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Requiem per il mito dei due Stati

31 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non bastavano le divisioni su tutto il resto. Ora, grazie alla mossa di Macron (annuncio che a settembre la Francia riconoscerà lo stato di Palestina), l’Europa è ancora più divisa di prima pure sulla Palestina. Fino a pochi mesi fa nessuno dei grandi paesi europei riconosceva lo Stato palestinese, ora Spagna e Francia controbilanciano le posizioni più prudenti (o timide, secondo i critici) di Germania, Italia, Regno Unito. Su una cosa, tuttavia, la maggior parte dei governi europei (e più in generale di quelli occidentali) pare essere d’accordo: in prospettiva, la soluzione non può che essere quella dei “due Popoli, due Stati”. Anche l’Italia è su questa linea. In un’intervista a Repubblica la premier si è spinta a formulare il dubbio che “il riconoscimento dello Stato di Palestina, senza che ci sia uno Stato della Palestina, possa addirittura essere controproducente” in quanto distoglierebbe l’attenzione dal vero problema, che è di renderlo effettivamente possibile, uno Stato palestinese.

E tuttavia anche questa posizione, e a maggior ragione quella dei critici di Giorgia Meloni, mi sembra eludere il problema preliminare: quali dovrebbero essere i confini di questo fantomatico Stato di Palestina?

Alcuni parlano dei confini stabiliti dall’ONU nel 1947 (un po’ meno del 50% della Palestina storica ai Palestinesi), confini che già nel conflitto del 1948 Israele aveva modificato  a ulteriore proprio favore. Altri parlano dei “confini del 1967”, intendendo quelli anteriori alla “Guerra dei 6 giorni”, ovvero i confini emersi alla fine del conflitto del 1948, particolarmente favorevoli a Israele. Altri ancora si accontenterebbero di assegnare allo Stato di Palestina la striscia di Gaza e l’intera Cisgiordania (la cosiddetta West Bank), oggi quasi interamente (per più dell’80%) controllata da Israele. Senza parlare dello spinosissimo problema di Gerusalemme, che Israele si è annessa ma che l’Onu avrebbe voluto sotto controllo internazionale.

Tutti però sembrano ignorare che ciascuna di queste soluzioni, compresa l’ultima – la più favorevole a Israele – è di fatto impraticabile. Gli Israeliani non possono cedere di nuovo Gaza (da cui si erano ritirati nel 2005) senza la previa distruzione di Hamas. Quanto alla Cisgiordania, troppo spesso si dimentica che è un labirinto controllato dall’esercito israeliano (la zona A, l’unica interamente soggetta all’autorità palestinese, è puntiforme, completamente priva di continuità territoriale, e copre meno del 20% del territorio). Se davvero volesse cedere l’intera Cisgiordania ai palestinesi, Israele dovrebbe convincere centinaia di migliaia di coloni, blanditi negli ultimi decenni a fini elettorali, ad abbandonare terre che ormai considerano loro.

Insomma, vie di uscita ragionevoli e praticabili non se ne vedono. Anche se l’intera comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, fosse favorevole alla soluzione dei “due Popoli, due Stati”, resterebbero il dato di fatto che, a dispetto dei molti crimini di guerra commessi, Israele non è stata in grado di cancellare Hamas, e il dato di realtà per cui, anche senza Netanyahu, sarà difficilissimo estirpare i coloni israeliani dalla Cisgiordania.

Ecco perché baloccarsi con la formula “due Popoli, due Stati”, pur ragionevole in linea di principio, è una ipocrisia. Il vero dramma dei due popoli che si contendono la Palestina sono i governanti che si sono scelti e che, soprattutto negli ultimi 20 anni, hanno fatto deragliare il processo di pace, già molto fragile dopo gli accordi di Oslo (1993). La striscia di Gaza sarebbe un posto fiorente se i miliardi dollari che la comunità internazionale le ha destinato negli ultimi 20 anni fossero stati usati per il benessere dei suoi abitanti anziché per rimpinguare gli arsenali di armi contro Israele. La Cisgiordania sarebbe oggi pronta per far nascere lo Stato palestinese se dopo gli accordi di Oslo gli israeliani vi avessero progressivamente ridotto i propri insediamenti, anziché moltiplicarli.

