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Politica

Le tre sinistre

23 Settembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi

La zuppa di Porro

12 Settembre 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPoliticaSocietà

Sulla guerra in Ucraina esiste una sola verità (e non è un bene)

Ormai sui giornali neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato

di Dino Cofrancesco

Un vecchio amico—forse uno dei migliori storici contemporaneisti della sua generazione—mi dice: “C’è un solo modo per porre fine alla guerra russo-ucrai-na, fare pressioni su Mosca e su Kiev, perché accettino l’annessione della Crimea (un errore di Kruscev, come riconosciuto da Gorbachev) e un referendum nelle regioni contese del Donbass, sotto il vigile controllo dell’Onu, per chiedere alle popolazioni se intendono far parte dell’Ucraina o della Federazione russa”.

“L’alternativa è la prosecuzione di una guerra che sprofonderà l’Europa—e soprattutto l’Italia—nella peggiore crisi economica della sua storia, cementerà l’alleanza tra Mosca e Pechino, alla quale si aggiungerà Nuova Delhi, farà dell’Asia un dominion cinese (tranne il Giappone e Taiwan, difficile da difendere da un’invasione decisa da Xi) e ridurrà l’Europa, de facto, a una colonia degli Stati Uniti, che sono quelli che—con buona pace di Federico Rampini, divenuto Texas Ranger—hanno meno da perdere dal conflitto in corso. Gli intellettuali con l’elmet-to—quelli che oggi sono con l’America, malata, di Biden e di Trump e che ieri erano avversari irriducibili dell’America, sana, di Eisenhower e di Kennedy—e i politici, moderati o di sinistra, arruolati tutti nei marine non si rendono conto che l’Ucraina potrebbe essere la nuova Serbia e, come l’antica, portare a una guerra mondiale che oggi, con l’arma atomica, rischierebbe di distruggere non solo la civiltà occidentale ma ogni forma di vita sulla terra”.

“Saggiamente Washington non intervenne nel 1956 quando l’Armata rossa (che ancora si chiama così) invase Budapest: quello sovietico era l’esercito più potente del mondo e gli ungheresi vennero lasciati al loro destino per non precipitare l’Europa e il mondo nel caos. Oggi quasi sessant’anni dopo, non solo si è deciso l’intervento—questa volta per interposta persona—dinanzi a una Russia militarmente indebolita (secondo la massima: colpire il nemico quando è più debole) ma, contravvenendo a tutti gli impegni e le garanzie date a Mosca alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, la Nato si è estesa in Europa orientale fino a lambire i confini russi. Se qualcosa di analogo fosse capitato a Stati Uniti e Canada—ad es. missili con testate nucleari in un’America centrale e meridionale colonizzate da russi e cinesi—la reazione sarebbe non meno dura di quella mostrata da Kennedy all’epoca dei missili a Cuba. Si sarebbe detto che un conto sono i missili che minacciano una democrazia, un altro conto sono quelli che minacciano un regime dittatoriale”.

“Tra l’altro va rilevato per inciso che la pace, anche quella imposta dal vincitore, nella società moderna post-totalitaria, non è sempre quella dei romani (“desertum fecerunt et pacem appellaverunt”): sia pure in condizioni difficili, è possibile salva-guardare qualcosa, come dimostrò l’accorto Janos Kadar, l’uomo imposto da Mosca alla guida del governo ungherese, che mise mano a riforme di qualche peso.

 Insomma finché c’è vita, c’è speranza e un’Ucraina dai confini più ridotti può continuare il suo processo di occidentalizzazione. Peraltro se i miliardi di dollari e di euro, destinati agli armamenti, venissero distribuiti alla popolazione civile di un paese, senza più Crimea e (forse) Donbass, gli ucraini avrebbero un tenore di vita superiore a quello svedese e finlandese”.

Confesso che non sono stato in grado di replicare alle considerazioni del mio amico. Le mie frequentazioni giornalistiche (da ’Atlantico’, l’organo del fondamentalismo occidentalista, al ‘Giornale’) sono tutte su una lunghezza d’onde diversa, se non op-posta e questo mi porta per lo meno a pormi la domanda scettica: “Dopo aver ascol-tato le argomentazioni degli uni e degli altri, que sais je veramente?”. Debbo anche dire che non pochi conoscenti e colleghi, in camera caritatis, esprimono opinioni ancora più radicali di quelle su riportate ma se ne guardano bene dal metterle per iscritto: rischierebbero di passare per amici di quell’autentico scoundrel di Putin e qualche volta—com’è capitato a me per aver consigliato a un’amica slavista il libro di Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Rubbettino 2015—di perdere un’amicizia ventennale.

