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Diritto alla rappresaglia (linguistica)?

6 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Bene ha fatto Chiara Valerio a definire “gesto dada” la piccola provocazione messa in atto da Cecilia Guerra (deputata Pd) quando, alla Camera dei Deputati, si è rivolta al presidente dell’assemblea Giorgio Mulé chiamandolo “signora presidente”. Altrettanto bene ha fatto Giorgio Mulé a provare a metterla sul ridere. E benissimo ha fatto il quotidiano Libero a prendersi la libertà (se no, perché chiamarsi Libero?) di proclamare Meloni “Uomo dell’anno”, come in passato era già successo con altre donne illustri. Nel 1999, la campagna elettorale per Emma Bonino Presidente della Repubblica ne esibiva una foto sorridente, con la scritta “Finalmente l’uomo giusto”. Per non parlare di Angela Merkel, spesso descritta come grande “uomo di Stato”, o addirittura come l’unico vero uomo di Stato di cui l’Europa disponesse.

Insomma tutto bene finché si resta sul giocoso. La lingua è anche un gioco, l’ironia è una risorsa insostituibile della lingua vivente, guai a chi prova a ingessarla con regole, divieti, intimidazioni più o meno arroganti.

Male, invece, hanno fatto altri. Tanto per cominciare, il deputato Marco Perissa (Fratelli d’Italia), che ha acceso la miccia chiamando “segretario” la segretaria del Pd Elly Schlein, ben sapendo che ella preferisce essere chiamata segretaria. In secondo luogo Cecilia Guerra, che anziché restare sul giocoso, si è spinta a teorizzare una sorta di diritto di rappresaglia linguistica: se il deputato Perissa si permette di chiamare “segretario” la segretaria del mio partito Elly Schlein, allora è lecito a me chiamare  Giorgio Mulé “signora presidente”. In terzo luogo, Elly Schlein, che improvvisamente accortasi che lo statuto del Pd, parlando sempre e solo di segretario del partito, finiva per legittimare il deputato Perissa, non ha trovato di meglio che annunciare un congresso per cambiare lo statuto del partito. Così suscitando
la contro-reazione di Perissa, infantile e logica al tempo stesso : “Finché lo statuto Pd dice che Schlein è segretario nazionale, la chiamerò così”.

Peggio di tutti, almeno ai miei occhi, ha infine fatto Michele Serra, che pare aver perduto il sense of humour che lo aveva reso famoso quand’era giovane e dirigeva Cuore (capolavoro assoluto della satira politica). In un serioso articolo nella sua rubrica su Repubblica, ha definito nientemeno che “inappuntabili sotto ogni punto di vista” le parole di Cecilia Guerra, aggiungendo che il ragionamento della deputata Pd – se tu chiamare uomo me, io chiamare donna te – “non fa una grinza” e “non c’è replica possibile”. Il tutto per lapidariamente concludere: “la deputata Guerra ha ragione, il deputato Perissa ha torto”.

Mah…

Siamo sicuri che non c’è replica possibile?

Io ne ho in mente parecchie, ma le più importanti sono due. Primo, la lingua da sempre ammette infinite variazioni e sfumature, sottigliezze e connotazioni, che ne costituiscono la ricchezza (e la potenza espressiva). La lingua è libera, e nessuno ha diritto di fissare le regole e le parole con cui dobbiamo rivolgerci agli altri, salvo un’unica basilare restrizione: mai offendere intenzionalmente. Da questo punto di vista, Giorgio Perissa e Cecilia Guerra non hanno l’uno torto e l’altra ragione, ma hanno torto entrambi, perché entrambi hanno deliberatamente usato il genere che l’interlocutore non gradiva. Entrambi hanno cercato di ferire.

Secondo. La pretesa degli intellettuali di regolare l’uso della lingua è l’espressione più plateale del “razzismo dei laureati” (copyright Federico Rampini). Una brutta bestia, non solo perché umilia i ceti meno istruiti, che con le sottigliezze dei legislatori della lingua non si raccapezzano, ma perché ingessa il discorso pubblico. Non vi siete accorti di quanto circospetti, prudenti, insipidi – e in definitiva noiosi – stiamo diventando per il terrore di essere beccati in fallo su un aggettivo, un avverbio, un accostamento?

Avanti così, e perderemo del tutto la nostra libertà.

