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Il pluralismo preso sul serio. Una riflessione sulla cultura politica italiana

26 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nel recente saggio L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo (Ed. Meltemi), il filosofo del diritto Mauro Barberis–un profondo conoscitore del liberalismo ottocentesco e autore di importanti studi che si collocano tra la filosofia morale, il diritto, la storia e la politica—ha scritto che :”la maggioranza detta ‘America profonda”, raccolta attorno al Partito repubblicano spesso formata da autentici psicolabili che però ignorano di esserlo, si riconosce in Trump, altro psicopatico che si ritiene normale”. Considerando che il libro è destinato anche (se non soprattutto) agli allievi del suo corso di ‘Teoria del diritto in ambito filosofico’ e che le parole citate si trovano nel capitolo V, “Pluralismo”, ci si chiede se Barberis sia sempre consapevole del fatto che la divisione tra i giudizi di fatto e i giudizi di valore—alla base del pluralismo conoscitivo, che registra appunto i fatti—debba precedere ogni discorso sul tema in questione. Si possono avere tutte le riserve possibili su Donald Trump e la maggioranza degli americani che lo ha votato ma il dovere dello studioso non è quello di riaprire i manicomi a chi non la pensa come lui bensì quello di capire quali valori, bisogni, interessi abbiano inciso su quel voto. Sine ira ac studio, come dicevano gli antichi. Nella celebre lectio, La scienza come professione (1918), Max Weber aveva scritto: “Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza — per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo–per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche. ”.

Non si possono buttare lì, en passant, opinioni politiche, in privato più che legittime, come se fossero verità autoevidenti. Gli allievi di Barberis debbono leggere gli articoli di Federico Rampini per capire il ‘trumpismo’ e le ragioni del suo successo? Chi vuole studiare seriamente il fascismo non lo farà, certo, leggendo Mussolini il capobanda (2022) di Aldo Cazzullo ma l’imponente opera di Renzo De Felice su Mussolini. Analogamente non sono i furtivi, provocatori, cenni di Barberis a liqui-
dare Trump e quello che ha rappresentato e rappresenta per l’America d’oggi.

ALLE ORIGINI DI UNO STILE

Alle origini di questo stile di pensiero’, c’è un fraintendimento—incomprensibile in uno studioso che da anni legge gli scritti di Berlin– di ciò che significa ’pluralismo’. Nel nostro paese, questo termine, rinvia a valori buoni—quelli della tradizione liberale e democratica—che talora possono confliggere e che dovrebbero, pro bono pacis, trovare un qualche bargaining. Contro la faciloneria di chi mette insieme tutte le cose buone, Norberto Bobbio aveva fatto rilevare in Presente e avvenire dei diritti dell’uomo nell’Età dei diritti (Ed. Einaudi, Torino 1990): “Quando dico che i diritti dell’uomo costituiscono una categoria eterogenea, mi riferisco al fatto che, dal momento che sono stati considerati come diritti dell’uomo anche i diritti sociali, oltre ai diritti di libertà, la categoria nel suo complesso contiene diritti tra loro incompatibili, cioè diritti la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri. Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere. Tanto per intenderci, chiamo ‘libertà’ i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene, e ‘potere’ quei diritti che richiedono un intervento dello stato per la loro attuazione. Ebbene: spesso libertà e poteri non sono, come si crede, complementari, bensì incompatibili. Per fare un esempio banale, l’aumentato potere di acquistare l’automobile ha diminuito sin quasi a paralizzarla la libertà di circolazione. Un esempio un po’ meno banale: l’estensione del diritto sociale di andare a scuola sino a quattordici anni ha soppresso in Italia la libertà di scegliere un tipo di scuola piuttosto che un’altra. Ma forse non c’è bisogno di fare esempi: la società storica in cui viviamo, caratterizzata dalla sempre maggiore organizzazione per l’efficienza, è una società in cui acquistiamo ogni giorno un pezzo di potere in cambio di una fetta di libertà. Questa distinzione tra due tipi di diritti umani, la cui attuazione totale e contemporanea è impossibile, è consacrata, del resto, dal fatto che anche sul piano teorico si trovano di fronte e si contrastano due concezioni diverse dei diritti dell’uomo, la concezione liberale e quella socialista”.

