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Cherry picking

26 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che ogni governo si sforzi di enfatizzare i buoni risultati che ha ottenuto, e ogni opposizione metta in evidenza i punti critici è fisiologico. E tuttavia, in tanti anni di osservazione della società italiana, non mi era mai capitato di assistere a tanta intransigenza statistica. Le forze di governo sciorinano numeri confortanti, talora trionfali, le opposizioni elencano disastri e non riconoscono al governo nemmeno un risultato positivo.

La cosa interessante è che le tecniche argomentative utilizzate dagli uni e dagli altri sono le stesse, e si riducono a tre trucchi fondamentali. Il primo è il cosiddetto cherry picking (scegliere le ciliegie), che consiste nel selezionare solo le statistiche che supportano la propria tesi, e ignorare tutte le altre. Il secondo è la manipolazione dei termini di paragone: se vuoi dire che l’economia va bene (o va male) ti scegli i paesi e gli anni che supportano la tua tesi. Il terzo è l’attribuzione al governo in carica di risultati – positivi o negativi – maturati in decenni.

Di questi trucchi, specie dopo la pubblicazione del rapporto Istat, abbiamo avuto innumerevoli esempi. Al governo che rivendicava con orgoglio la crescita occupazionale (1 milione di posti di lavoro in 2 anni) è stato obiettato che il nostro tasso di occupazione è il più basso d’Europa, come se questo dato negativo non fosse da ascrivere ai governi precedenti. In materia di potere di acquisto dei salari l’opposizione ha voluto vedere solo il fatto che siamo ancora sotto il livello pre-covid, mentre il governo ha voluto vedere il fatto che nell’ultimo anno il potere di acquisto sta risalendo. Sullo spread la premier è incappata in una clamorosa cantonata (non è vero che un basso spread significa che “i nostri titoli di stato sono più sicuri di quelli tedeschi”) ma l’opposizione si è solo accanita sulla gaffe, ignorando accuratamente la sostanza, ovvero che i conti pubblici sono più in ordine che con il governo precedente.

Sull’immigrazione il governo ama fare il confronto 2024 su 2023 (diminuzione degli sbarchi), l’opposizione preferisce il confronto 2023 su 2022 (aumento degli sbarchi).

Ma come stanno effettivamente le cose? Arrivati a metà legislatura possiamo tentare un bilancio realistico, non troppo di parte?

Se guardiamo ai grandi parametri dell’economia, mi pare vi siano – nei primi due anni di governo – almeno tre successi difficilmente contestabili: la creazione di oltre 1 milione di posti di lavoro, la diminuzione del peso delle posizioni precarie (tempo determinato e part-time involontario), il crollo dello spread, con conseguente miglioramento del rating dell’Italia (appena confermato da Moody’s).

A fronte di tali successi, non si possono nascondere almeno altrettanti risultati poco soddisfacenti: l’aumento della pressione fiscale, la diminuzione della produttività, l’insufficiente recupero del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza contare la diminuzione della produzione industriale, su cui hanno inciso le politiche europee e la recessione in Germania.

Se dai problemi dell’economia passiamo alle questioni sociali, il quadro non è meno variegato. Gli sbarchi sono cresciuti nel 2023 rispetto al 2022, ma sono crollati nel 2024. Quanto alla povertà e all’esclusione sociale, i relativi indicatori durante il governo Meloni non sono molto diversi da quelli ereditati dal governo Draghi. Né granché si può dire della sanità e delle liste di attesa, cavallo di battaglia dell’opposizione, che sono un problema annoso ma difettano di statistiche sintetiche, capaci di cogliere in modo accurato i mutamenti che intervengono di anno in anno.

Se, infine, proviamo a collocare le cose in una prospettiva più lunga, non possiamo non notare che i grandi trend dell’economia e della società italiana prescindono dal colore dei governi. Perché il nostro problema numero uno, quello che rende illusorie le promesse di tutti i governi, è quello della produttività, che ristagna da almeno 30 anni e impedisce ogni progresso nel tenore di vita del paese. E il nostro problema numero 2, il calo demografico, è così grande e gravido di conseguenze (sulla previdenza e sulla sanità), che difficilmente può essere affrontato con successo da un solo governo e in una sola legislatura.

E’ il combinato disposto di questi due giganteschi problemi che alimenta il circolo vizioso dell’economia italiana: il ristagno della produttività impedisce agli incrementi occupazionali di tradursi in aumenti significativi del reddito;  la diminuzione della popolazione fa sì che quei modesti incrementi di reddito si spalmino su una base sempre più ristretta, con apparente lieve sollievo della popolazione rimasta nel paese; la tenuta del Pil pro capite nasconde il rallentamento del volume del Pil, che è il denominatore del rapporto debito/Pil, parametro cruciale per il governo di conti pubblici.