La chiusura della mente progressista – A proposito di “egemonia culturale”

5 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Se c’è una cosa che, ogni volta, è capace di suscitare il mio stupore è il modo, sostanzialmente autolesionista, in cui i media progressisti parlano di Giorgia Meloni, e più in generale del suo primo anno di governo.

Ma forse, più che di stupore, dovrei parlare di incredulità. Non riesco a credere, infatti, che tutto – ma proprio tutto – quello che questo governo ha fatto nel primo anno sia sbagliato. Eppure è questo il messaggio che, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, riga dopo riga, battuta dopo battuta, vignetta dopo vignetta, promana dall’universo progressista. Dove il fatto sorprendente è che le critiche non riguardano solo le cose di destra che questo governo ha fatto, come i condoni, le norme ostili alle Ong, l’inasprimento delle pene per alcuni reati, ma anche le innumerevoli misure di sinistra che un’opposizione pensante e intellettualmente onesta avrebbe dovuto accogliere con sorpresa e compiacimento, anziché con rabbia e ostilità. La politica economico-sociale, dagli sconti in bolletta alla riduzione del cuneo fiscale, dalle misure a sostegno delle fasce deboli all’intervento sulle pensioni (punitivo verso i ricchi), ha avuto fin qui un chiarissimo segno progressista. Condoni a parte, non ricordo leggi finanziarie così univocamente sbilanciate a favore dei ceti medio-bassi.

Persino sulla politica migratoria, ci sarebbero molte cose da eccepire. Capisco che l’opposizione abbia sparato a zero sul decreto Cutro, sull’accordo con la Tunisia, sul progetto di smistare in Albania una parte degli arrivi, ma che dire della politica degli ingressi legali? Qualcuno ha notato che nessun governo precedente aveva mai programmato tanti ingressi per lavoro mediante i decreti flussi?

Certo, le lamentele dell’opposizione sugli innumerevoli problemi dell’Italia sono più che fondate: liste d’attesa inaccettabili negli ospedali, fuga dei cervelli, insegnanti mal pagati, scuole pericolanti, dissesto idrogeologico, bassi salari, alto debito pubblico, povertà. Ma come pensare che l’opinione pubblica sia così stupida e smemorata da mettere tutto questo in conto al governo Meloni, senza riflettere per un solo momento sul fatto che, dopo la crisi del 2011, l’unico partito che è stato quasi sempre al governo è il Pd?

Però, si dirà, il fatto è che la Meloni ha tradito tutte le sue solenni promesse. Le tasse restano alte, la legge Fornero non è stata abolita né superata, gli sbarchi sono triplicati, la criminalità dilaga nelle strade. Qualche commentatore, si avventura a pronosticare che, per l’imbarazzo di non aver saputo attuare il “blocco navale”, i media di destra e la tv pubblica – in vista delle elezioni europee – non oseranno più parlare di sicurezza, criminalità, immigrazione.

Anche qui, non ci posso credere: come non capire che, se critichi la Meloni perché non ha saputo fermare i migranti, stai chiedendo più destra, non certo più sinistra? che se denunci le troppe tasse, stai invocando più liberismo, non più welfare? come illudersi che esista un percorso logico che dalle promesse tradite di Giorgia Meloni possa condurre verso il voto a Elly Schlein?

Ma non è solo questo. La “chiusura della mente progressista” (per richiamare un felice titolo di Allan Bloom) va ben oltre queste stranezze della comunicazione. Il suo vero punto debole è sostanziale, e consiste nell’incapacità di rispondere alla domanda-chiave: perché i ceti popolari, da diversi decenni, guardano più a destra che a sinistra?

Accontentarsi della solita risposta – la destra parla alla pancia del paese, la destra fornisce soluzioni semplicistiche a problemi complessi – non è solo vagamente razzista (il popolo è ignorante e manipolabile), ma è drammaticamente controproducente perché non coglie i due tratti fondamentali che, finora, hanno reso la destra più attrattiva della sinistra. Il primo è che ci sono un sacco di cose giuste e di sinistra nella politica della destra. Il secondo è che la destra che Giorgia Meloni ha costruito e vuole rappresentare è culturalmente vicina al modo di sentire della maggioranza degli italiani, e in special modo dei ceti popolari. Una circostanza che, ove avessero ascoltato con animo aperto il discorso pronunciato ad Atreju, non sarebbe sfuggita neppure ai critici più prevenuti.

