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Società

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 3. Auto-inganno (“self-deception”)

6 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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È una sorta di “ristrutturazione del ricordo” di un evento, effettuato in maniera consapevole o più spesso inconsapevole, sulla base della (mutata) percezione odierna, della attitudine maturata nel presente. Se nel passato avevo votato per una forza politica che oggi non mi piace più, tenderò a “dimenticare” quel voto al fine di mantenere una sorta di coerenza di fondo della mia presente personalità. Un po’ come un ex-innamorato che nel passato aveva giurato amore eterno all’amata, ma poi finito l’amore cancella tutti i ricordi positivi che ha vissuto con lei, per non soffrire più e per percorrere altre strade amorose (come nel film “Se mi lasci ti cancello”, con Jim Carrey).

Capita molto più spesso di quanto si pensi ma, fortunatamente, è anche uno dei pochi bias che possono venir facilmente tracciati, sia a livello individuale che a quello complessivo. Intervistando infatti periodicamente le stesse persone, in un panel che copre un lungo periodo temporale, è facilmente possibile individuare il momento preciso in cui un intervistato ristruttura il suo ricordo, modificando nelle sue risposte l’eventuale comportamento di voto passato, se oggi non è più sentito come suo.

A livello collettivo, qualora la percentuale cumulata delle dichiarazioni di voto passato per un certo partito fosse significativamente differente, cioè inferiore, alla percentuale effettivamente ottenuta da quel partito, avremo la misura esatta del livello di auto-inganno del complesso della popolazione intervistata. È accaduto molto spesso nel passato, in Italia, in particolare con Berlusconi e con Renzi: terminato il periodo di “luna di miele” con l’elettorato, in una fase in cui i due leader erano caduti in disgrazia presso l’opinione pubblica, si dimezzava quasi la percentuale di elettori che si “ricordavano” di averli votati. Nei sondaggi post-elettorali, la ristrutturazione del ricordo è per certi versi un comportamento opposto al citato effetto bandwagon; mentre in quest’ultima situazione si sale metaforicamente sul carro del vincitore, nel caso dell’auto-inganno (più o meno conscio) si tende a scendere da quel carro in maniera numericamente significativa.

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 2. Effetto desiderabilità sociale

5 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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La distorsione provocata dal ricercatore nel momento in cui si accosta al suo oggetto di studio viene sovente indicata con la formulazione proposta dallo psicologo americano Labov nel 1972, quella del cosiddetto paradosso dell’osservatore. L’obiettivo dell’osservatore è infatti quello di osservare un fenomeno così come esso si presenta nel momento in cui nessuno lo osserva: un evidente paradosso irrisolvibile. Appare dunque chiaro come il sapere sociale non potrà mai essere esente dalle alterazioni provocate dall’osservazione stessa, dalla presenza cioè del ricercatore, ovvero dell’intervistatore.

Il suo compito sarà dunque quello di sforzarsi di agire quasi in punta di piedi, silenziosamente, in modo tale da modificare il meno possibile l’oggetto della sua ricerca. Perché più il soggetto che si sta studiando è cosciente della presenza di chi lo studia, meno il suo comportamento o la sua dichiarazione di opinione risulterà libera dalle distorsioni provocate dal ricercatore. Se pensiamo ad esempio ad un qualsiasi “reality show” televisivo, comprendiamo molto chiaramente come chi sta davanti alle telecamere non si comporti esattamente come se fosse a casa sua, quando nessuno lo osserva.

Oppure ancora, se intervistiamo un hater della Rete, molto difficilmente otterremo delle risposte sincere sulle sue attività online; egli si adeguerà a fornire risposte che risultino accettabili dall’intervistatore, che è in quel momento una sorta di rappresentante della società nel suo complesso. È questo il classico tema della cosiddetta desiderabilità sociale.

