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Guerra e retoriche

3 Dicembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Vistodagenova

“Non si vede—ha scritto Edgar Morin in un editoriale del ‘Manifesto’ del 28 novembre u.s., Lo spettro russo e il degrado delle democrazie—come una pace giusta possa mettere le province russofone sotto il controllo di uno stato ucraino che ha bandito la lingua russa, la sua cultura, la sua musica.”. “La pace giusta dovrebbe comportare l’indipendenza politica e militare dell’Ucraina” ma dovrebbe, altresì, ”confermare la russizzazione delle province separatiste e uno statuto per la Crimea, che nel 2014 includeva 1.400.00 russi, 400.000 ucraini, 300.000 tartari, primi abitanti della Crimea” .Sono molti gli italiani che, a destra, al centro, a sinistra condividono le tesi di Morin, ”uno dei massimi intellettuali contemporanei”, ma, a riprenderle, si corre il rischio di essere etichettati come amici di Putin. Viene in mente  la gogna mediatica cui fu sottoposto Benedetto Croce nel 1914 per non aver aderito subito al fronte democratico che si batteva contro gli autoritari imperi centrali (magari con un alleato come la Russia zarista i cui governi certo non si ispiravano alla filosofia di Montesquieu). Il filosofo napoletano venne soprannominato von Kreuz e il paese entrò, col radioso maggio, nella guerra che avrebbe segnato la finis Europae e fatto registrare milioni di morti, distruzioni spaventose e vuoti di potere, presto riempiti dai primi regimi totalitari della storia, nazista e comunista.

Beninteso, non m’interessa stabilire chi abbia ragione nel conflitto in corso. A farmi riflettere è la censura del dibattito pubblico, come se già fossimo in guerra contro Putin e tenuti, quindi, a non consentire che la propaganda, le menzogne, le falsità del nemico raggiungano gli italiani. Tutto questo espone i partiti europeisti e atlantisti al rischio di perdere consensi. Conosco persone di destra che votano Marco Rizzo–o il Movimento 5 Stelle–unicamente per le loro posizioni di politica estera e persone di sinistra che non si riconoscono affatto nelle poco credibili crociate in difesa dell’Occidente bandite da politici, giornalisti, intellettuali fino a ieri ferocemente avversi alle democrazie capitalistiche e che, pertanto, non vanno più a votare. La guerra è una cosa brutta, sporca e cattiva e accusare la Casa bianca di svendere l’Ucraina alla Russia, pur di far tacere i cannoni ,è indice solo della superficialità  da sempre inseparabile dallo stile retorico nazionale.

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

 

[Articolo pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 2 dicembre 2025]

Quando il pluralismo non è preso sul serio. Il caso Valditara

14 Novembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Lettera 150

Novembre 2025

I fatti sono noti. Una circolare del Ministero dell’Istruzione e del Merito dei primi di novembre ha invitato presidi e professori a tener conto della diversità delle opinioni che si possono avere sui grandi temi della politica del nostro tempo. Un informato articolo di ’Repubblica’ firmato v.a., Dibattiti a scuola solo se c’è ‘par condicio’. Polemica su Valditara (8 novembre u.s.) ha spiegato bene la vicenda. «Appare importante—si legge nella circolare– che l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici aventi a oggetto tematiche di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza». Le scuole, «nell’ambito della loro autonomia» devono « assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e delle libertà di opinione e garantire il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico». Le iniziative, dunque, devono essere «coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e contribuire attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione». Si tratta di direttive pienamente condividibili ma che ingenerano nell’animo una profonda tristezza. Le scuole della ‘società aperta’, infatti, non avrebbero alcun bisogno di essere richiamate a principi tanto evidenti. E inoltre se dal piano delle (legittime) ‘raccomandazioni’ si passasse a quello dei ‘fatti’ e delle concrete proposte operative, sarebbe difficile sottrarsi alla tentazione del Manuale Cencelli, («l’espressione giornalistica riferita all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso” poi “spesso utilizzata in senso ironico o dispregiativo per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di criteri di merito». Wikipedia). Vi immaginate un dibattito sulla guerra russo-ucraina organizzato in un liceo e sottoposto alla discussione del Consiglio d’istituto in cui ciascun docente potrebbe eccepire sull’invito rivolto a un ospite la cui ”specifica competenza e autorevolezza” sia, a suo avviso, per così dire, problematica. Detto ciò l’invito di Valditara «al costante rispetto del pluralismo» è ineccepibile e non si vede lo sdegno suscitato dalle deputate del PD, Irene Manzi e Simona Malpezzi (un volto noto, quest’ultima, grazie ai talk show di Mediaset). « La scuola—dicono le due parlamentari nell’interpellanza rivolta al Ministro—non è un luogo da sorvegliare, ma un luogo dove liberare le idee, perché solo dove si discute liberamente si educa davvero alla cittadinanza». ‘Na penzata ‘e spírito’, vien fatto di commentare, col grande Armando Gil, pensando ai licei e alle Università che, una volta occupati, non possono certo dirsi  luoghi dove’ liberare le idee’. Giustamente Valditara ha commentato «parole inquietanti che lasciano trasparire l’intenzione di voler confondere l’autonomia scolastica con pratiche di indottrinamento. La scuola costituzionale non si merita questa preoccupante confusione».

