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Un altro falso pluralista, Massimo Recalcati

10 Ottobre 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Sono convinto dell’inutilità di questo commento all’articolo di Massimo Recalcati, La sinistra e le parole da ritrovare uscito su ‘La Repubblica’ del 30 settembre u.s. A volte, però,  il messaggio nella bottiglia può avere un valore di testimonianza. Per i posteri altrimenti indotti a credere che lo spirito di un’epoca, della nostra epoca, condizioni tutti coloro che l’hanno vissuta. Recalcati è uno dei tanti intellettuali che, il giorno dopo la sconfitta del PD, vorrebbero ridare un’anima alla sinistra, facendole ritrovare le parole giuste. Quanto scrive è spesso condivisibile. È verissimo, ad es., che “se gli italiani hanno votato per Giorgia Meloni non significa che essi desiderino il ritorno del fascismo” e che, pertanto, “il grande collante dell’antifascismo non è più sufficiente a definire l’identità politica e culturale della sinistra” (scritto su un quotidiano come ‘La Repubblica’ ferma alla linea politico-culturale di Ezio Mauro non è poco). Il disaccordo comincia quando Recalcati parla della destra, delle sue parole d’ordine (Dio, Patria e Famiglia) “vincolate a una ideologia patriarcale al tramonto” della difesa degli interessi nazionali, presidio dei confini, della tutela dell’ordine sociale.

Per lo psicoanalista si tratta di valori arcaici ma che nutrono quella nostalgia che ha fatto vincere il centro destra e alla quale il PD non ha saputo contrapporre ‘la propria identità ideale’. Quest’ultima avrebbe richiesto un’idea alternativa di Dio, Patria, Famiglia ma non s’è visto nulla del genere. Per quanto riguarda Dio, si trattava, in so-stanza, di proseguire sulla via indicata dai Lumi: “credere nella ricerca, nell’istruzione, nel pluralismo contro ogni forma idolatrica di dogmatismo”. Per quanto riguarda la patria, la sinistra avrebbe dovuto “ripensare radicalmente l’Europa come nuova patria”.

E infine, venendo alla famiglia, si doveva chiaramente emancipare il legame famiglia-re dalla “logica materialistica della biologia”, liberandosi dagli stereotipi retorici che l’esperienza clinica e la medicina avrebbero spazzato via. Insomma è Monica Cirinnà che avrebbe dovuto guidare il PD in queste elezioni.

Intendiamoci, trovo legittimi tutti gli obiettivi per i quali si battono Recalcati e il mainstream culturale che ormai domina negli Atenei, nella stampa, nei mass media. E qualche volta li condivido, come nella richiesta di una legge umana sul fine vita. Ma il punto non è questo, bensì il falso pluralismo di cui si ammanta Recalcati. Se avesse letto Isaiah Berlin si sarebbe reso conto (forse) che i valori sono tanti e che “la piena dignità politica dei propri avversari” che, giustamente, vuole riconosciuta dalla sinistra, comporta comprenderne il senso e il loro radicamento nell’umano, rinunciando a considerarli spazzatura della storia. Porto qualche esempio: “la patria non si può identificare con il suolo e con il sangue”. “Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?/Non è questo il mio nido/ ove nudrito fui sí dolcemente?/Non è questa la patria in ch’io mi fido/madre benigna et pia,/che copre l’un et l’altro mio parente?”, cantava Francesco Petrarca nella sua canzone All’Italia., scolpendo, nei suoi bellissimi versi un sentimento universale.

Certo, per il neoilluminista conta solo la Gesellschaft—la societas in cui esseri razio-nali si accordano, mediante contratti equi, per soddisfare i loro interessi e garantirsi reciproci diritti; si veda, del resto, la voce ‘Patria’ nel Dizionario Filosofico di Voltaire; ma nel cuore del tradizionalista sta la Gemeinschaft—la communitas fondata non sul principio di prestazione (‘do ut des’) ma sul principio della solidarietà, dell’ ‘uno per tutti e tutti per uno’. Non sono valori entrambi? Certo si può discutere sul modo in cui, nell’uno e nell’altro campo, vengono fatti valere: la comunità, è stato rilevato più volte, porta al Lager e la ‘società’ al Gulag, ma qui stiamo sul terreno dell’etica politica non della storia.