Forse, almeno su queste due grandi e vitali questioni – produttività e demografia – non sarebbe male che i partiti, tutti i partiti, provassero a definire una strategia condivisa.

[Articolo uscito sul Messaggero il 25 maggio 2025]

Melonomics – La necessità di una seconda fase

7 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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A oltre due anni dal suo insediamento, qual è la cifra del governo Meloni?

Se lasciamo da parte le opinioni degli osservatori più prevenuti, possiamo notare una certa convergenza su un concetto: il governo Meloni è stabile e rispettato, ma lo è anche, se non soprattutto, perché la sua politica economica è in sostanziale continuità con quella di Draghi e con le raccomandazioni dell’Europa. Su questo tipo di diagnosi, nei giorni scorsi, si sono ritrovate due voci molto diverse, entrambe autorevoli per la loro indipendenza, come quella dell’economista Veronica De Romanis e quella del filosofo Marcello Veneziani. È vero che quel che l’una e l’altro rimproverano alla Meloni è molto diverso (troppo poco europeismo l’una, troppo europeismo l’altro), ma resta il fatto che per entrambe il bilancio di questi primi due anni di governo non è esaltante.

Difficile dissentire sul fatto che, sul versante della politica economica, non abbiamo assistito a svolte clamorose, salvo ovviamente la rimodulazione del reddito di cittadinanza e la graduale cancellazione del Superbonus 110%. È vero, in particolare, che finora la pressione fiscale non è affatto diminuita (anzi gli ultimi dati Istat rivelano un lieve aumento), e resta fra le più alte d’Europa (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi). È vero anche che i dati del 2023 sulla povertà assoluta (i più recenti disponibili) non segnalano alcun miglioramento. Ed è vero, infine, che alcune promesse in materia pensionistica – come il superamento della legge Fornero e un forte innalzamento delle pensioni minime – sono state finora disattese.

E tuttavia, se guardiamo attentamente al rapporto Istat sui conti pubblici appena uscito, il quadro che emerge è assai meno immobilistico (e negativo) di quello fin qui richiamato. I conti pubblici sono in miglioramento, e nel 3° trimestre del 2024 il saldo primario, per la prima volta dalla fine del 2019, è tornato positivo (anche grazie allo stop al Superbonus). Gli investimenti fissi lordi delle Pubbliche Amministrazioni, in un solo anno, sono cresciti del 17.3%. Ma soprattutto: il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici è in crescita da 7 trimestri, e non è mai stato così alto dal 2012. E tutto fa pensare che a beneficiare di tale crescita siano stati soprattutto i ceti medio-bassi, che fin dall’inizio della legislatura sono stati i principali beneficiari di sconti, sgravi, decontribuzioni, bonus vari (come del resto è logico, con la “destra sociale” al governo).

Tutto bene, dunque?

Non esattamente. Ancora una volta non sono state trovate le risorse per abbassare la pressione fiscale sui ceti medi. Gli ultimi dati rilasciati dall’Istat segnalano la sofferenza delle imprese sui principali versanti: quota di profitto, investimenti, dinamica (calante) della produzione industriale.

Insomma, sul versante del sistema produttivo le cose non sembrano andare a gonfie vele. Si potrebbe obiettare: ma l’occupazione va benissimo, sono stati creati quasi un milione di posti di lavoro in 2 anni, il peso dei precari è diminuito, mai – dall’Unità
d’Italia – sono state così numerose le donne con un lavoro.

Ma è proprio qui il problema. Nell’era Meloni (e pure nell’era Draghi) l’occupazione cresce al ritmo del 2% l’anno, ma il Pil in termini reali cresce a un ritmo inferiore all’1%. E il divario è ancora più grande se al posto dell’occupazione mettiamo il numero di ore lavorate, che crescono a un ritmo ancora più elevato. In concreto questo significa una cosa soltanto: la produttività media del lavoro diminuisce, verosimilmente perché i nuovi posti di lavoro vengono creati soprattutto in settori a basso valore aggiunto per addetto.

Torniamo così all’annoso, anzi storico, problema dell’Italia nella seconda Repubblica: una dinamica troppo lenta della produttività, cui contribuiscono anche un insufficiente sostegno da parte dello Stato agli investimenti privati, nonché un livello
ancora troppo alto dell’imposta societaria e più in generale del cosiddetto total tax rate (imposte e contributi obbligatori totali sull’impresa).