Quando solidarizza con l’inquilino che non può rientrare in casa propria perché gliel’ hanno occupata. Quando difende il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre, e a non essere separati dalla propria madre biologica. Quando prende le distanze dalle follie del politicamente corretto e della mentalità woke. Quando solidarizza con l’insegnante “sparata” e filmata dagli allievi, o stigmatizza i genitori che si fanno sindacalisti dei figli. Quando denuncia l’iniquità del reddito di cittadinanza se erogato a chi potrebbe lavorare. Quando, alludendo agli influencer come Chiara Ferragni, contrappone chi il made in Italy lo fa (a beneficio di tutti), a chi cinicamente lo sfrutta (a proprio esclusivo vantaggio).  In questi e tanti altri casi, Giorgia Meloni fa anche un discorso morale, che non piace a tanti intellettuali progressisti ma incontra, intercetta, e legittima sentimenti profondamente radicati nella sensibilità popolare, e più in generale nel senso comune.

Finché non prenderà atto di questo, la sinistra avrà ben poche chance di tornare al potere. E alla destra, forse, non occorrerà cimentarsi nella mission impossible di costruirsi una propria egemonia culturale: dopotutto, fra i ceti popolari l’egemonia ce l’ha già. E la chiusura della mente progressista, incapace di vedere quel che di sinistra c’è nella destra, e quel che di destra c’è nei ceti popolari, è – per Giorgia Meloni – la miglior polizza di assicurazione.

Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

28 Dicembre 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.

L’esperimento – Accordo con l’Albania

15 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Alle volte gli economisti mi stupiscono per la loro ingenuità. L’ultima volta che mi è successo è stato sabato scorso, leggendo su Repubblica un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti (due fra i miei economisti preferiti) sul progetto Meloni-Rama di delocalizzare in Albania 36 mila richieste di asilo l’anno, costruendo ex novo due appositi centri con una capacità totale di 3000 richiedenti asilo. Il nocciolo del ragionamento dei due illustri economisti è il seguente: il numero effettivo di domande smaltite sarà inferiore a 3000 all’anno perché il tempo medio di processamento delle richieste è 12 mesi, non 4 settimane.

In effetti, è quel che si insegna in vari corsi universitari, innanzitutto quelli di ingegneria gestionale, quando si spiega la formuletta che collega le vendite annuali con lo stock di merci in magazzino e il loro tempo medio di giacenza: se devo vendere 36000 e il mio magazzino tiene 3000 allora devo rinnovare il magazzino 12 volte l’anno. Banale, e leggermente cinico, visto che stiamo parlando di essere umani.

Però la formula è ineccepibile, come tutte le identità contabili. Il punto è un altro: perché mai il tempo di smaltimento delle domande dovrebbe essere 12 mesi, o addirittura superiore?

La risposta di Boeri e Perotti è: perché in Veneto, dove le cose vanno meglio che altrove, gli “operatori del settore” ci hanno detto che ci vogliono almeno 12 mesi. E, se accettiamo questa stima e la infiliamo nella formula di magazzino, salta fuori che non potremo processare più di 3000 domane e anzi, tenuto conto di altri fattori rallentanti, ne finiremo per processare circa 2000, con costi pro capite enormi, visti i costi fissi che i due centri albanesi comporteranno.

Ma la vera domanda è perché mai, in una struttura nuova di zecca, e dedicata solo alla gestione dei migranti, i tempi di smaltimento delle domande dovrebbero essere quelli medi attuali sul territorio della penisola, dove le questure sono sovraccariche (come gli ospedali!), le procedure sono complicate e farraginose (anche per il coinvolgimento di enti del terzo settore), e alle carenze di personale nelle questure e nelle commissioni territoriali non si riesce a porre rimedio?

E se accadesse invece esattamente l’inverso, ossia che proprio in Albania – e solo in Albania – i migranti potessero esercitare il diritto di essere ascoltati in tempi ragionevoli, senza le umiliazioni, le peregrinazioni, le infinite attese cui da sempre sono costretti in Italia?

In breve: la capacità effettiva dei due centri albanesi (36000 domande, o solo 2000?) non è determinabile con una formula contabile, ma è un interessante problema di sociologia dell’organizzazione. Può darsi benissimo che le cose vadano come prevedono Boeri e Perotti, e persino che vadano peggio: se a oltre 20 anni dal varo della legge Bossi-Fini nessun governo è riuscito a oliare gli ingranaggi della burocrazia dell’accoglienza, è possibilissimo che non ci riesca nemmeno questo governo.