Altro esempio: pensare che una famiglia debba essere composta di genitori di sesso diverso, ovvero eticizzare il dato biologico può non trovare tutti d’accordo e si può capire ma perché anche qui non riconoscere che ci troviamo dinanzi a valori forti che si contrappongono ad altri che stanno, a ragione o a torto, diffondendosi nel mondo (a Cuba, dove al tempo di Fidel Castro venivano giustiziati i gay, un referendum popolare ha riformato il diritto civile)? Si dirà che ormai antropologia e medicina hanno dimostrato che i costumi, alle origini di comportamenti e di pregiudizi che non si fondano sulla scienza, non debbono essere tollerati dai codici ma questo non è puro e semplice cognitivismo etico ovvero la deduzione dei doveri morali dai comandi di un’entità superiore che li impone—ieri Dio, oggi la Scienza? Ho forti dubbi sul concetto di ‘normalità’- specie in campo medico-antropologico–ma anche se le scienze all’unanimità dovessero definirlo una volta per sempre resterebbe la mia libertà di proclamare: “Tutti lo sono ma io non voglio essere normale”. Non era, in fondo questa, la lezione di uno dei pochi liberali espressi dal Partito d’Azione, Guido Calogero?

Insomma ho l’impressione che l’esaltazione del pluralismo, nella nostra cultura, sia pura e semplice retorica, purtroppo non innocua. In realtà, ci è impossibile pensare che i nostri progetti politici non siano superiori a quelli dei nostri avversari ideologici, rinunciando “all’idea ‘religiosa’” della nostra “superiorità morale”. E forse la causa di ciò sta nella riluttanza ad ammettere che i valori non solo sono tanti, come si è detto, ma spesso risultano conflittuali e incomponibili. Le ‘benedizioni della modernità’, come le chiamava il grande Albert Hirschman—l’Europa, l’atlantismo, la globalizza-zione, il modello americano—non sono tali per tutti e molti ne farebbero volentieri a meno. Nostalgia di un mondo perduto? E se così fosse? Non c’è anche un diritto alla nostalgia? Democrazia non è ‘andare sempre avanti’ ma è anche prendere atto che qualcuno vorrebbe fermarsi se non tornare indietro: contano i voti e le maggioranze. Peraltro le democrazie che storicamente hanno avuto successo sono quelle che hanno tenuto in equilibrio Lumi e Tradizione, Destra e Sinistra, l’Antico e il Nuovo.

Se non vinciamo sempre ‘noi’ ma vincono ‘loro’, qualche ragione ci sarà ma non troviamola, per carità negli ‘atavismi culturali’ che spesso designano i valori che non sono i nostri…

 

Dino Colafrancesco

Novità o carisma?

6 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

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Sull’exploit di Giorgia Meloni e del suo partito alle elezioni del 25 settembre circolano teorie curiose. La prima attribuisce il successo alla scelta di stare all’opposizione del governo Draghi, una scelta che avrebbe penalizzato soprattutto la Lega di Salvini. Questa teoria è illogica, perché all’opposizione del governo Draghi c’è stata pure Sinistra Italiana di Fratoianni, che invece ha ottenuto un risultato modesto, di poco sopra la soglia del 3% (insieme ai Versi), senza intaccare minimamente i consensi dei partiti di sinistra governisti. Ma soprattutto  è incompatibile con i dati: il prof. Paolo Natale, uno dei massimi specialisti di analisi elettorale, ha dimostrato in un recente contributo che l’erosione dei voti leghisti da parte del partito di Giorgia Meloni era iniziata ben prima della nascita del governo Draghi, ed è semplicemente proseguita durante il governo tecnico. Dunque non può essere la scelta di stare all’opposizione ad aver fatto la differenza fra Fratelli d’Italia e Lega.

Più ragionevole è la teoria che attribuisce il successo del partito di Giorgia Meloni al fatto di non essere mai entrato in un governo, anche quando avrebbe potuto (nel 2018 e nel 2021). Molti dicono: gli italiani amano le novità, dal 1994 in poi hanno provato di tutto, restava solo da provare lei. C’è del vero in questa lettura, ma manca un tassello fondamentale: il carisma.

Sono passati esattamente 100 anni da quando Max Weber, in Economia e società, introdusse nel lessico delle scienze sociali il concetto di carisma e di leadership carismatica, mutuandolo dall’ambito religioso, in cui allude alla grazia, ossia a un dono straordinario concesso da Dio a una persona a vantaggio di una comunità (la parola carisma deriva da χάρις, che in greco significa grazia). In ambito politico il carisma è molto difficile da definire, ma per lo più allude alla capacità di trasmettere una visione della realtà e di stabilire un contatto emotivo con le masse cui ci si rivolge.