Preso atto che, tutto sommato, la destra ha fin qui saputo ben onorare la sua vocazione sociale (un aspetto del tutto incompreso dalle forze di opposizione), forse è giunto il momento di chiedersi se, nella seconda metà della legislatura, non sia il mondo delle imprese, e il connesso problema della produttività, a meritare un’attenzione speciale. Anche perché è solo da lì, da un rilancio della crescita sostenuto dalla dinamica della produttività e non solo dagli incrementi occupazionali, che possiamo sperare di rimuovere i due macigni – debito pubblico e bassi salari – che da trent’anni pesano sulle sorti dell’Italia.

[articolo uscito sul Messaggero il 5 gennaio 2025]

Perché Meloni vola e Schlein arranca – L’insostenibile pesantezza del welfare

1 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Come di consueto, l’anno si conclude con bilanci e riflessioni sull’operato del governo. E gli immancabili sondaggi. I quali restituiscono un’immagine di sostanziale stabilità dei rapporti di forza fra i partiti. Il consenso a Giorgia Meloni è un po’ più basso che un anno fa, e sensibilmente minore che all’inizio della legislatura, ma la maggior parte degli osservatori considera fisiologica la fine della luna di miele della premier con l’elettorato. Che anzi pare essere durata ben più a lungo di quella di altri governi. A sinistra il Pd di Elly Schlein gode di buona salute, e conferma la sua netta supremazia rispetto ai Cinque Stelle.

Il dato di fondo, però, resta quello dei mesi scorsi: rispetto alle elezioni del 2022, i quattro partiti di centro-destra (Fdi, Fi, Lega, Noi moderati) hanno circa 4 punti di consenso in più. Si può discutere se questa crescita dipenda anche dalla scomparsa di Italexit (il partito di Gianluigi Paragone), e dal conseguente travaso di voti verso i partiti di governo, ma resta il fatto che tutti i sondaggi danno il blocco di centro-destra più forte di due anni fa.

La solidità del consenso verso il centro-destra lascia increduli molti dei suoi critici, che non riescono a capacitarsi che il governo di Giorgia Meloni, pur “non avendo fatto nulla”, continui a risultare popolare nei sondaggi. E tuttavia un certo stupore serpeggia pure tra gli osservatori meno prevenuti, che non possono non registrare che: (1) gli sbarchi continuano; (2) la pressione fiscale non diminuisce; (3) le liste di attesa negli ospedali non si sono accorciate; (4) la promessa di superare la legge Fornero non è stata mantenuta (5) gli aumenti delle pensioni sono irrisori.

Dunque la domanda resta: come mai il consenso a Meloni tiene?

Una possibile risposta è che l’elettorato è sempre più consapevole dei vincoli europei, non pretende la luna, e ha apprezzato l’orientamento di sinistra – cioè pro-ceti popolari – di tutte le manovre varate fin qui (non solo l’intervento sul cuneo fiscale, ma i molti bonus e sconti riservati ai ceti medio-bassi).

Una ulteriore risposta è che, in materia di immigrazione, all’elettorato non è sfuggito il calo degli sbarchi fra 2023 e 2024, ma soprattutto è piaciuta la volontà di non fermarsi con l’operazione Albania, a dispetto dell’azione contraria della magistratura.

Ma forse la vera risposta è che molti elettori si rendono conto che lo stato penoso della sanità non dipende (solo) da questo governo, e che qualsiasi governo futuro potrà convogliare risorse verso la sanità solo se avrà il coraggio (o l’incoscienza?) di aumentare sensibilmente la già altissima pressione fiscale.

E qui veniamo, forse, al vero nodo della tenuta di Giorgia Meloni e del suo governo.

Se il consenso regge non è solo perché la gente riconosce alcune cose buone fatte fin qui, ma perché non si vede alcuna alternativa all’orizzonte. Le critiche di Elly Schlein e di Giuseppe Conte possono anche essere (qualche volta) retoricamente efficaci, ma mancano di tramettere agli elettori il messaggio fondamentale, ovvero la risposta alla domanda: ma se al governo ci foste voi, che cosa fareste, con i vincoli di finanza pubblica dati?

Questa tendenziale impotenza programmatica dell’opposizione non è casuale, ma dipende dalla scelta di puntare quasi tutte le carte su sensibili aumenti di spesa pubblica corrente, innanzitutto in materia di sanità e scuola, senza però spiegare chi dovrebbe sostenere il peso dei sacrifici necessari per un’ulteriore espansione del welfare: una nuova patrimoniale, permanente ed esosa, come in Francia? tagli alle spese militari, mentre l’Europa (e Trump!) ci chiedono di aumentarle? una spending review lacrime e sangue? Per non parlare della transizione green, che sta mettendo in ginocchio l’industria dell’auto europea, e non è mai stata rinnegata dalle forze politiche progressiste.