Ora Gaza è distrutta, e la Cisgiordania è ipotecata. Noi continuiamo a parlare dei due Stati, della crudeltà di Israele, del dramma dei palestinesi. Ma nessuno osa ammettere che nessuna vera soluzione è alle porte e che, anche se Hamas si arrendesse e Netanyahu andasse in prigione, la loro eredità è così pesante da ipotecare il futuro prossimo. Speriamo non anche il futuro remoto.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2025]

Il rebus demografico

28 Luglio 2025 - di Luca Ricolfi

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Facciamo sempre meno figli, è vero. E non siamo solo noi italiani a farne sempre di meno. Ma sul perché ciò accada le opinioni divergono, anche fra gli specialisti. Anzi, soprattutto fra gli specialisti. Nel mio lavoro di sociologo, raramente mi è capitato di incontrare un fenomeno per spiegare il quale ci fossero opinioni così numerose e divergenti (per la precisione, mi è capitato una sola volta, con l’enigma tuttora insoluto del crollo degli omicidi in America dopo il 1990).

Il punto su cui quasi tutti concordano è quello ricordato da Prodi nel suo articolo di ieri su questo giornale: la tendenza è generale, coinvolge paesi ricchi e paesi poveri, classi alte e classi basse, città e campagne. Ebbene, già questo primo punto di partenza ammette eccezioni significative. Fra i paesi principali del mondo (popolosi almeno come l’Islanda) ve ne sono ben 15 in cui nell’ultimo decennio il tasso di fecondità totale (numero di figli per donna in età fertile) anziché diminuire è aumentato. E di questi 15 paesi “anomali” ben 8 sono nell’Unione Europea, altri 4 sono ex membri della Jugoslavia, mentre gli altri 3 facevano parte dell’Unione sovietica. Degli 8 paesi UE 3 sono occidentali (Portogallo, Grecia, Cipro), gli altri 5 sono ex comunisti (Romania, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Slovacchia). Insomma, pare che l’Europa sia l’unica parte del mondo in cui è in atto una controtendenza significativa.

Ma veniamo all’Italia, il cui tasso di fecondità totale è circa 1.2 (solo 4 paesi UE hanno un tasso di fecondità minore). Perché è più basso di quello della maggior parte dei paesi europei?

La diagnosi che si ascolta più di frequente chiama in causa i cosiddetti fattori strutturali: reddito pro capite insufficiente, tasso di occupazione femminile bassissimo, mancanza di asili nido. Di qui la terapia: se si vuole invertire la tendenza occorre moltiplicare i benefit a favore delle famiglie che desiderano avere figli ma non se lo possono permettere. Il ragionamento filerebbe, se non vi fosse un’obiezione grande come una casa: se la ragione della bassa natalità italiana sono le condizioni strutturali delle famiglie, come si spiega il fatto che il tasso di natalità sia altrettanto basso in paesi come il Lussemburgo o la Finlandia, dove il reddito pro capite è più alto, gli asili nido non mancano e le donne lavorano?

Un’obiezione che viene rafforzata da un’altra osservazione: se guardiamo alle tendenze degli ultimi 10 anni, il calo che si osserva in Italia è alquanto minore di quello che si osserva in Francia, il paese invariabilmente additato a modello da imitare. Di qui la domanda: se non ci riesce la Francia che ha tutte le carte in regola, come può sperare l’Italia di fermare il calo delle nascite?