Sospendo, comunque, il mio giudizio sulla contesa politica e ideologica che sta dividendo l’Italia in campi avversi. Sarà la storia a decidere i torti e le ragioni. Le opinioni sono opinioni e tutte da prendere in considerazione ma una cosa, tuttavia, è certa e inconfutabile come un ‘giudizio di fatto’: quanti sono contrari alle sanzioni contro la Russia non hanno, per così dire, ’buona stampa’. Nel migliore dei casi ven-gono accusati di ignoranza (colpevole) di quanto sta avvenendo in Ucraina; nel peg-giore, passano per incalliti cinici, indifferenti ai valori alti dell’Occidente e preoccupati solo del rincaro del gas e della vita quotidiana in genere. Che migliaia di aziende chiudano i battenti, che si vada incontro a uno dei peggiori inverni della nostra storia, che in Ucraina continuino a morire ammazzati migliaia di militari russi e di militari e civili ucraini, sono preoccupazioni da panciafichisti, da “sciaurati che mai non fur vivi’. Nessun sospetto che, come capita sempre nel nostro malinconico mondo sublunare, possano esserci ‘valori’ da una parte e dall’altra, che l’etica dei principi (per cui la sovranità di uno Stato deve essere salvaguardata a costo di andare incontro a distruzioni irreparabili di vite e di beni) sia etica al pari dell’etica della responsabilità e che al ‘propter vitam, vivendi perdere causas’ si può sempre contrapporre l’osservazione che sotto terra non ci sono più buoni e cattivi, giusti o ingiusti.

Se si guardano i notiziari televisivi e si leggono i grandi giornali (i ’giornaloni’), a parte forse ‘Limes’, ci si rende conto che neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato e che le rare volte che si citano fonti russe lo si fa per confermare la loro spudorata inattendibilità. Paradossalmente è nei periodici nordamericani che si possono trovare informazioni alternative (e certo non per questo veritiere). Gli articoli di grandi scienziati politici come John J. Mearsheimer , però, non vengono tradotti in italiano ed è una rivista catacombale come ‘Nuovo Arengario’ a segnalare il saggio di Ramon Marks No Matter Who Wins Ukrai-ne, America Has Already LostThere are multiple tough strategic realities for the United States to absorb. (‘The National Interest’ 21 August 2022).

Questa squalifica di chi non la pensa come noi è, forse, la peggiore eredità delle due culture totalitarie che tanto hanno inciso sul nostro sentire collettivo, il fascismo e il comunismo. Siamo il paese del ‘pensiero unico’: la verità sta solo da una parte—ieri il fascismo, il comunismo, oggi l’oltranzismo atlantista, il liberalismo mercatista, la santificazione (o per lo meno la giustificazione) degli Stati Uniti, qualsiasi cosa facciano. Forse aveva ragione, ahimè, il mio non amato Gobetti quando diceva che gli italiani non hanno spina dorsale morale.

Le strane convergenze

24 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Supponete che un partito prevedesse, fra i suoi punti programmatici, il contrasto all’immigrazione irregolare, il rifiuto del politicamente corretto, l’ostilità alle rivendicazioni LGBT. Come lo definireste?

Credo che molti risponderebbero, senza troppe esitazioni, che lo considererebbero un partito di destra. E in effetti è così, molti partiti di destra radicale, in Italia come in Europa, rispecchiano questo profilo.

Però sarebbe un errore pensare che questo genere di idee siano prerogativa esclusiva della destra radicale. Idee del tutto affini si incontrano in alcune formazioni della sinistra radicale, ad esempio nella nuova lista “Italia sovrana e popolare”, guidata da Marco Rizzo, che in queste settimane sta raccogliendo le firme per presentarsi alle imminenti elezioni politiche. E in modo ancora più netto nei filosofi marxisti anti-capitalisti, come Jean Claude Michéa (francese), Slavoj Źiźek (sloveno), Costanzo Preve e il suo allievo Diego Fusaro in Italia.

Ma qual è la ratio di simili idee?

In parte è la medesima a destra e a sinistra. Sia la destra radicale sia la sinistra radicale vedono nei flussi migratori un doppio pericolo: l’abbassamento dei livelli salariali dei lavoratori nativi, dovuto alla concorrenza degli immigrati, la competizione fra cittadini e stranieri nell’accesso ai servizi sociali.