Insomma, per ora la vera forza del governo Meloni non sembra risiedere nei suoi successi (che riguardano prevalentemente la politica estera), quanto nel vuoto di idee delle opposizioni. Un vuoto che non dipende solo dal deficit di cultura politica della sua classe dirigente, drammaticamente meno preparata di quella dell’antico Partito Comunista, ma poggia sulla insostenibilità – economica e sociale – di qualsiasi programma il cui pilastro sia l’espansione della spesa pubblica.

[articolo uscito sulla Ragione il 31 dicembre 2024]

Occupazione, redditi e produttività – Sostenere il ceto medio?

2 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Che la parola d’ordine della manovra di quest’anno sia “meno tasse al ceto medio” è comprensibile. Sorprendenti, semmai, erano state le manovre precedenti, decisamente sbilanciate nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Dopo un biennio di
politiche di sinistra, è normale che un governo di destra faccia anche qualcosa di destra. Nella prossima manovra, oltre alla conferma delle misure pro ceti bassi, avremo qualche modesta misura a favore dei ceti medi, e forse pure dei ceti alti.

Niente di eclatante, niente di strano. Quel che colpisce, piuttosto, è il ripetersi – da decenni – del medesimo schema: ricerca disperata di “risorse” da ogni rivolo del bilancio pubblico, constatazione che le risorse non bastano a fare quel che si vuol fare, parziale ricorso al deficit per finanziare le misure-bandiera della manovra. Il tutto aggravato, per il futuro, dalla necessità di rispettare impegnativi “piani di rientro” del debito pubblico.

Ma può un governo, un qualsiasi governo, andare avanti così?

Certo che può, e infatti tutti i governi da trent’anni vanno avanti così. La vera domanda è se noi siamo consapevoli che, per questa strada, nessuno dei problemi che tutte le forze politiche denunciano – sanità, scuola, povertà – potrà mai essere risolto, chiunque governi.

L’impressione è che non lo siamo, consapevoli. Se lo fossimo, la smetteremmo di discutere di “politiche palliative”, e ci concentreremmo sulle politiche radicali o “agonistiche” (così le chiama la politologia Chantal Mouffe), ossia su politiche che
provano ad aggredire i problemi alla radice, anche a costo di pagare qualche prezzo in termini di consenso.

Ma qual è la radice dei nostri problemi?

Dipende dalla prospettiva che adottiamo. In astratto la radice è il debito: se il debito fosse al 60% del Pil, anziché al 140%, ogni anno risparmieremmo 40-50 miliardi di interessi sul debito, e con quel “tesorone” potremmo affrontare molti dei nostri
problemi. Peccato che, per arrivare fin lì, ci vorrebbero decenni di austerità, alla fine dei quali potremmo ritrovarci più poveri di oggi.

Se cambiamo angolatura, e diamo il debito come incomprimibile o poco comprimibile, la vera radice dei nostri problemi diventa un’altra. A debito invariato, il nostro guaio è semplicemente il Pil, che è troppo piccolo sia rispetto al debito, sia rispetto al numero di abitanti. Una politica “agonistica”, non meramente palliativa, dovrebbe innanzitutto affrontare il problema del livello troppo basso del Pil pro capite.

Ma perché il nostro Pil pro capite è basso?

Qui è essenziale distinguere due ragioni. La prima è che, da molti decenni, il nostro tasso di occupazione è fra i più bassi dei paesi avanzati. Meno persone che lavorano significa meno redditi che entrano nei bilanci famigliari: la prima causa delle difficoltà economiche di tante famiglie non è il basso livello dei salari orari, ma il fatto che a lavorare sia solo il capofamiglia.

La seconda ragione del nostro basso Pil pro capite è la dinamica della produttività, che ristagna da circa trent’anni. Quando si lamenta che, negli ultimi decenni, i salari reali sono aumentati un po’ dappertutto in Europa, ma in Italia sono rimasti al palo, si
dimentica che la precondizione per l’aumento dei salari orari è l’aumento della produttività del lavoro, che a sua volta dipende in modo cruciale dal progresso organizzativo e dagli investimenti in tecnologie materiali e immateriali.