 E tuttavia alla base di questa vicenda c’è un equivoco non risolto—e da tempo.  Lo Stato, i ministeri competenti hanno il dovere di salvaguardare il pluralismo dell’informazione e di assicurare a tutte le idee, a tutte le opinioni libertà di accesso nelle istituzioni scolastiche. Ma qui non si tratta di pluralismo dell’informazione bensì di pluralismo di manifestazione. Studenti e antagonisti vari partecipano alle occupazioni con lo spirito dei coristi del CAI che si riuniscono per cantare Lassù sulle montagne.. Per loro, non è un problema la conoscenza giacché si sa sin troppo bene ciò che sta accadendo nel mondo e contro cui si protesta. Vogliono, invece, porre fine a qualcosa che assimilano a un genocidio  sicché pretendere  che facciano ascoltare le due campane è, per lo meno, ingenuo. Sarebbe come  se si fosse chiesto a John Brown, l’abolizionista del Connecticut impiccato nel 1859, di dare la parola nei raduni da lui indetti (che potevano portare ad azioni violente come il massacro del Pottawatomie del 1856) anche ai fautori della schiavitù o comunque a quanti, in qualche modo, la giustificavano. Se si protesta conto i Lager o contro i Gulag, non è assurdo far sentire la campana nazista o comunista? Al tempo della Guerra del Vietnam, sui grandi viali di Washington sfilavano, da una parte, i manifestanti che volevano porre fine al conflitto nel Sud-est asiatico e, dall’altra parte, quanti desideravano che continuasse fino alla vittoria sui comunisti (tra loro c’era, almeno idealmente, John Wayne). Due cortei, appunto, impensabili in Italia dove sarebbero vietate de facto—per ragioni di ordine pubblico–manifestazioni in difesa non di Netanyahu ma del diritto dello stato di Israele a esistere. Da noi hanno diritto di parola (e di predica) solo i puri, gli onesti, quanti parlano a nome del Genere Umano.

 E qui veniamo al tumore maligno radicato nel corpo della nazione: la pretesa di essere nel giusto e che le opinioni degli altri, se contrarie alle nostre, nascondano interessi nascosti e disegni inconfessabili. Luca Ricolfi, in un magistrale articolo sul ‘Messaggero ’,A proposito di un’uscita di Elly Schlein. Democrazia a rischio (2 novembre u.s.) ha messo a fuoco due gravi distorsioni del concetto di democrazia, presenti nell’ideologia italiana. «La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale.|…| è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro». La seconda distorsione è «la credenza che una delle due parti politiche—la destra—non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia perché non pienamente democratica».

 A mio parere, qui c’è un vizio antico—che forse risale addirittura all’età del Risorgimento e agli insegnamenti di Giuseppe Mazzini e di Carlo Cattaneo—quello di ritenere che, alla base delle decisioni dei governi e dei loro oppositori, debba esserci una Verità oggettiva, indistinguibile dalle leggi di natura—che prescrive ciò che è giusto, in politica come in economia– e che non tenerne conto sia andare fuori strada, esporre il paese alla rovina. E’ un costume di casa che non riguarda solo le ali estreme dello schieramento politico giacché, a leggere gli editoriali dei columnist moderati e liberali di oggi come di settant’anni fa, si ha sempre la sensazione che, al di fuori delle soluzioni politiche da essi auspicate (centro-destra o centro-sinistra), ci fosse solo il caos. La cultura del Partito d’Azione svolse in tal senso una funzione decisiva: ponendosi come sintesi di liberalismo e di socialismo, i suoi esponenti tendevano a delegittimare moralmente quanti della sintesi  non  volevano saperne e rimanevano attaccati all’una o all’altra delle polarità ‘superate dalla Storia’. Non a caso con qualche luminosa eccezione (v. Guido Calogero) erano portati ad auspicare una democrazia senza partiti giacché questi non avevano più ragion d’essere una volta che il paese si fosse incamminato sulla via maestra del socialismo liberale o del liberalsocialismo.