Nelle interviste, per alcune domande particolarmente delicate (i cosiddetti “dati sensibili”, come le preferenze sessuali o lo stato di salute), gli strumenti “caldi” (dove è presente il fattore umano) provocano a volte distorsioni molto rilevanti nelle risposte. Più in generale la presenza di un intervistatore, al telefono e più ancora di persona, ha come effetto l’accentuazione di atteggiamenti condizionati dalla desiderabilità sociale: se viviamo in una società dove, ad esempio, la pena di morte è mal giudicata dalla collettività, sarà più difficile esternare il proprio accordo con questo tipo di condanna davanti ad un’altra persona, un po’ più facile rispondendo ad un questionario anonimo auto-compilato. Ma anche in questo caso, la distorsione rimane, benché a livelli più contenuti.

In una recente ricerca comparata, si sono poste alcune domande rispetto al comportamento abituale di un campione di cittadini, attraverso tre strumenti: un’intervista face-to-face, una telefonica e un questionario auto-compilato via web. Le risposte ottenute indicavano la presenza di un bias decrescente passando dagli strumenti più caldi a quelli più freddi. La quantità di ore quotidiane trascorse davanti alla TV, ad esempio, faceva registrare una media di 1,5 ore nell’intervista personale, di 2 ore in quella telefonica e di 3 ore nella web-survey. Il dato più oggettivo, certificato dall’Auditel, ci dice che la media degli italiani è pari invece a 4 ore al giorno. Evidente l’effetto della desiderabilità sociale: trascorrere molto tempo davanti allo schermo televisivo non è ben giudicato dalla società, e gli intervistati (consciamente o meno) si adattano nelle loro risposte a ciò che la società trasmette loro.

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 1. Effetto “bandwagon”.

4 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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In senso letterale il termine inglese bandwagon indica il carro che trasporta la banda musicale in una parata. Salire sul carro della banda è dunque gratificante poiché permette di condividere il centro dell’attrazione del pubblico. Salire sul carro (del vincitore) è una delle principali conseguenze del cosiddetto clima di opinione politico-elettorale, che ha avuto un notevole successo negli ultimi anni per analizzare l’orientamento e il comportamento di voto anche nel nostro paese.

L’idea di fondo è che il clima abbia un certo effetto anche sulle opinioni di voto espresse da (alcuni) degli intervistati, soprattutto da quelli indecisi, che tenderebbero nei sondaggi pre-elettorali ad indicare (mentendo) il partito o la coalizione che gode di maggior appeal, oppure a sottacere il loro futuro appoggio al partito “perdente”. Si tratta di una sorta di “spirale del silenzio demoscopico” per cui alcuni elettori, condizionati appunto dal clima di opinione elettorale prevalente, non osano dichiarare apertamente la propria scelta minoritaria nelle interviste, salvo poi farlo nel segreto della cabina elettorale.

Nei sondaggi post-voto accade a volte l’esatto opposto: elettori non completamente convinti della propria scelta elettorale, tendono a dichiarare (mentendo) di aver votato il partito o il candidato vincente, salendo in pratica “sul carro del vincitore”.

Il concetto di clima di opinione elettorale ha subìto una ripresa di interesse nell’ultimo decennio in Italia soprattutto per due motivi.

Il primo è legato alla progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che caratterizzavano la sostanziale stabilità e polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Le motivazioni di voto erano attribuibili per una vasta quota di elettori al cosiddetto “voto di appartenenza”, demarcato per questo da un forte livello di fedeltà, una “fedeltà pesante” frutto del radicamento delle tradizionali sub-culture cattolica e social-comunista.

Durante gli anni del successo di Berlusconi, a questa si è sostituita una sorta di “fedeltà leggera”, cioè da un tipo di vicinanza politica (e fedeltà di voto) legata allo schieramento bipolare (pro o contro Berlusconi). Ma anche questo nuovo tipo di fedeltà è terminata, lasciando il posto, da almeno un decennio, ad una inedita volatilità elettorale, scelte piuttosto superficiali veicolate dalle sensazioni collettive del momento, dai discorsi dei leader politici, alle quali si può presto rinunciare senza per questo sentirsi un traditore (l’elettore liquido ben descritto da Bauman).