Diverso è il discorso sulle rivendicazioni LGBT e il politicamente corretto. Qui le motivazioni della destra e della sinistra radicali, almeno in parte, divergono. A destra l’ostilità al mondo LGBT è genuinamente culturale, perché deriva semplicemente da una concezione tradizionalista del ruolo della famiglia e del rapporto fra uomini e donne. A sinistra, invece, la medesima ostilità deriva da due idee distinte ma convergenti: il consumismo sessuale sarebbe un capitolo della colonizzazione di tutti gli ambiti della vita da parte del capitalismo globale trionfante; l’attenzione ossessiva della sinistra ufficiale al mondo LGBT e agli immigrati avrebbe completamente cancellato la questione sociale (occupazione, salari, povertà, disuguaglianze).

Più in generale, destra e sinistra radicale, considerano le questioni sollevate dal politicamente corretto (a partire dalla riforma del linguaggio) come problematiche “borghesi”, che possono interessare solo i ceti alti.

Soprattutto, destra e sinistra radicale convergono su una diagnosi: il nemico numero uno sono gli organismi sovranazionali, come l’Unione Europea, la Bce, le Nazioni Unite, la Banca mondiale, che togliendo autonomia agli stati nazionali renderebbero più difficile la difesa degli interessi nazionali e delle istanze popolari.

Di qui la fusione, a destra come a sinistra, fra sovranismo e populismo, e la comune ostilità alla sinistra ufficiale, che in tutte le società democratiche moderne è tendenzialmente liberale, cosmopolita, fiduciosa nei meccanismi di mercato, rispettosa delle istituzioni sovranazionali.

Questa convergenza può turbare chi tende a vedere destra e sinistra come due mondi antitetici e incompatibili. In compenso permette di spiegare fatti altrimenti incomprensibili, come le transizioni dall’estrema destra all’estrema sinistra e viceversa. E’ dei giorni scorsi, ad esempio, la notizia che Francesca Donato, parlamentare europea eletta nelle liste della Lega, si appresterebbe a correre nella lista del comunista Marco Rizzo, leader della neonata lista di sinistrissima “Italia sovrana e popolare”.

Risalendo indietro nel tempo, possiamo rintracciare conversioni ben più clamorose e interessanti, perché frutto di meditate elaborazioni teoriche. Penso, ad esempio, al caso dell’economista di sinistra (radicale) Alberto Bagnai, che qualche anno fa aderì alla Lega di Salvini. Ma penso, soprattutto, a Costanzo Preve, raffinato filosofo marxista anti-capitalista, che nel 2012, in occasione delle presidenziali francesi, dichiarò (e spiegò con un raffinato ragionamento) che, se fosse stato francese, in caso di ballottaggio Sarkozy-Marine le Pen avrebbe votato per la candita di estrema destra.

Ebbene, tutti questi casi, a prima vista incomprensibili, hanno una logica precisa. Alla base del sovranismo populista, che rende quasi intercambiabili destra e sinistra radicali, ci sono due idee forti: primo, l’assoluta centralità della questione sociale; secondo, la convinzione che solo gli stati nazionali abbiano qualche chance di fornire risposte alla domanda di protezione degli strati popolari.

L’analisi può essere sbagliata, ma la sfida che lancia è reale. E tocca alla sinistra ufficiale raccoglierla, innanzitutto mostrando che non ha dimenticato la questione sociale.

Luca Ricolfi

Massimalisti e riformisti

23 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Durante la prima Repubblica i partiti, sia pure con qualche piccola fluttuazione, venivano percepiti come disposti su un asse destra-sinistra: missini, monarchici, liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti, psiuppini, demoproletari.

Nella seconda Repubblica, ossia a partire dal 1992, questo genere di ordinamento non è stato più possibile, perché alla dimensione destra-sinistra se ne è aggiunta un’altra, che possiamo chiamare moderato-radicale, o pro-sistema anti-sistema. Due partiti, in particolare, hanno contribuito a rompere lo schema destra-sinistra: la Lega negli anni ’90, percepita come partito radicale né di destra né di sinistra; il Movimento Cinque Stelle negli ultimi dieci anni, percepito come partito anti-sistema, incollocabile sull’asse destra-sinistra.

Oggi tutto questo sta evaporando, perché la Lega è nel frattempo diventata un partito genuinamente di destra, e i Cinque Stelle, dopo l’alleanza con il Pd nel governo giallo-rosso, sono percepiti come un partito di sinistra. In breve, il sistema politico – a dispetto delle ambizioni del Terzo polo di Renzi e Calenda – sta tornando bipolare. Cespugli a parte, c’è una destra fatta dei partiti di Meloni, Salvini, Berlusconi, e c’è una sinistra fatta dei partiti di Letta, Conte, Calenda.

Quel che non è chiaro è come questi sei partiti si dispongano sull’asse destra-sinistra. O, per dirla in modo classico, chi siano i riformisti e chi siano i massimalisti entro i due campi.