 Non meraviglia che una sinistra non ancora secolarizzata e laicizzata (e quindi lontana dall’acquisire la consapevolezza che i valori politici stanno tutti sullo stesso piano) a parole riven-dichi il pluralismo dell’informazione ma, col cuore, si ritrovi sempre dalla parte dei ‘monopolisti delle manifestazioni’ ovvero di quanti—magari con mezzi violenti e inaccettabili—‘portano avanti’ le cause giuste. Se nella lotta politica si confrontano il Bene e il Male, quanti si trovano al servizio del secondo, possono anche andare al governo—se gli elettori sottopongono la democrazia a  harakiri—ma restano sempre un pericolo per la democrazia e per le libertà. Tutto in loro diventa subdolo, persino il ‘richiamo strumentale’ al pluralismo. Quest’ultimo, nei loro disegni perversi, diventa un cavallo di Troia destinato a far conoscere, nelle scuole della Repubblica, interpretazioni della nostra storia non in linea con la pedagogia dello Stato democratico fondato sui valori di una Resistenza e di un antifascismo intesi non come restaurazione delle libertà civili e politiche–conculcate dal fascismo– ma come renovatio ab imis, creazione di una nuova civiltà destinata a cancellare le miserie della vecchia Italia. Come ebbe a scrivere Giuseppe Bedeschi sul ‘Giornale’ del 9 giugno 2010, Così Croce sfidò Parri in difesa della libertà, «il Partito d’azione mirava a realizzare un programma di ‘rinnovamento sociale e politico’ con evidenti caratteri massimalistico-giacobini. Persino un uomo come La Malfa (azionista) era convinto che si dovesse chiedere” la nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali”, al fine di “recidere alle radici ogni potenza reazionaria del grande capitale’». Quel programma di rinnovamento sociale e politico con evidenti caratteri massimalistico-giacobini continua ad essere il termine fisso d’eterno consiglio per la sinistra italiana, anche dopo aver rinunciato alla nazionalizzazione di tutti i grandi complessi finanziari, assicurativi e industriali. Forse il vero nemico del pensiero egemone oggi è il pluralismo preso sul serio. Potrebbe convincere gli Italiani che a sinistra non c’ è “l’Unto del Signore” come non c’è a destra: giacché, per dirla con Bernard Crick, destra e sinistra stanno tutt’e due sul mercato.

A proposito di un video di Trump – Follemente scorretto

27 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Non ha attirato la dovuta attenzione, in Italia, il video (costruito con l’intelligenza artificiale) nel quale Trump, con una corona da re in testa e un respiratore in bocca, pilota un jet da combattimento e scarica tonnellate di liquami sui manifestanti. Il video è una provocatoria risposta al “no kings day”, ossia alle migliaia di manifestazioni contro la deriva autoritaria (espressione abusata, ma in questo caso ineccepibile) del presidente Usa. È come dire: voi dite che non volete essere governati da un re, e io non solo vi dico che sono il vostro re, ma vi mostro tutto il mio disprezzo ricoprendovi di escrementi.

Perché merita tutta la nostra attenzione quel video?

Fondamentalmente perché segna un salto di qualità nella degenerazione della lotta politica in America (e speriamo solo in America). Dopo circa un dodicennio (2012-2024) di follemente corretto, gli Stati Uniti si sono improvvisamente trovati di fronte al suo perfetto rovescio, il follemente scorretto di Trump. Due fenomeni collegati, per certi versi speculari, ma sottilmente distinti come possono esserlo l’esterno e l’interno di un guanto. La forma tipica del follemente corretto era il bullismo etico, ovvero il disprezzo per chi la pensava diversamente esercitato in virtù di una presunta superiorità morale delle proprie convinzioni. La forma tipica del follemente scorretto nella versione trumpiana è l’umiliazione dell’avversario in virtù di un effettivo (non presunto) eccesso di potere. Il follemente corretto proclamava: io sono migliore di te, perciò devi adeguarti. Il follemente scorretto proclama: tu non sei nessuno, io posso schiacciarti.