Il secondo motivo riguarda la capacità di questo concetto di ben adattarsi alla trasformazione delle antiche campagne elettorali nelle attuali campagne permanenti, in cui l’impatto delle dinamiche di opinione – continuamente sollecitate dal rapporto sondaggi-consenso come fattore decisivo sia per l’esercizio della leadership che per le decisioni di governo – tende ad assumere un peso rilevante sia di medio ma perfino di breve periodo, favorendo la costruzione di “micro-cicli di opinione”, che rappresentano a volte un punto di riferimento essenziale per lo stesso comportamento elettorale della popolazione. Non contano più dunque le appartenenze, o i più stabili atteggiamenti, contano le emozioni del momento, nell’elettore liquido, conta il clima di opinione sempre più fluido e intercambiabile, cui il cittadino provvisoriamente si adatta.

Una volta che un particolare clima d’opinione si è diffuso all’interno del paese, l’elettore interrogato nel corso di un’indagine demoscopica si trova in alcuni casi quasi “in imbarazzo” a dichiarare la propria preferenza per il partito, il candidato o la coalizione che pensa non godano delle simpatie del resto della popolazione elettorale. Si rifugia in questi casi all’interno di quello che ho definito come “spirale del silenzio demoscopico”, preferendo cioè tacere il suo reale appoggio per quella forza politica, salvo poi votarla nel segreto dell’urna. Molti sondaggi sono pervasi da questa dinamica, che non permette di ottenere stime corrette del reale orientamento di voto di una parte significativa degli intervistati

Paolo Natale

Estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

 

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi*

1 Luglio 2022 - di Paolo Natale

In primo pianoSocietà

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

 

Maneggiare con cura: questo dovrebbe esserci scritto o sottolineato chiaramente, prima della presentazione dei risultati di qualsiasi indagine demoscopica. Purtroppo, questo avviene solo sporadicamente. Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Oggi, perfino una procedura come il Censimento della popolazione viene effettuata attraverso un sondaggio campionario, producendo un vero e proprio ossimoro: se utilizziamo un campione di cittadini, il risultato non potrà mai definirsi un censimento, e anzi produrrà delle stime affette, come vedremo, dal cosiddetto “errore di campionamento”.

Sono proprio i risultati di indagini demoscopiche quelli che prendiamo come attendibili in molti campi, e che ci raccontano lo stato del nostro paese, come fa il Censis nel suo rapporto annuale sullo stato della società italiana. E pochi sanno ad esempio che i dati che ci vengono forniti dall’Istat, sui quali si basano le scelte anche strategiche del mondo politico e imprenditoriale, sull’andamento economico-occupazionale del paese e sulle forze-lavoro (tasso di occupazione, ecc.) non sono altro che il frutto di un sondaggio trimestrale, effettuato certo interrogando un campione molto vasto, 200mila individui all’interno di circa 120mila famiglie, ma pur sempre un campione.

Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, almeno dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai risultati che emergono da una indagine demoscopica.

Da lunedì prossimo 4 luglio, con cadenza giornaliera, nei giorni feriali (dunque dal lunedì al venerdì) verranno presentate e discusse le dieci più importanti distorsioni di cui sono “vittima” tutti i sondaggi, in particolari quelli politico-elettorali, delle quali dovremmo tenere conto quando ci accingiamo a leggere i suoi risultati, pubblicati sui media.

Paolo Natale

Non solo salario minimo legale

14 Giugno 2022 - di fondazioneHume

EconomiaIn primo pianoSocietà

Di salario minimo legale (SML) si torna insistentemente a parlare in questo periodo, in vista dell’attuazione della Direttiva Ue in materia. Sull’opportunità di fissare un minimo per le retribuzioni c’è un diffuso anche se non unanime consenso. Dove invece i pareri divergono è sul livello cui fissarlo, ma soprattutto sugli effetti che esso potrebbe produrre.

Un effetto certo e positivo è quello di costringere le imprese che operano in modo regolare, e che possono permettersi di adeguare le retribuzioni, a portare a un livello decente il salario dei lavoratori peggio pagati. Un altro effetto positivo, anche se incerto nell’entità, è di rendere più convenienti gli investimenti in tecnologia, con conseguente aumento della produttività. Infine, il salario minimo legale scoraggerebbe la concorrenza sleale delle imprese che puntano su evasione fiscale e bassissime retribuzioni.

