possa favorire la liberazione degli ostaggi. Dall’altro, il via libera a nuovi insediamenti in Cisgiordania, in un territorio (la cosiddetta zona E1) la cui occupazione farebbe crescere ulteriormente la frammentazione della Cisgiordania, rendendo materialmente impossibile la costituzione di uno Stato Palestinese.

La maggior parte dei governi europei, compreso il nostro, ha condannato entrambe le decisioni, invitando Israele a fermarsi. Complessivamente, l’umore delle opinioni pubbliche europee volge sempre più a sfavore di Israele e pro-Palestinesi, costringendo i governi europei a prendere le distanze dal governo Netanyahu, considerato come l’ostacolo che rende impraticabile la soluzione “due Popoli due Stati”, unica via di pacificazione fra i due popoli. Di qui l’idea, agitata per parare le accuse di antisemitismo, secondo cui si dovrebbe distinguere fra popolo israeliano (buono) e Netanyahu (cattivo), così come sarebbe necessario distinguere fra popolo palestinese (buono) e Hamas (cattivo). Insomma: i due popoli non hanno colpe, i veri nemici sono i loro governanti.

Questa narrazione del conflitto ha un suo potere persuasivo, e rende molti buoni servigi a chi desidera manifestare il suo sdegno per le atrocità commesse a Gaza dall’esercito israeliano ma vuole sfuggire all’accusa di antisemitismo. Ma si può dire che sia fondata?

A metterne crudamente in dubbio la plausibilità è intervenuto pochi giorni fa lo scrittore ebreo americano Nathan Thrall, che vive a Gerusalemme Est (possibile capitale di un futuro Stato palestinese). In un’intervista a Repubblica, ha fatto notare diverse cose dimenticate dalle narrazioni prevalenti in Europa. Primo, il 79% degli ebrei israeliani “non è disturbato dalla fame a Gaza”, e i cittadini israeliani “non si stanno ribellando alle uccisioni dei civili a Gaza”. Secondo, l’opposizione all’ingresso a Gaza City è dettata dal timore di compromettere la sorte degli ostaggi, non certo da remore per i costi umani della “soluzione finale” nei confronti di Hamas. Quel che l’opinione pubblica davvero desidera è l’annientamento di Hamas, però non prima di aver recuperato gli ostaggi. Terzo, i progressisti europei si raccontano una bugia quando affermano che il problema è la destra israeliana: “due anni e mezzo fa avevamo un governo guidato dal centrista Likud e da Bennet, e le politiche nei confronti dei palestinesi non erano diverse, hanno costruito persino più insediamenti [in Cisgiordania] dei predecessori”.

Ed eccoci al punto. Oggi, a dar retta ai discorsi prevalenti in Europa, parrebbe che la strada per la pace sia non occupare Gaza City e bloccare il piano di nuovi insediamenti nella zona E1, confinante con Gerusalemme Est. Ma si sorvola sul fatto che, anche se il governo Netanyahu obbedisse pienamente alle ingiunzioni dei governi europei e delle Nazioni Unite, l’agognata soluzione dei “due Popoli, due Stati” resterebbe del tutto impraticabile, anzi per certi versi ancora più impraticabile di prima. Perché, da vent’anni, i due principali ostacoli a quella soluzione restano la sopravvivenza di Hamas e la colonizzazione della Cisgiordania (ovvero della terra fin dal 1947 destinata ai Palestinesi). Una colonizzazione che nessun governo israeliano ha ostacolato, ed ora sta lì come un macigno, e tale resterebbe se domani Netanyahu cadesse e il suo posto venisse preso da un premier di altro colore politico.

Sarò forse un po’ drastico, ma mi pare troppo comodo fare la voce grossa con Israele solo ora, dopo un ventennio in cui si è assistito senza fiatare alla crescita di Hamas a Gaza (alimentata anche dai soldi dell’Europa) e ben poco si è tentato per contrastare la proliferazione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. È allora che l’Europa avrebbe dovuto far sentire la sua voce, senza aspettare il dramma umanitario di Gaza per trovare il coraggio di criticare Israele. Perché quella palestinese è una questione politica, che in termini politici – piuttosto che in termini umanitari – avrebbe dovuto essere affrontata. Porre quella questione ora che i buoi sono scappati può lavare le coscienze, ma difficilmente toglierà Palestinesi e Israeliani dal dramma in cui sono precipitati.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 agosto 2025]

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