È possibile che il follemente scorretto sia anche una reazione estrema, al limite della paranoia, alla lunga scia di aberrazioni e prevaricazioni che, specie nei paesi di lingua inglese, la cultura woke ha inflitto a chiunque la pensasse diversamente. Ma temo che ci sia ben più di questo. Questo di più è la nostra incapacità, a sinistra come a destra, di prendere veramente congedo dal politicamente corretto e dalle sue degenerazioni.  La sinistra si tiene ben stretta al politicamente corretto perché questo le permette di mantenere in vita il “complesso dei migliori”, la destra – specie nelle sue frange estremiste – è perennemente tentata dal politicamente scorretto, quasi che l’alternativa al politicamente corretto potesse essere il suo rovescio.

Ma è un grave errore logico. Politicamente corretto e politicamente scorretto non sono opposti, ma due facce della medesima moneta. Il politicamente scorretto è il rovescio del politicamente corretto, non il suo contrario. Il contrario del politicamente corretto è il pluralismo, ovvero il riconoscimento che – fatti salvi il ripudio della violenza e il rispetto della legge – possono esservi valori al tempo stesso rispettabili e difficilmente compatibili, e che quindi nessuno può pretendere che i propri valori siano eticamente superiori a quelli dell’avversario politico. Una postura, questa, che la sinistra è strutturalmente incapace di assumere, convinta com’è di essere portatrice di valori universali e incontestabili, e che la destra – pur immune al complesso dei migliori – rischia di tradire ogniqualvolta l’istinto del politicamente scorretto secerne disprezzo, offesa, intimidazione.

Ecco perché la vicenda del video di Trump è inquietante. Fino a ieri si poteva sperare che il nuovo clima instaurato dall’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe limitato a raffreddare l’arroganza etica dei progressisti, ponendo un freno alle follie woke. L’improvvido video del volo di Trump sopra i manifestanti democratici fa temere anche un risveglio dei peggiori istinti nel mondo dei conservatori.

Una recente indagine di Mannheimer ha documentato una vera esplosione, nell’elettorato italiano, del consenso nei confronti del presidente degli Stati Uniti. C’è solo da sperare che tanto entusiasmo riguardi la sua determinazione nel porre fine agli eccidi di Gaza, piuttosto che la tentazione di inaugurare una stagione di disprezzo per gli avversari politici.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 ottobre 2025]

Il fantasma del pluralismo

15 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa a un imam, residente nel nostro paese, venne fatta la domanda: “Perché volete la moschea a Roma, sede del Vicario di Cristo, e non consentite che si edifichi una Chiesa a La Mecca o a Medina?”. La risposta fu perentoria:” Noi islamici adoriamo il vero Dio, non possiamo quindi ammettere che si veneri un idolo!”. Si può sorridere dell’ingenuità dell’imam solo a patto di dimen-ticare che anche de nobis fabula narratur. La nostra cultura politica, infatti, è stata segnata da un universalismo (cattolico e illuministico) che ripugna a quel sano scetticismo, antico e moderno, che da Pirrone porta a Montaigne a David Hume, a Isaiah Berlin.. Per questo stile di pensiero, la verità è unica e sta da una sola parte: la Chiesa è il porto della salvezza del genere umano o, al contrario, è la costruzione di uno dei tre impostori (Mosè, Cristo, Maometto) di cui parlava il barone d’Holbach: tertium non datur. Oggi, in Italia, è lecito, e per alcuni doveroso, manifestare contro il ‘genocidio’ israe-liano sventolando la stessa bandiera della copertina del libro di Filippo Kalomenidis, La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, ma a sventolare quella israeliana – in una manifestazione che ricordi il più atroce massacro di ebrei, dopo quello nazista – si corre il rischio di essere malmenati o aggrediti (prudentemente, le questure invitano gli ebrei italiani ad astenersi dal fare pubblicità alle loro iniziative). E’ il caso di dire che nel nostro paese la pianta del pluralismo è rinsecchita: siamo tutti pluralisti a parole ma siamo tutti convinti, del pari, che le nostre idee siano dettate dalla coscienza morale mentre quelle dei nostri nemici siano farina del demonio. Frutto di questa ‘barbarie della mente’ è l’ostracismo dato, sui grandi giornali e canali televisivi (pubblico e non), al principio delle due campane, che impone di sentire sempre le ragioni dell’altro. Siamo “un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”, diceva quel tale. Avrebbe dovuto aggiungere “..e di inquisitori!”. Con l’aggravante che a decidere chi debba essere inquisito e messo a tacere non sono le istituzioni dello Stato di diritto, ma i ‘movimenti’ che nascono dal basso e si fanno portavoce degli ideali di giustizia dei popoli.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito il 14 ottobre su IL GIORNALE DEL PIEMONTE E DELLA LIGURIA]