È a questo punto che, in molte discussioni sul problema demografico, si affaccia la diagnosi alternativa: è la cultura che fa la differenza. Il tasso di fecondità scenderebbe soprattutto perché i modelli culturali cambiano. Individualismo, narcisismo, fluidità dei rapporti, primato dell’autorealizzazione, renderebbero sempre più problematico il progetto di costruire una famiglia stabile e allevare dei figli: se quando eravamo più poveri facevamo più bambini non è solo perché non c’erano gli anticoncezionali ma è perché eravamo meno centrati su noi stessi.

Il punto forte di questa spiegazione è la sua autoevidenza (chiunque si rende conto che viviamo in un mondo molto più individualista di quello di ieri). Il punto debole è che nessuno è in grado di individuare con precisione le culture che competono nel mondo e, anche quando si prova a farlo, si trova sempre che le differenze fra paesi all’interno della medesima area culturale sono molto grandi, comunque più ampie di quelle fra macro-aree culturali (Europa occidentale, paesi europei ex comunisti, paesi islamici, paesi cattolici, eccetera). Fra le società avanzate (ricche e democratiche), ad esempio, si va dal caso di Israele, che ha un tasso di fecondità prossimo a 3, a quello della Corea del Sud che ha un tasso di 0.72. Ma anche restringendo l’analisi alle società europee di tradizione occidentale si va dal minimo di Malta (1.06) al massimo della Francia (1.66). Insomma, sicuramente essere una società occidentale moderna conta, ma le particolarità nazionali sembrano ancora più influenti.

Che fare, dunque, se si vuole invertire il trend demografico?

Difficile dirlo, perché il rebus demografico è tutt’altro che risolto. E finché non ne saremo venuti a capo sarà difficile valutare costi e benefici di qualsiasi politica.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 luglio 2025]

A proposito dell’estrema destra in Europa – Fascismo o indietrismo?

12 Maggio 2025 - di fondazioneHume

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Secondo la maggior parte degli osservatori e degli studiosi di politica quello cui stiamo assistendo in Europa è una (ulteriore) avanzata elettorale dell’estrema destra. Qualcuno, pensando agli ultimi sondaggi che indicano l’AfD (Alternative für Deutschland) come primo partito della Germania, arriva a parlare di un pericolo neo-nazista incombente. Né molto più rassicuranti appaiono le notizie che arrivano dalla Francia (successi di Marine Le Pen), dal Regno Unito (successi del trumpiano Nigel Farage), dalla Romania (successo dell’euroscettico George Simion, bollato come “di estrema destra”).

Da questa diagnosi derivano, tipicamente, due contromosse politiche: primo, l’invito all’opinione pubblica a mobilitarsi contro l’onda nera neo-fascista o neo-nazista montante; secondo, il tentativo di usare la legge per impedire a determinati leader e/o a determinate forze politiche di partecipare alla competizione elettorale. Il risultato, tuttavia, per ora è soltanto l’ulteriore crescita di consensi verso i partiti bollati come di estrema destra.

Qui vorrei proporre un’ipotesi: e se l’avanzata di queste forze dipendesse anche dalla nostra pigrizia di analisti? Detto in altre parole, siamo davvero sicuri che l’etichetta di partiti di “di estrema destra”, o peggio ancora di movimenti “neo-nazisti”, colga l’essenza della protesta che avanza in Europa? Siamo sicuri che non esista una definizione più aderente alla realtà? E se, alla base del successo di certe forze politiche, vi fosse anche la nostra incapacità di comprenderne la natura?

Se proviamo a dare una rapida occhiata ai programmi, agli slogan, alle dichiarazioni dei leader, troviamo fondamentalmente quattro idee-forza. Primo, l’immigrazione irregolare è un male che va combattuto, anche con le espulsioni e i rimpatri. Secondo, la cultura woke e il politicamente corretto sono imposizioni arbitrarie e inaccettabili. Terzo, il green deal voluto dalle autorità europee danneggia i ceti popolari. Quarto, il sostegno militare all’Ucraina e il riarmo europeo sono scelte sbagliate e pericolose.