Ma perché non dargli una chance? O, perlomeno, augurarsi che in Albania le cose vadano meglio che sul suolo italiano? Perché scommettere sempre e solo sul fallimento dei tentativi italiani di gestire il problema degli sbarchi? Perché le menti più brillanti di questo paese, anche quando sono chiaramente collocate nel campo riformista, si ingegnano soltanto a profetizzare fallimenti, anziché a dare idee su come correggere quel che non va e far riuscire l’esperimento?

Forse, una vera sinistra riformista, liberale, empirista, deve ancora nascere in Italia. Perché, se ci fosse, la sua stella polare sarebbe l’interesse nazionale, non la speranza – neanche poi tanto segreta – che l’esperimento albanese si riveli l’ennesimo flop.

Fortezza Europa?

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È dei giorni scorsi la notizia che 8 paesi europei, fra cui l’Italia, hanno più o meno completamente sospeso la convenzione di Schengen, che dal 1990 permette la libera circolazione all’interno dell’Europa. Da sabato, in particolare, Giorgia Meloni ha disposto di ripristinare i controlli alle numerose località di frontiera con la Slovenia, a partire dal valico Fernetti, uno dei maggiori punti di transito tra l’Europa occidentale e quella centro-orientale.

La misura è stata motivata con la necessità di filtrare gli ingressi in chiave anti-terrorismo, ma il suo significato – a mio parere – finirà per andare molto al di là delle ragioni contingenti che l’hanno motivata. Essa ha infatti finito per mettere in luce due aspetti per lo più trascurati del problema migratorio.

Il primo è che gli ingressi irregolari in Italia non avvengono solo via mare, tramite i barconi, ma anche via terra. Il secondo è che, finora – ossia vigente la convenzione di Schengen – gli ingressi in Europa via terra sono sempre stati ancora meno controllabili di quelli via mare. Tali e tanti, infatti, sono i punti di frontiera non controllabili (boschi, valichi, pianure poco abitate), che risulta impossibile intercettare e registrare una frazione cospicua di quanti entrano in Europa alla spicciolata da un confine terrestre. Un problema acuito dal fatto che diversi paesi europei, in particolare gli ultimi arrivati Slovenia e Croazia, non sembrano minimamente intenzionati né a controllare gli ingressi dai Balcani né le uscite verso l’Italia. Insomma, se fermare le partenze via mare dall’Africa è difficile, anche con l’impegno dell’Europa contro scafisti e trafficanti, fermare quelle dai Balcani e dall’Est Europa è praticamente impossibile, almeno con le norme attuali.

Prendere atto di questa impossibilità è importante perché rende più chiaro il fatto che, in materia di politiche migratorie, determinate alternative o non esistono, o hanno prezzi elevatissimi. L’alternativa che non esiste è quella di fermare gli ingressi irregolari in Europa bloccando le partenze dall’Africa: anche azzerandole, resterebbe un enorme flusso da terra, destinato a ingrossarsi man mano che avesse successo la politica di contrasto agli sbarchi dal mare, in particolare verso Italia, Grecia e Malta. L’alternativa che esiste ma ha un prezzo (economico, ma anche morale) elevatissimo è la via della “fortezza Europa”: costruire muri lungo tutti i confini esterni, come da decenni, chiunque – repubblicano o democratico – fosse il presidente, hanno provato a fare gli Stati Uniti sul confine con il Messico.

Questo significa che il problema del controllo dei flussi migratori è irrisolvibile? Probabilmente sì, con le regole attuali. Non a caso nessuna forza politica ha un piano che sia al tempo stesso realistico e compatibile con il diritto vigente a livello nazionale, europeo, internazionale.

Così stando le cose, le strade aperte sono solo due. Proclamare, come fa la sinistra, che il problema non esiste, che abbiamo bisogno dei migranti, e che le frontiere aperte, il melting pot fra popolazioni europee ed extra-europee, non sono un problema ma, semmai, un’occasione di arricchimento della nostra civiltà. Oppure prendere atto, come una parte della destra sta provando a fare, che se vogliamo essere noi a decidere chi può entrare in Europa (dottrina von der Leyen), non possiamo non rendere molto più severe le regole che ci siamo dati fin qui. Regole che ci inorgogliscono per la nostra apertura, il nostro garantismo, la nostra umanità, ma – inevitabilmente – ci sottraggono il diritto di decidere chi può entrare in Europa e chi no. Perché sono le nostre regole, non certo le Ong, il vero pull-factor che – nonostante pericoli e difficoltà – rende così attrattivo il viaggio verso l’Europa.

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