LA LEZIONE DI BOBBIO

Parole da meditare quelle di Bobbio—” le società reali, che abbiamo dinanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere”–. specie se si considera che il filosofo rimase sempre legato alla political culture di ‘Giustizia e Libertà’ e agli ideali di Carlo Rosselli e del Partito d’Azione che a lui si ispirava. L’onestà intellettuale gli precludeva facili sintesi ma non di vedere nella libertà e nell’ eguaglianza i valori più alti del nostro tempo. Sennonché, per chi abbia meditato a fondo la lezione di Isaiah Berlin, al di là del conflitto tra libertà ed eguaglianza, ve n’è uno che si riferisce a valori che la cultura politica—si direbbe ‘l’ideologia italiana’—non riconosce come tali. Per citarne qualcuno: l’Autorità, la Nazione, la Tradizione, la Fede, la Famiglia etc.

IL PLURALISTA DIMEZZATO

Il pluralista dimezzato prende in considerazione solo l’area dei valori buoni: i due citati e quelli che contrappongono dimensioni sociali ed etiche talora in guerra—Antigone e Creonte, la Morale e il Diritto, il Mercato e lo Stato—valori presenti in ogni società civile. Il pluralista imparziale– lettore dei magistrali studi di Berlin sul romanticismo politico, su Herder, su Hamann, sui tradizionalisti francesi, studi, peraltro, che inducevano Bobbio a mettere in discussione la qualifica di liberale data al suo pensiero– al contrario, sa che “anche se ne aborriamo le teorie, consideriamo Torquemada, Giovanni di Leida o Stalin–inquisitori e sterminatori– non semplice-mente come agenti umani di questo o quel grado di importanza nel causare cambia-menti storici, ma come esseri umani a cui riconosciamo un valore morale (e politico) positivo, in virtù della sincerità e comprensibilità dei loro motivi” (v. Berlin Isaiah, Tra filosofia e storia delle idee. La società pluralistica e i suoi nemici, Intervista auto-biografica e filosofica, Ed. Ponte alle Grazie,1994). Per il pluralista dimezzato, Autorità Tradizione, Radici, Destino sono la spazzatura della storia. E’ il vaglio della ragione che decide cosa (quel poco) del passato può essere conservato. Immanuel Kant, nello scritto Che cos’è l’Illuminismo del 1784, aveva decretato: “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. Questo è il motto dell’Illuminismo.” Ciò significava che quanto di irrazionale i secoli avevano depositato nella società e nelle istituzioni doveva venir senz’altro rimosso. Sennonché tutti i fini umani fanno riferimento a valori che sono un’eredità non una acquisizione: quelli che riguardano la comunità non sono universalizzabili–ovvero condivisi da tutti in virtù della loro razionalità– ma non per questo sono meno ‘valori’. Come scriveva ancora Berlin, “Tutti i fini sono fini. Il fatto è che non sono mai riuscito a capire la nozione di un fine razionale|… la nozione di un fine razionale| di cui parlano tutti—uno scopo razionale è un concetto filosofico ben noto: esisteva già ai tempi di Platone è per me incomprensibile. Penso che i fini siano semplicemente fini. La gente cerca di ottenere quello che vuole ottenere. Naturalmente non una varietà infinita di fini, ma un numero limitato”.

Pensando alle categorie classiche Gemeinschat/Gesellschaft (Comunità/Società) mirabilmente fissate da Ferdinand Toennies, si può dire che il pluralista dimezzato vede valori solo nella Gesellschaft e ricaccia tra le deità infernali tutto ciò che ha a che fare con la Gemeinschaft. E poiché il punto di approdo della comunità è ritenuto  universalmente—ma discutibilmente– il fascismo (sono le radici che portano al Lager) tutto ciò che ne proviene diventa una figurazione—sempre diversa nel tempo—del Male. Se si obietta che anche il razionalismo illuministico degenerato in ingegneria sociale porta al Gulag, la risposta è che il secondo processo nasce da un ‘errore fatale’ mentre la degenerazione della comunità ne rappresenta un esito naturale.