Che cosa si debba intendere oggi per leader carismatico è ovviamente controverso, ma credo che – quale che sia la definizione di carisma che si preferisce – sia difficile negare che nelle ultime elezioni Giorgia Meloni sia stata l’unica leader che ne fosse dotata.

Come mai?

Penso che la risposta sia che, in politica, il carisma molto raramente è un carattere permanente del leader. Il carisma si può benissimo perdere. Di leader politici intrinsecamente, e quindi permanentemente, carismatici, nella ormai lunga storia della Repubblica ne ricordo solo due: Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Tutti gli altri condottieri che, a un certo punto della loro storia, sono parsi toccati dalla grazia, hanno finito per perderla. Nella storia della seconda Repubblica il carisma si è posato su Berlusconi, con la promessa della rivoluzione liberale; su Veltroni, con il sogno della “bella politica”; su Renzi, con il mito della modernizzazione del sistema; su Beppe Grillo, con la rivolta anti-casta.

Ma per tutti, a un certo punto, sia pure con modalità molto diverse, è calato il sipario. Berlusconi ha perso la grazia perché non ha mantenuto le promesse, e non è stato capace di innovarsi. Veltroni ha tardato troppo a scendere in campo, e quando lo ha fatto è stato messo fuori gioco dalle faide interne del suo partito. Renzi si è autoaffondato per arroganza ed eccesso di sicurezza. Beppe Grillo è stato sommerso dal qualunquismo e dalla pochezza della sua creatura.

Non sarebbe stato un problema se, usciti di scena tutti i leader un tempo carismatici, al loro posto ne fossero emersi di nuovi. Ma non è andata così. Né a sinistra, né a destra. La sinistra si è presentata alle elezioni senza alcun leader carismatico, se si eccettua lo pseudo-carisma (da reddito di cittadinanza) di Conte nel Mezzogiorno. Quanto alla destra, né Berlusconi né Salvini paiono aver capito che la stanca ripetizione di una raffica di slogan e di parole d’ordine vecchie di vent’anni non può scaldare i cuori.

In questo deserto, alle parole di Giorgia Meloni non è stato difficile arrivare ai cuori e alle menti dell’elettorato di centro-destra, cui la visione tradizionalista di Giorgia Meloni, mai così esplicita in una campagna elettorale, è parsa più congeniale delle promesse liberiste dei soliti Salvini e Berlusconi.

Per lei il difficile comincia ora. Perché ci aspetta l’autunno più drammatico dalla fine della seconda guerra mondiale, e la storia insegna che il carisma è più facile conquistarlo che conservarlo.

Luca Ricolfi

Le radici della vittoria di Meloni e la sfida di Calenda al PD

28 Settembre 2022 - di Paolo Natale

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Acquisito il grande exploit di Giorgia Meloni, capace di guadagnare ben 20 punti percentuali in soli 3 anni, èforse il momento di domandarsi quali siano stati i motivi del repentino incremento di Fratelli d’Italia (Fdi) in questo breve periodo di tempo. Le risposte che giungono in prevalenza da commentatori e analisti fanno specifico riferimento alla sua posizione contraria, unico partito all’opposizione in Italia assieme a Sinistra Italiana, al governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi.

Basta questo per comprenderne la rapida ascesa? Forse in parte sì, ma certo non del tutto, altrimenti per prima cosa non si capirebbe perché il suo partner all’opposizione, Fratoianni, non abbia beneficiato di alcun significativo successo elettorale domenica scorsa. Ma c’è un altro elemento da considerare, che smentisce in parte questa sola spiegazione, elemento che si riesce a derivare chiaramente osservando il trend dellacrescita di Fdi e del contemporaneo tramonto di Salvini e del suo partito, che ha avuto inizio proprio all’indomani delle Europee del 2019 (si veda il grafico). Mese dopo mese, Fdi incrementa di qualche punto percentuale, contestualmente alle perdite della Lega. Una correlazione tra le due serie di dati quasi perfetta, con un coefficiente pari a 0,974.

La cosa interessante da notare è che questa relazione appare del tutto indipendente dalla assenza o dalla presenza del governo Draghi (in carica dal febbraio del 2021). Anzi, dal settembre 2019 fino alla caduta del Conte II (con la Lega all’opposizione, al pari di Fdi) e l’insediamento del nuovo esecutivo di larghe intese (con la Lega al governo), la correlazione è semmai ancora più elevata, con un coefficiente superiore a 0,98.