Rispetto a questi due fattori di crescita del Pil – occupazione e produttività – la situazione del nostro paese è marcatamente asimmetrica. Sul versante occupazionale, le cose vanno benissimo, perché l’occupazione cresce al ritmo annuo di 500 mila
posti, il che significa quasi il 2% all’anno (un risultato particolarmente soddisfacente, perché accompagnato da una riduzione del tasso di occupazione precaria). Sul versante della produttività, comunque la si misuri (produttività totale dei fattori, produttività del lavoro, produttività del capitale), le cose vanno decisamente meno bene: il ritmo di crescita resta ampiamente inferiore a quello degli altri maggiori paesi, con ovvi effetti negativi sulla dinamica salariale.

Se la politica volesse andare alla radice del problema Italia, continuerebbe con le politiche para-keynesiane di sostegno dell’occupazione fin qui adottate, ma le carte residue le giocherebbe sul versante della produttività, con incentivi alle imprese che
innovano e investono in tecnologia. Perché il rischio, se non si agisce anche su questo versante, è che l’aumento dell’occupazione anziché trascinare il sistema nasconda la stagnazione della produttività, che è il nostro vero, troppo spesso dimenticato, tallone
d’Achille.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]

Aborto. Difendere la legge 194?

19 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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“Difendiamo la legge 194” è diventato, da quando la destra è al governo, uno degli slogan più ripetuti da gruppi femministi e associazioni di donne, spesso in occasione di mobilitazioni di piazza. E ora pure in occasione del G7, dove è toccato a
Emmanuel Macron rimarcare la nostra (presunta) arretratezza in materia di aborto.

L’accusa al governo, mille volte ripetuta nelle piazze, è di voler smantellare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, in vigore dal 1978. Alcuni si spingono a sostenere che il governo l’avrebbe già modificata, quella sacrosanta legge 194, e di
averlo fatto con un emendamento alla legge stessa che aprirebbe i consultori alle associazioni pro-vita.
La tesi della modificazione della legge è chiaramente campata per aria, perché la legge 194 non è stata toccata di una virgola. Quel che è vero, però, è che il governo ha fatto approvare un emendamento al decreto PNRR che – di fatto – apre le porte dei consultori alle organizzazioni pro-vita. La cosa curiosa è che questa apertura non fa che dare attuazione all’articolo 2 della
legge 194: “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche
aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. Dunque il governo non ha affatto attaccato la legge 194, semmai si è mosso per darle attuazione.

E qui veniamo al punto cruciale. A giudicare da come ne parlano, si direbbe che le paladine della Legge 194 non l’abbiamo mai letta. Se lo avessero fatto, si sarebbero accorte che tutta l’impostazione della legge è marcatamente pro-vita e anti-aborto.
Nell’impianto della 194, la scelta di abortire è una extrema ratio, che i consultori dovrebbero scoraggiare in tutti i modi, analizzando le cause alla radice della volontà della donna di interrompere la gravidanza, ed eventualmente prospettando alternative.

Bene. Se le cose stanno così, la sinistra e le femministe dovrebbero smettere di difendere a spada tratta la 194, come se fosse una sorta di linea Maginot contro i propositi liberticidi delle destre-destre retrograde e oscurantiste. Perché quel che si teme possano fare i gruppi pro-vita è quel che già – in teoria almeno – dovrebbe fare il personale dei consultori.

Opporsi all’ingresso delle associazioni pro-vita nei consultori ha senso per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché non vi è alcuna norma che garantisca che dipendenti e volontari abbiamo qualificazioni adeguate. In secondo luogo, perché non
vi è alcuna garanzia che i membri di tali associazioni non esercitino pressioni indebite, o mettano in atto colpevolizzazioni delle donne. Ma se ci si oppone all’ingresso delle associazioni pro-vita, allora, per coerenza, è all’impianto complessivo della legge 194 che bisognerebbe porre mano, a partire dall’articolo 2.

Dare modo alle donne di riflettere sul bivio che hanno davanti a sé è più che ragionevole, ma solo se i loro interlocutori sono professionisti preparati e ideologicamente neutrali. Altrettanto ragionevole sarebbe aumentare i gradi di libertà delle donne, affrontando finalmente il problema dei medici obiettori di coscienza, e facendo sì che la scelta di abortire non sia dettata da mera mancanza di risorse economiche.

È su questo, non sull’interruzione di gravidanza in Costituzione, che sarebbe il caso di imitare la Francia, con le sue politiche di sostegno alla maternità, ben più generose delle nostre. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, la maggior parte
dei diritti non sono questione di inclusione/esclusione (come nel caso del diritto di voto), ma più prosaicamente di avere/non avere le risorse per renderli effettivi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 18 giugno 2024]

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