INTENDERE I MOVIMENTI TOTALITARI

Non è casuale che, nel nostro paese, l’area culturale più vicina al neo-illuminismo sia quella meno attrezzata intellettualmente per intendere il fascismo e, in genere, i movimenti totalitari. Non li vede come vini andati a male ovvero vini tramutati in aceto per colpa di classi dirigenti liberali incapaci di cogliere i bisogni di sicurezza e di identità dei popoli, per colpa di assetti internazionali di potere che non facevano spazio, crollati i grandi imperi nel 1918 ,alle autodeterminazioni nazionali, per colpa di un’intellighèntzia desiderosa di mettersi a capo della riforma morale e intellettuale dei connazionali (riforma che il liberale Benedetto Croce demolì in un memorabile passo delle Pagine sulla guerra mostrandone le potenzialità illiberali): li vede come malattie mortali, che minacciano la fine del genere umano. Per la cultura che, si richiama al pluralismo senza intenderne a fondo lo spirito, il problema è quello delle masse “psicolabili che, però, ignorano di esserlo” e si riconoscono in psicopatici che si ritengono normali, per citare Barberis. La rebelión de las masas (ma non nel senso del grande Josè Ortega u Gasset il cui libro è più citato–per il titolo–che letto) è il passe-partout che consente di comprendere tutto ciò che, in qualche modo, viene collocato al fuori della ‘società aperta’, nazionalisti e populisti, postfascisti e vannacciani, tradizionalisti politici e fondamentalisti religiosi, meloniani e salviniani. Il neo-illuminismo, insomma, fa di tutte le erbe ed erbacce un solo fascio: non è questa la lezione del grande Isaiah Berlin.

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 4. Mancanza di opinioni “costanti”

7 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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Nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Il comportamento, 1976).

Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate, e l’uomo è divenuto sempre più simile a ciò che già aveva intuito il sociologo Simmel della Vienna di inizio Novecento. Era l’uomo blasé, l‘uomo metropolitano, costantemente pervaso da mille stimoli diversi, con una identificazione sociale e politica sempre più debole e, viceversa, una identità individuale (l’individuazione) in perenne crescita, quasi ipertrofica, incapace degli antichi sentimenti solidaristici con il gruppo di appartenenza, perché gli antichi gruppi di appartenenza sociale venivano progressivamente ad esaurirsi.

Oggi, la frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più profonde e propenso a sperimentare identità differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. La società liquida, secondo Bauman (Vita liquida, Laterza, 2006), genera l’uomo liquido, il cui prototipo è la figura del “turista”, che ha sì una casa propria, ma si sposta temporaneamente alla continua e febbrile ricerca di sensazioni e piaceri inediti. Un altro grande sociologo (Goffman) ha approfondito l’analisi della vita quotidiana attraverso l’interpretazione dell’agire comune con la metafora del teatro, come se l’individuo fosse un attore su un palcoscenico, che recita una pièce teatrale; Goffman intende sottolineare l’esistenza, nelle azioni umane, di una componente legata allo specifico quadro (o “frame”) in cui l’individuo sente di essere inserito. Il suo comportamento appare dunque conseguenza specifica anche della sua percezione del ruolo che sta recitando all’interno di quel particolare quadro.

In quel momento peraltro egli non recita solamente, ma diventa il protagonista dell’opera cui sta prestando la propria interpretazione: quando un individuo è al volante della sua auto, ad esempio, la sua percezione di ciò che lo circonda viene vissuta nelle vesti di automobilista; dal momento in cui parcheggia la sua vettura, egli muta radicalmente, si appresta a vivere la nuova realtà in qualità di pedone, “diventando” quindi un pedone, e interpreta gli eventi secondo quel suo nuovo punto di vista.

È una sorta di sdoppiamento diacronico della personalità; le due personalità convivono nello stesso individuo, venendo attivate solamente in particolari momenti della giornata, a seconda del ruolo che sta giocando nel quadro di riferimento in cui egli è inserito. E lo studioso, per poter conoscere il pensiero dell’individuo analizzato, non può fare a meno di riferirsi ad una delle due differenti personalità.

Se ad esempio il suo interesse consiste nel comprendere il rapporto tra il soggetto e il traffico urbano, il ricercatore deve essere cosciente che questo rapporto potrà essere differente a seconda che il soggetto si proponga come automobilista (e allora vorrà privilegiare facilitazioni viarie) ovvero come pedone (e allora privilegerà la formazione di isole pedonali). Le due personalità convivono nello stesso individuo, contraddicendo l’una i bisogni dell’altra.