Dunque, le fortune del partito di Meloni appaiono del tutto indipendenti dal suo ruolo di opposizione all’esecutivo dell’ex-capo della BCE, e si nutrono in maniera evidente dal costante passaggio di voti provenienti dalla Lega, che ha avuto inizio immediatamente dopo la formazione del governo Pd-Movimento 5 stelle, quando cioè entrambe le forze politiche si trovavano all’opposizione.

L’analisi dei flussi di voto tra le Europee del 2019 e le recenti Politiche evidenzia in maniera chiara questa situazione: passa dalla Lega a Fdi oltre il 40% degli elettori leghisti, svuotando in maniera significativa il serbatoio di voti di Salvini, ma già era chiara questa tendenza durante lo stesso governo di Conte, durante la cosiddetta alleanza giallo-rossa.

Contestualmente, l’ulteriore fonte di consensi per Fdi giunge dall’altro alleato, Forza Italia, che gli cede un quinto circa del suo precedente elettorato, poco più del 20%. Appare dunque evidente come la vittoria di Fdiassuma contorni un pochino diversi dal mero ruolo di opposizione. Dopo essersi “infatuato” di Salvini, e in precedenza di Berlusconi, l’elettorato di centro-destra si è poco alla volta convinto, nel giro di tre anni, dal 2019 al 2022, che potesse essere il partito di Giorgia Meloni quello che coerentemente e con una decisa forza programmatica riuscisse a rappresentare una efficace proposta politica di quell’area, in maniera molto più efficiente degli altri partner di coalizione e, fra poco, di governo.

Ma oltre il successo di Giorgia Meloni, inaspettato fino ad un paio d’anni fa, un’altra sorpresa è uscita dalleurne della scorsa domenica, che ha a che vedere con la sfida che la coppia Azione- ItaliaViva sta ponendo al Partito Democratico. Le speranze di Calenda e di Renzi di “fare il botto”, di raggiungere cioè un risultato almeno in doppia cifra non si sono realizzate, fermandosi un paio di punti sotto quella soglia.

Eppure, già questo risultato non sarebbe certo insoddisfacente, se non ci fossero state aspettative così elevate e difficilmente raggiungibili e, inoltre, forse per la prima volta in occasioni elettorali, l’unione di due forze politiche in un unico soggetto ha visto crescere (anziché diminuire come accade quasi sempre) i consensi, andando oltre la somma dei due partiti presi singolarmente.

Era comunque un compito piuttosto difficoltoso raggiungere il 10-12%, soprattutto perché la proposta di Calenda andava a sollecitare un elettorato abbastanza simile a quello del Pd (e solo marginalmente a quello di Forza Italia); effettivamente, i flussi di voto ci indicano come una parte significativa degli elettori di Azione-ItaliaViva provengano proprio dal Partito Democratico, tanto che la composizione attuale del nuovo partito è fatta per oltre un terzo di ex-votanti Pd, unitamente a ex-pentastellati che si definiscono di centro-sinistra. La sfida continuerà evidentemente nei prossimi mesi, ma c’è un dato che forse dovrebbe già fin d’ora preoccupare il partito del dimissionario Letta, un dato proveniente da Milano, una delle poche roccaforti rimaste al Pd.

Ho scritto ieri della “deriva” della sinistra italiana, simile peraltro a quella di molti paesi occidentali, capace di avere maggior presa su un elettorato scolarizzato, più benestante e secolarizzato, il cosiddetto elettorato definito spiritosamente “delle ZTL”, i residenti cioè nel centro delle grandi metropoli, nazionali e internazionali, come New York, Londra, Parigi, Roma, Berlino, Milano.

Ebbene, proprio a Milano, nel centralissimo Municipio 1, dove il Pd sia nelle precedenti politiche, nelle europee e nelle comunali prese oltre il 40% dei voti, risultando di gran lunga il primo partito, domenica scorsa è retrocesso in seconda posizione, con una quota di voti intorno al 23%, superato nettamente da Azione-ItaliaViva, che ha ottenuto oltre il 30% dei consensi provenienti in larga misura dallo stesso Partito Democratico votato. Se a Milano le cose accadono prima, come vuole la vulgata, e poi gli altri luoghi si adeguano, è questo un segnale piuttosto significativo di come la sfida di Calenda possa avere in futuro riscontri positivi.

Paolo Natale

Perché la sinistra è in costante declino?