Difficile dire che cosa tenga insieme questi quattro punti, ma mi pare evidente che la connessione con fascismo e nazismo è alquanto debole. Certo, si può arditamente sostenere che chi è contro l’immigrazione irregolare crede – come molti fascisti e nazisti hanno creduto – nel primato della propria etnia, ma altrettanto bene (anzi molto più plausibilmente) si può pensare che chi invoca remigration e rimpatri abbia in mente problemi di sicurezza, o patisca la concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi sociali. Quanto all’ostilità verso le politiche green o ai timori per la deindustrializzazione, problemi tipici del nostro tempo, è evidente che nulla hanno a che fare con il fascismo e il nazismo. Infine, il tema del riarmo europeo: come non vedere che l’estrema destra in Europa, con il suo anti-interventismo bellico, è semmai l’esatto contrario dell’espansionismo e del militarismo nazi-fascista?

Se ne potrebbe concludere che, in realtà, non vi è nulla che plausibilmente colleghi fra loro le quattro idee-forza delle formazioni che i politologi classificano come di estrema destra. E che il loro essere “di destra” poggia sul fatto che tutte e quattro sono contrarie a idee sposate dalla sinistra, che di norma difende l’immigrazione, il green deal, il politicamente corretto, il riarmo dell’Europa. Ma sarebbe una conclusione affrettata, molto affrettata. Intanto, perché ci sono formazioni politiche di sinistra (ad esempio la BSW di Sahra Wagenknecht, o i Cinque Stelle), e intellettuali di sicura fede progressista (ad esempio filosofi marxisti come Michéa e Žižek) che, in parte o in toto, sottoscrivono quelle quattro idee affrettatamente squalificate come di estrema destra, o fasciste, o naziste. E poi perché, a pensarci bene, qualcosa che tiene incollate fra loro quelle quattro idee c’è. Ma che cosa?

Fondamentalmente, la nostalgia. La credenza che il progresso non sia tale, e l’idea che il mondo di ieri fosse migliore, o perlomeno più abitabile, di quello di oggi. Molti di coloro che votano per i partiti maledetti, squalificati dall’establishment europeo, semplicemente pensano che ci stiamo allegramente incamminando verso il baratro, e che sarebbe bello tornare a un mondo più semplice; un mondo in cui regna ancora la pace, ci sono pochi immigrati, le fabbriche di automobili non chiudono, la gente può parlare come vuole, il progresso tecnologico non ci costringe a una continua rincorsa. Il potente motore che scalda gli animi della presunta “onda nera” che avanza in Europa è prima di tutto il rimpianto, che conduce a idealizzare il mondo di ieri e a temere quello di oggi.

Possiamo continuare a chiamarli fascisti, o nazisti, o estremisti di destra, o reazionari. Ma è una scorciatoia che ci fa perdere l’essenziale, ossia il tratto che accomuna le loro  manifestazioni di destra e di sinistra: la profonda sfiducia nell’idea di progresso dell’establishment europeo, unita alla mesta consapevolezza che indietro non si torna. Se dovessi proporre un termine, suggerirei di chiamarli regressisti. O, ancora meglio, indietristi. Come, sia pure in un modo tutto suo, lo era l’inclassificabile Pier Paolo Pasolini, convinto che lo sviluppo non fosse progresso e il mondo di ieri fosse migliore di quello oggi.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 maggio 2025]

A proposito del riarmo europeo – Pronti per il 2030?

26 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Anch’io, come il ben più ascoltato Fausto Bertinotti, detesto la ossessiva ripetizione della formula latina si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra), variamente fatta risalire nientemeno che a Platone, Cicerone e altri. E la detesto non perché io creda, come Bertinotti, che se ti riarmi poi le armi le usi, ma più semplicemente perché non credo nelle formule di (presunta) saggezza usate in ambiti complessi, come quello militare e strategico.

