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Europa al bivio?

14 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.

Salvate il soldato Schlein

17 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, poco meno di un anno fa, Elly Schlein espugnò il Pd, una delle prime cose che disse fu che il male era anche dentro il Pd, che c’era molto da fare dentro il partito, e che non voleva più vedere né “stranezze nei tesseramenti”, né “cacicchi” né “capibastone”.

Non so se fosse consapevole di quanto antiche fossero quelle pratiche nel mondo post-comunista, o se ricordasse che a evocare per la prima volta l’espressione “cacicchi” per stigmatizzare le correnti del partito era stato – un quarto di secolo fa – nientemeno che Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, il partito erede del Partito Comunista, e secondo anello della catena Pci-Pds-Ds-Pd.

Né so se la neo-segretaria si rendesse conto che, ai membri del suo partito, quelle parole avrebbero potuto ricordare quelle pronunciate da Renzi pochi anni fa, dopo aver lasciato il Pd: “il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti. In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito”.

Soprattutto, non so se Elly Schlein, quando ebbe a pronunciare quelle parole di rinnovamento e di speranza, avesse contezza dell’enormità dell’impresa che si accingeva a compiere. Perché, dieci mesi dopo le fatidiche parole contro i cacicchi, l’impressione è che la guerra la stiano vincendo proprio loro, i signori delle tessere, i notabili locali, ma soprattutto i capi delle correnti.

E non sto pensando solo alle guerre sulle candidature, per le elezioni Regionali come per le Europee. O agli episodi che hanno visto i membri del Pd dividersi (cioè votare diverso) sia in Europa, sia nel Parlamento italiano: è successo nei giorni scorsi sulle armi all’Ucraina, ed è successo sull’abolizione del reato di abuso di ufficio.

Quello che più mi colpisce non è l’incapacità della segretaria di imporre a tutti la disciplina di partito, come accadeva ieri nel Pci e accade oggi nel centro-destra, ma è la sua incapacità di sciogliere i nodi politici di fondo. Hai un bel dire che è bello stare in un partito in cui si discute, o trastullarsi sulle pochissime cose su cui non c’è dissenso (salario minimo legale e più soldi alla sanità), il vero problema è tutto il resto. Sulle cose che contano, il Pd è diviso fra quanti la pensano come i Cinque Stelle, e quanti la pensano – se non come Renzi e Calenda – come il Pd prima del governo giallo-rosso.

Quali sono queste cose che contano?

Sono almeno cinque: l’atlantismo e la guerra; l’assistenzialismo e il reddito di cittadinanza; la riforma della giustizia; il mercato del lavoro; la patrimoniale e le tasse.

Su questi temi la segretaria, finora, non ha ancora saputo assumere una posizione chiara e netta. Detto in termini classici, non ha saputo scegliere fra massimalismo e riformismo. O forse sarebbe più esatto dire: in cuor suo ha scelto, ma non ha la forza di esplicitare e imporre la sua linea al partito.

È anche questo, a mio parere, il motivo per cui i cacicchi (e le cacicche) prosperano, e  della guerra contro le correnti non si scorge traccia. Se non scegli, se non dici per andare dove invochi il diritto di decidere, non fai che alimentare il brodo in cui prosperano le fazioni, le cordate, le piccole alleanze di potere.

È un peccato, soldato Schlein. Si può preferire la tua linea o quella di Bonaccini, ma era sano che chi – con le sue idee – era salito sul ponte di comando, poi quelle medesime idee avesse la forza, la volontà e la possibilità di farle vivere. Ed è insano che, chi la battaglia delle idee l’aveva vinta, debba restare intrappolato nella palude, vittima delle imboscate dei suoi stessi commilitoni.

Perché di una cosa si può stare sicuri: se non osa combattere la battaglia per le proprie idee, e rinuncia a debellare le correnti, alla prima difficoltà i cacicchi del suo partito faranno quello che hanno fatto con tutti i segretari. E non ci sarà nessun commando a salvare il soldato Elly (o la soldata Elly?).

La sinistra securitaria – Verso le elezioni europee

9 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Il trend del consenso elettorale in Europa è piuttosto chiaro: elezioni e sondaggi, da qualche anno, segnalano uno spostamento del baricentro dell’opinione pubblica verso destra. I segnali più recenti in questo senso vengono, oltre che dall’Italia, da Francia, Germania, Svezia, Finlandia, Grecia e, per certi versi, pure dalla Spagna e dalla Danimarca, due paesi dove la destra ha perso le elezioni ma il complesso delle forze di centro-destra ha, sia pure di poco, aumentato i consensi.