27 Settembre 2022 - di Paolo Natale

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È dunque successo quel che doveva succedere: per una volta i tanto vituperati sondaggi ci avevano visto giusto, con stime che non si distaccavano più di tanto dai risultati finali delle consultazioni di domenica 25, se non per una leggera sopravvalutazione demoscopica del consenso leghista. E la vittoria del centro-destra (anzi, del destra-centro) è giunta in maniera dirompente come era da mesi chiaramente annunciato. E, soprattutto, è arrivato quell’elevato consenso per Giorgia Meloni e il suo Fratelli d’Italia che pare rasentare l’incredibile, visti i suoi numeri di partenza di soli un paio d’anni fa.

Dal ridotto 4% del 2018, soltanto di poco aumentato alle Europee dell’anno successivo (6%), il partito ha visto un incremento di ben 20 punti nel giro di pochissimo tempo, quel tempo coincidente giusto con il periodo in cui stata, in solitaria, all’opposizione del governo Draghi. È dunque questo il motivo di quell’incremento, la sua opposizione al governo di larghe intese?

C’è qualcosa di strano, forse inspiegabile, in quanto è accaduto. Il governo Draghi, e ancor più lo stesso premier, godeva di una fiducia mai così elevata da quando le rilevazioni certificano il livello di gradimento degli esecutivi: perfino nell’ultima settimana prima del voto, i dati parlavano di oltre il 60% degli italiani che dava una valutazione positiva del governo e di quasi il 70% del Presidente del Consiglio.

Pochi giorni dopo, gli elettori che si sono recati alle urne hanno decretato il chiaro successo dei partiti che o lo hanno contrastato fin dall’inizio (come appunto Fratelli d’Italia) oppure hanno decretato la sua prematura scomparsa (Forza Italia, Lega e Movimento 5 stelle). Queste 4 forze politiche sono state infatti votate da oltre il 60% degli elettori, contro un misero 30% di chi ha sostenuto Draghi fino alla fine, sperando in un suo ritorno alla cabina di comando.

Una sorta di schizofrenia che alberga nella mente del cittadino-elettore o, forse, la prova più evidente di quanto sosteneva il sociologo Goffman: il comportamento, l’opinione di un attore sociale dipende dal palcoscenico, dal frame in cui si sente inserito. Quando mi sento un cittadino, mi fido del tecnico che bene governa il futuro del mio paese; quando mi sento elettore, voto la coalizione che più rappresenta i miei bisogni politici. Senza contraddizioni, soltanto risposte diverse a diversi scenari di riferimento.

E la destra in Italia, come nel resto del mondo occidentale (buon’ultima la Svezia, patria della socialdemocrazia), è destinata ad avere sempre più successo, poiché ha l’appoggio prevalente (sebbene non esclusivo) di quella parte sempre più crescente di elettorato che il politologo Kriesi chiama “i perdenti della globalizzazione”, coloro cioè che non hanno sufficienti strumenti per far fronte agli odierni problemi sociali, occupazionali ed economici. I ceti bassi o medio-bassi, dove le crisi sono più sentite, gli operai nelle piccole aziende, i non-garantiti, che temono quindi le conseguenze della globalizzazione, della immigrazione, del depauperamento progressivo della propria esistenza. Le parole della destra, che cerca di porre un freno ai grandi rivolgimenti mondiali, paiono a questa parte di elettorato le più efficaci per dare maggiore sicurezzacontro il “disordine” provocato da questi cambiamenti epocali; un po’ ciò che è accaduto con Trump, Bolzonaroe Orban.

Al contrario, e con un solo paio di eccezioni, i collegi vinti dal centro-sinistra corrispondono, sia alla camera che al senato, con le città medio-grandi: Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma, Modena e Reggio Emilia. Èormai noto da almeno un decennio, se non di più, come queste siano le aree territoriali dove la sinistra riesce ad intercettare meglio gli umori e le attitudini degli elettori, che hanno una maggiore capacità di fronteggiare le paure e le minacce che le società avanzate pone loro dinanzi. Sono i giovani istruiti, i cittadini più benestanti, con un lavoro relativamente più stabile. È il profilo del Partito Democratico, quello che Luca Ricolfi definisce il “partito radicale di massa”, la forza politica che vincerebbe in Italia se votassero solo i laureati.

Domani vedremo meglio quali e quanti spostamenti di voto sono avvenuti nell’elettorato italiano negli ultimiquattro anni, fino a giungere alla situazione odierna, e scopriremo un paio di cose sorprendenti. Cercherò poi di rispondere ad una domanda cruciale: quanto tempo riuscirà a durare il futuro governo Meloni?

Paolo Natale

Le tre sinistre

23 Settembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi

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