In realtà entrambe le formule sono state vere, e non sappiamo quale si applichi alla situazione di oggi. La proliferazione degli armamenti nucleari ha garantito 70 anni di (relativa) pace, ma potrebbe riservarci la terza guerra mondiale fra qualche tempo. Il riarmo tedesco degli anni ’30 ci ha regalato la seconda guerra mondiale, mentre di quello – non solo tedesco – annunciato in questi giorni nessuno è in grado di dire se dissuaderà la Russia dall’attaccare l’Europa, o se sarà la miccia che farà deflagrare una nuova guerra sul Continente.

Insomma, sono scettico. E alquanto stupito sia delle certezze di Marco Travaglio (cui “non risulta” che Putin voglia invaderci) sia di quelle di Prodi (il quale sa che, se non ci riarmiamo, saremo invasi dalla Russia).

Quello che più di tutto mi sorprende, però, sono le convinzioni che, da un po’ di tempo, vengono fatte circolare dai fautori del riarmo europeo. Secondo alcune fonti (ad esempio i servizi segreti tedeschi), riprese da vari organi di stampa, l’Europa subirà un attacco russo entro la fine del decennio. Di qui il piano Readiness 2030, che auspica e pianifica un rapido riarmo europeo in modo da essere pronti per il 2030, in vista di un probabile attacco russo.

Perché ne sono sorpreso?

Perché non conosco la risposta a due ordini di domande.

Primo. Come mai stiamo già parlando di riarmo, senza aver chiarito con gli Stati Uniti il futuro della Nato? Siamo sicuri che gli Trump voglia uscire dalla Nato, e che il Congresso glielo permetterebbe? (una legge del 2023 obbliga il presidente a passare da un voto del Congresso, con maggioranza di due terzi). Il problema posto da Trump (per inciso: già dal 2016, non da oggi) è solo quello dei costi della difesa, troppo onerosi per gli Usa, o è di alleanze? Lo sganciamento degli Stati Uniti sarà graduale, o è già una realtà di fatto? Mi pare che le risposte a queste domande facciano grande differenza. Se fosse solo un problema di costi, ad esempio, sarebbe molto più efficiente pagare la permanenza delle basi americane in Europa piuttosto che rafforzare gli eserciti nazionali e/o dare l’arma nucleare alla Germania. Come mai la sinistra, così preoccupata della “onda nera” nazista, non ha ancora alzato un sopracciglio sui rischi di un riarmo tedesco gestito dalla Afd? Possibile che la Afd sia un mostro temibile quando promette l’espulsione dei migranti irregolari, e non lo sia quando si profila l’eventualità di una Germania nazisteggiante e armata fino ai denti?

Secondo ordine di domande. Tutti concordano sul fatto che, anche nella più efficiente delle ipotesi, il riarmo dell’Europa non ne aumenterà significativamente il potenziale difensivo prima di qualche anno. Ma allora: se è vero che Putin ci vuole attaccare entro il 2030 (cosa che nessuno sa, ma molti fingono di sapere), ed è vero che stiamo facendo di tutto per essere prontissimi per il 2030, perché mai Putin dovrebbe aspettare 5 anni per attaccarci? Se davvero ha intenzione di farlo, il messaggio che gli mandiamo è di sbrigarsi, prima che diventiamo in condizione di respingerlo.

In breve: siamo sicuri che, prima di annunciare con le fanfare il riarmo europeo (come sta facendo il sempre meno pacioso Prodi), non sarebbe meglio fare due chiacchiere con Trump, e attendere di conoscere gli accordi di pace sull’Ucraina?

[articolo uscito sulla Ragione il 25 marzo 2025]

Sulla manifestazione del 15 marzo – Il manifesto di Ventotene, contro il pluralismo e la democrazia

21 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto. Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”. In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini. E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata. Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”. In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto. Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni. I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”. Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”. Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

Insomma, spiace dirlo ma il Manifesto di Ventotene è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea. Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico. Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, s crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene. Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza. Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025]

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