Tutte queste trasformazioni della personalità individuale hanno vissuto negli ultimi anni, a causa di pandemie e guerre, un ulteriore shock, con la crescita dell’instabilità anche nella formazione delle opinioni: è cresciuta l’incertezza, l’incostanza, l’alterità anti-establishment e la contraddittorietà dei riscontri demoscopici, rendendo sempre più problematico comprendere quanto siano attendibili le risposte fornite dagli intervistati nei sondaggi odierni.

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 1. Effetto “bandwagon”.

4 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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In senso letterale il termine inglese bandwagon indica il carro che trasporta la banda musicale in una parata. Salire sul carro della banda è dunque gratificante poiché permette di condividere il centro dell’attrazione del pubblico. Salire sul carro (del vincitore) è una delle principali conseguenze del cosiddetto clima di opinione politico-elettorale, che ha avuto un notevole successo negli ultimi anni per analizzare l’orientamento e il comportamento di voto anche nel nostro paese.

L’idea di fondo è che il clima abbia un certo effetto anche sulle opinioni di voto espresse da (alcuni) degli intervistati, soprattutto da quelli indecisi, che tenderebbero nei sondaggi pre-elettorali ad indicare (mentendo) il partito o la coalizione che gode di maggior appeal, oppure a sottacere il loro futuro appoggio al partito “perdente”. Si tratta di una sorta di “spirale del silenzio demoscopico” per cui alcuni elettori, condizionati appunto dal clima di opinione elettorale prevalente, non osano dichiarare apertamente la propria scelta minoritaria nelle interviste, salvo poi farlo nel segreto della cabina elettorale.

Nei sondaggi post-voto accade a volte l’esatto opposto: elettori non completamente convinti della propria scelta elettorale, tendono a dichiarare (mentendo) di aver votato il partito o il candidato vincente, salendo in pratica “sul carro del vincitore”.

Il concetto di clima di opinione elettorale ha subìto una ripresa di interesse nell’ultimo decennio in Italia soprattutto per due motivi.

Il primo è legato alla progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che caratterizzavano la sostanziale stabilità e polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Le motivazioni di voto erano attribuibili per una vasta quota di elettori al cosiddetto “voto di appartenenza”, demarcato per questo da un forte livello di fedeltà, una “fedeltà pesante” frutto del radicamento delle tradizionali sub-culture cattolica e social-comunista.

Durante gli anni del successo di Berlusconi, a questa si è sostituita una sorta di “fedeltà leggera”, cioè da un tipo di vicinanza politica (e fedeltà di voto) legata allo schieramento bipolare (pro o contro Berlusconi). Ma anche questo nuovo tipo di fedeltà è terminata, lasciando il posto, da almeno un decennio, ad una inedita volatilità elettorale, scelte piuttosto superficiali veicolate dalle sensazioni collettive del momento, dai discorsi dei leader politici, alle quali si può presto rinunciare senza per questo sentirsi un traditore (l’elettore liquido ben descritto da Bauman).

Il secondo motivo riguarda la capacità di questo concetto di ben adattarsi alla trasformazione delle antiche campagne elettorali nelle attuali campagne permanenti, in cui l’impatto delle dinamiche di opinione – continuamente sollecitate dal rapporto sondaggi-consenso come fattore decisivo sia per l’esercizio della leadership che per le decisioni di governo – tende ad assumere un peso rilevante sia di medio ma perfino di breve periodo, favorendo la costruzione di “micro-cicli di opinione”, che rappresentano a volte un punto di riferimento essenziale per lo stesso comportamento elettorale della popolazione. Non contano più dunque le appartenenze, o i più stabili atteggiamenti, contano le emozioni del momento, nell’elettore liquido, conta il clima di opinione sempre più fluido e intercambiabile, cui il cittadino provvisoriamente si adatta.

Una volta che un particolare clima d’opinione si è diffuso all’interno del paese, l’elettore interrogato nel corso di un’indagine demoscopica si trova in alcuni casi quasi “in imbarazzo” a dichiarare la propria preferenza per il partito, il candidato o la coalizione che pensa non godano delle simpatie del resto della popolazione elettorale. Si rifugia in questi casi all’interno di quello che ho definito come “spirale del silenzio demoscopico”, preferendo cioè tacere il suo reale appoggio per quella forza politica, salvo poi votarla nel segreto dell’urna. Molti sondaggi sono pervasi da questa dinamica, che non permette di ottenere stime corrette del reale orientamento di voto di una parte significativa degli intervistati

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

 

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