È ragionevole pensare che, alla base di tali spostamenti, vi sia l’aggravarsi del problema dei migranti. Un tema che noi italiani traduciamo automaticamente in “sbarchi”, ma che nella maggior parte dei paesi significa attraversamenti (terrestri) delle frontiere esterne dell’Europa e movimenti secondari fra Stati dell’Unione Europea, due fenomeni che allarmano sempre di più governi e opinioni pubbliche. Si può molto disquisire sulla gravità effettiva della situazione, dividendosi fra quanti vedono un’invasione in atto, e quanti preferiscono parlare di “invasione percepita”. Ma è del tutto inutile. Grave o no che sia la situazione, è inevitabile che il tema dei migranti sia al centro della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo. Tanto più che il voto è previsto per il prossimo mese di giugno, in una stagione che è la più favorevole agli attraversamenti del Mediterraneo.

A prima vista, l’irrompere del tema dei migranti favorisce la destra, che da decenni ne ha fatto un cavallo di battaglia. Ma non è scontato. Molto dipende dalla linea politica con cui le forze di sinistra, prima fra tutte il Pd, si rivolgeranno all’elettorato. Ove Elly Schlein dovesse insistere con la linea attuale, che minimizza la gravità del problema degli sbarchi, effettivamente l’esito più probabile sarebbe un rafforzamento dei partiti più ostili ai migranti, ossia Lega e Fratelli d’Italia. E forse pure una redistribuzione di voti interna della sinistra a vantaggio dei Cinque Stelle, che da sempre rappresentano la componente più critica sugli sbarchi e sulle Ong (ricordate i “taxi del mare” di Luigi Di Maio?).

Ma se Elly Schlein correggesse la rotta, prendendo sul serio il problema dei flussi migratori? Se il Pd ammettesse che la moltiplicazione dei salvataggi in mare e il rafforzamento delle strutture dell’accoglienza non possono essere la soluzione, e proponesse delle misure realistiche e praticabili?

In quel caso, l’accusa a Giorgia Meloni di non aver mantenuto le promesse di bloccare gli sbarchi, un’accusa ossessivamente ripetuta da tutti i media progressisti da quando è in carica il nuovo governo, potrebbe diventare credibile (ed elettoralmente remunerativa per la sinistra). Una parte degli italiani, delusi dall’impotenza dell’esecutivo, potrebbe convincersi che – in materia di controllo dei flussi migratori – la sinistra ha soluzioni più efficaci di quelle della destra.

Fantascienza?

Probabilmente sì, perché il Pd è saldamente in mano a un manipolo di fedeli della segretaria. Ma non perché sinistra e sicurezza siano due parole che non possono stare insieme. Una sinistra non sorda alla domanda di sicurezza proveniente dai ceti popolari esiste da tempo negli Stati Uniti (con i Blue dogsdel partito democratico) e nel Regno Unito (il cosiddetto Blue Labour), ma anche in Europa, dove le recenti affermazioni elettorali dei partiti socialisti in paesi come la Danimarca e la Slovacchia sono avvenute su severi programmi di controllo dell’immigrazione.

E in Italia?

In Italia basterebbe non dimenticare la nostra storia. Su posizioni nettamente securitarie si sono trovati in passato diversi sindaci di sinistra, come Flavio Zanonato a Padova, Sergio Cofferati a Bologna, lo “sceriffo” Vincenzo De Luca a Salerno. Ultra-securitari sono stati i comportamenti del ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) ai tempi del governo Gentiloni, così come i suoi recenti interventi a sostegno della linea Meloni-von der Leyen in Africa. E posizioni securitarie sono state assunte da intellettuali di sicura fede progressista, come lo psicanalista Massimo Recalcati o l’economista Carlo Cottarelli. Quest’ultimo, in un’intervista di poche settimane fa, è arrivato ad elogiare il “modello australiano”, proponendo di concentrare in Algeria i migranti salvati in mare “in attesa che siano sbrigate le pratiche burocratiche”.

Insomma, in Italia una sinistra securitaria esiste, anche nel Pd. Se non la vediamo, è perché la comunicazione del partito è monopolizzata dal cerchio magico della segretaria. E la minoranza, il coraggio di uscire allo scoperto non lo ha ancora trovato.

Sicurezza, tasse e reddito di cittadinanza. Intervista a Luca Ricolfi

10 Gennaio 2019 - di Luca Ricolfi

Politica

Domanda. Molti sindaci, da Leoluca Orlando di Palermo a Luigi De Magistris di Napoli a Federico Pizzarotti di Parma, sono in rivolta contro il governo Conte: non applicheranno il decreto Sicurezza. E ci sono regioni pronte a fare ricorso alla Consulta contro la legge. E’ in atto uno scontro istituzionale? O siamo in campagna elettorale?   Leggi di più

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