Dove le cose si fanno più complicate, invece, è sul versante degli effetti negativi. Che sono numerosi, e molto difficilmente quantificabili. Gli economisti, in particolare,  segnalano tre effetti perversi del salario minimo legale, in parte già osservati in Germania (che  ha introdotto il salario minimo nel 2015). Il primo è che le imprese che possono farlo scaricano sui prezzi l’aumento dei costi salariali. Il secondo è che alcune imprese aggirano la norma semplicemente aumentando il numero effettivo di ore giornaliere (ti pago 7 ore, ma ne fai 9). Il terzo è che molte imprese semplicemente non possono permettersi di operare pagando i lavoratori al livello fissato per legge, e rischiano di reagire chiudendo l’attività, o accentuando la propensione all’evasione fiscale e contributiva. A questo proposito giova ricordare che l’aggravio per le imprese di un salario minimo legale di 9 euro (la proposta del Movimento Cinque Stelle) sarebbe di 6.7 miliardi di euro, che scenderebbero a 4.4 miliardi con una soglia fissata a 8.5 euro, e a 2.7 miliardi con una soglia di 8 euro (stime INAPP).

Le cose sono ancora più problematiche se guardiamo alla questione da una prospettiva sociologica. Da questa angolatura non si può non osservare che sono numerose, e di grande rilevanza ai fini di una valutazione dell’impatto del SML, le caratteristiche dell’Italia che la differenziano dagli altri paesi europei. In nessun paese europeo, salvo forse la Grecia, l’estensione dell’economia sommersa è ampia come in Italia. In nessun paese europeo è così profonda la frattura fra garantiti, protetti dalle leggi e dai sindacati, e non garantiti, esposti alle turbolenze e ai rischi del mercato. In nessun paese europeo sono così ampi i divari territoriali in termini di occupazione e produttività.

Tutte queste peculiarità, cui andrebbe aggiunta la presenza di un consistente segmento di lavoratori che operano in condizioni paraschiavistiche (circa 3.5 milioni di persone, secondo una mia stima), rendono cruciali i dettagli che specificheranno le modalità di introduzione del salario minimo legale in Italia.

Una soglia unica, fissata a un livello elevato, senza differenze legate alla produttività, accentuerebbe sia gli effetti benefici che quelli perversi, con quale saldo netto è difficile dire con i dati di cui disponiamo. Una soglia bassa, graduale, e differenziata territorialmente, minimizzerebbe molti effetti perversi, ma anche i benefici in termini di equità, incentivi al progresso tecnologico, leale competizione fra operatori economici.

Quale che sia il punto di equilibrio che la politica vorrà trovare, credo sarebbe bene prendere atto di un punto: stante la struttura economico-sociale del nostro paese, il salario minimo legale avrà effetti tanto più benefici ed incisivi quanto più verrà accompagnato da altre misure, sia sul piano politico-amministrativo sia su quello sindacale. L’estensione dell’economia sommersa e l’ampiezza del settore paraschiavistico, infatti, dipendono solo in minima parte dall’assenza di un salario minimo legale. La vera radice di queste storture, oltre che – ovviamente – nell’arretratezza complessiva del sistema-Italia, sta in due clamorose assenze o, se preferite, “insufficienti presenze”: quella dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e quella delle organizzazioni sindacali. Finché su aberrazioni che si vedono “a occhio nudo”, come quella dei campi di raccolta del pomodoro, si continuerà a chiudere un occhio, non ci sarà mai SML che basti a fermare l’obbrobrio.

Che fare, dunque, per massimizzare i vantaggi e minimizzare i danni del salario minimo?

Un’idea potrebbe essere di introdurre una differenziazione territoriale, che tenga conto del costo della vita (per non penalizzare i lavoratori del Nord) e della produttività (per non penalizzare le imprese del Sud).

Ma forse il provvedimento più incisivo sarebbe di sottoporre a un regime di controlli speciale – con verifiche più frequenti e capillari – le imprese che prevedono rapporti di lavoro con orari ridotti. Ciò metterebbe un freno alla pratica, estremamente diffusa in Italia, di sottodichiarare le ore di lavoro. E’ precisamente questo, infatti, il meccanismo alla radice delle più comuni situazioni di iper-sfruttamento.

Luca Ricolfi

(articolo uscito su La Repubblica l’8 giugno 2022)

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