Sull’avventura della Flottiglia – La solitudine dei moderati

8 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Sulla giustezza della missione della Flottiglia, e sull’opportunità delle manifestazioni che l’hanno accompagnata, si possono avere le opinioni più diverse, dall’appoggio incondizionato all’ostilità aperta. Quella che invece non dovrebbe essere troppo controversa (almeno per chi guarda le cose senza lo schermo dell’ideologia) è la specificità del movimento che sta prendendo forma in questi giorni in Italia. Un movimento che, molto più di qualsiasi altro del passato, è basato su un sentimento – di solidarietà e di identificazione – piuttosto che su interessi, rivendicazioni, convinzioni ideologiche. Certo, dentro il movimento non mancano gli attivisti politici più o meno radicali, ma la grande maggioranza di coloro che sono scesi in piazza (più di 2 milioni secondo la Cgil, meno di 400 mila secondo il Ministero dell’Interno) lo hanno fatto essenzialmente mossi dall’emozione e dall’indignazione per le sofferenze del popolo palestinese, impietosamente mostrate per mesi dai maggiori media. Quanto alle violenze che hanno turbato manifestazioni fondamentalmente pacifiche, non vi è dubbio che hanno coinvolto una minoranza (quanto piccola nessuno può dirlo con precisione, ma siamo nei pressi dell’1%).

Tutto bene, dunque?

Non è di questa opinione Sergio Cofferati, uno dei più importanti dirigenti Cgil degli ultimi decenni. In una intervista uscita sulla Stampa l’ex leader sindacale (oltreché ex sindaco di Bologna), dopo aver notato la spontaneità e la non politicità della “folla” che ha riempito le piazze, non esita a denunciare – sia pure nel solito modo ellittico dei politici – gli aspetti problematici del nuovo movimento. Che sono essenzialmente tre: primo, le violenze di piazza; secondo, gli slogan antisemiti; terzo la tendenza (della sinistra, ma questo Cofferati non lo dice) a minimizzare le une e gli altri.

Che un personaggio come Cofferati, indubbiamente progressista ed eminenza del mondo sindacale, avverta e denunci i pericoli della violenza di piazza è senz’altro un fatto positivo. E tuttavia è la natura dei pericoli individuati dal leader sindacale che lascia perplessi. Per Cofferati la timidezza nella condanna dell’estremismo è pericolosa essenzialmente perché delegittima il movimento, riduce il consenso intorno ad esso, e può provocare un “riflusso d’ordine”, con annessa criminalizzazione del dissenso da parte di Giorgia Meloni. Non gli viene minimamente in testa che il vero pericolo che stiamo correndo è l’ulteriore imbarbarimento del confronto politico, che di fatto sta emarginando, intimidendo, colpevolizzando chiunque non sia schierato “senza sé e senza ma” con le ragioni dei Palestinesi. Quando tutto lo star system si schiera da una parte, quando università e istituzioni culturali chiudono gli spazi di agibilità a chi è ebreo o collabora con Israele, quando chi non si allinea agli slogan della folla viene investito dall’odio e accusato di disumanità, quel che si viene a instaurare è un clima intimidatorio, che è quanto di più anti-democratico si possa immaginare. Perché democrazia non significa solo rifiuto tassativo della violenza, ma anche rispetto delle opinioni di tutti, incluse le più estreme.

È paradossale, ma oggi siamo costretti ad aggiornare la formula: non solo “incluse le opinioni più estreme”, ma anche “incluse le più moderate”. Ossia di chi, o per intuito o perché ha studiato la storia, pensa che – nel conflitto israelo-palestinese – non tutte le ragioni stiano da una parte sola, e la via della pace sia stata preclusa anche dalle classi dirigenti arabe. Un recentissimo sondaggio di Mannheimer (in uscita oggi su Italia Oggi) rivela che più di 1 italiano su 2 è perplesso, o addirittura critico, sulla missione della Flottiglia. E le perplessità aumentano fra indecisi e astenuti: 2 su 3 non si pronunciano, o disapprovano la missione.

Chi vuole conquistare il voto degli indecisi farebbe bene a non dimenticarlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 7 ottobre 2025]

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