Il modo più canonico di affrontare questo tema è di utilizzare la “teoria economica della democrazia” di Anthony Downs (1957), che suggerisce di ordinare le forze politiche in base al loro grado di interventismo statale, con la destra “liberista” che vuole minimizzarlo per promuovere la crescita dell’economia, e la sinistra “statalista” che vuole massimizzarlo per attuare la giustizia sociale.

Quel che è interessante, di questo schema, è che mette a soqquadro alcune consolidate abitudini mentali. Se applichiamo all’Italia di oggi la teoria di Downs, sembra ragionevole considerare massimalisti la Lega e i Cinque Stelle. La Lega, infatti, con la proposta di un’aliquota unica al 15%, porta alle estreme conseguenze il liberismo di Berlusconi, che nel “Contratto con gli italiani” del 2001 si accontentava di due aliquote Irpef, e ora si fa bastare un’aliquota al 23%, giudicando irrealizzabile l’obiettivo del 15% caro a Salvini. Il movimento Cinque Stelle, per parte sua, con la strenua difesa del reddito di cittadinanza, porta alle estreme conseguenze l’interventismo statale caro alla sinistra, rischiando di farlo degenerare in assistenzialismo.

Visti con le lenti di Downs, gli estremi dell’asse destra-sinistra sono il massimalismo iper-liberista della Lega e il massimalismo iper-statalista dei Cinque Stelle. Ma chi occupa il centro? Chi sono i partiti più riformisti e meno massimalisti?

A sinistra la risposta è facile: il Terzo polo liberal-democratico di Renzi e Calenda nasce esattamente per dare vita a una sinistra coerentemente riformista, senza le ambiguità e le attrazioni fatali del Pd.

E’ a destra che la risposta si fa difficile, ma anche più interessante. Siamo abituati, con buone ragioni, a considerare Forza Italia come forza politica moderata, meno euroscettica e meno anti-immigrati rispetto a Lega e Fratelli d’Italia. Ma sulla politica economico-sociale, ovvero sull’asse di liberismo-interventismo della “teoria economica della democrazia”?

Qui un’analisi delle proposte in materia di tasse non lascia molti dubbi: le idee di Giorgia Meloni sono molto meno massimaliste di quelle di Berlusconi e, a maggior ragione, di quelle di Salvini. Giorgia Meloni non ama la flat tax e, nel giro di poche settimane, è riuscita a riportare a più miti consigli gli alleati. Nel programma appena pubblicato del centro-destra le aliquote del 15% e 23% non compaiono. L’eventuale flat tax, almeno inizialmente, è limitata al reddito incrementale (si applica ai guadagni in più rispetto all’anno precedente). L’unica concessione è l’innalzamento della soglia di fatturato (da 65 mila a 100 mila euro) che permette alle partite Iva di usufruire dell’aliquota del 15%. La via maestra è ridurre la pressione fiscale sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Meloni moderata e riformista, dunque?

No, se parliamo in generale. Ma in politica economica sì. Né dovremmo stupircene troppo: la destra da cui proviene Giorgia Meloni è la destra sociale, non certo quella iper-liberista di Reagan e Thatcher.

La realtà è che Giorgia Meloni e Carlo Calenda, da opposte sponde, stanno conducendo due operazioni speculari di contenimento del massimalismo. Il terzo polo è (anche) il tentativo di iniettare un po’ di liberalismo nella cultura statalista e pro-tasse della sinistra. Fratelli d’Italia è (anche) il tentativo di immettere un po’ di stato nella cultura liberista e anti-tasse della destra.

 

Luca Ricolfi

Le tre sinistre

9 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Nei giorni scorsi, quando sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica, e all’economia pianificata, come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda risponde: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, a sinistra. Il maggiore partito della sinistra, il Partito democratico, tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate”, cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

L’alleanza con +Europa di Emma Bonino, e la contemporanea rottura con Renzi e Calenda, fanno pensare che, per il Pd, l’esito più probabile sia l’accentuazione dei suoi caratteri di partito radicale di massa. Anche perché le altre due caselle – partito socialdemocratico e partito liberaldemocratico – sono già, più o meno confusamente, presidiate da quel che resta dei Cinque Stelle di Conte, e da quel che sarà del Terzo polo di Renzi e Calenda.

Sotto questo profilo, l’appuntamento del 25 settembre potrebbe essere davvero cruciale per il futuro della sinistra. Sarà la prima volta, infatti, in cui toccherà agli elettori – e non alle correnti del Pd – pronunciarsi sulle tre alternative politiche che dividono la sinistra da quando Achille Occhetto decise di archiviare il comunismo: partito radicale di massa, partito socialdemocratico, partito liberaldemocratico?

Al popolo di sinistra l’ardua sentenza.

Luca Ricolf

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