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A proposito dell’estrema destra in Europa – Fascismo o indietrismo?

12 Maggio 2025 - di fondazioneHume

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Secondo la maggior parte degli osservatori e degli studiosi di politica quello cui stiamo assistendo in Europa è una (ulteriore) avanzata elettorale dell’estrema destra. Qualcuno, pensando agli ultimi sondaggi che indicano l’AfD (Alternative für Deutschland) come primo partito della Germania, arriva a parlare di un pericolo neo-nazista incombente. Né molto più rassicuranti appaiono le notizie che arrivano dalla Francia (successi di Marine Le Pen), dal Regno Unito (successi del trumpiano Nigel Farage), dalla Romania (successo dell’euroscettico George Simion, bollato come “di estrema destra”).

Da questa diagnosi derivano, tipicamente, due contromosse politiche: primo, l’invito all’opinione pubblica a mobilitarsi contro l’onda nera neo-fascista o neo-nazista montante; secondo, il tentativo di usare la legge per impedire a determinati leader e/o a determinate forze politiche di partecipare alla competizione elettorale. Il risultato, tuttavia, per ora è soltanto l’ulteriore crescita di consensi verso i partiti bollati come di estrema destra.

Qui vorrei proporre un’ipotesi: e se l’avanzata di queste forze dipendesse anche dalla nostra pigrizia di analisti? Detto in altre parole, siamo davvero sicuri che l’etichetta di partiti di “di estrema destra”, o peggio ancora di movimenti “neo-nazisti”, colga l’essenza della protesta che avanza in Europa? Siamo sicuri che non esista una definizione più aderente alla realtà? E se, alla base del successo di certe forze politiche, vi fosse anche la nostra incapacità di comprenderne la natura?

Se proviamo a dare una rapida occhiata ai programmi, agli slogan, alle dichiarazioni dei leader, troviamo fondamentalmente quattro idee-forza. Primo, l’immigrazione irregolare è un male che va combattuto, anche con le espulsioni e i rimpatri. Secondo, la cultura woke e il politicamente corretto sono imposizioni arbitrarie e inaccettabili. Terzo, il green deal voluto dalle autorità europee danneggia i ceti popolari. Quarto, il sostegno militare all’Ucraina e il riarmo europeo sono scelte sbagliate e pericolose.

Difficile dire che cosa tenga insieme questi quattro punti, ma mi pare evidente che la connessione con fascismo e nazismo è alquanto debole. Certo, si può arditamente sostenere che chi è contro l’immigrazione irregolare crede – come molti fascisti e nazisti hanno creduto – nel primato della propria etnia, ma altrettanto bene (anzi molto più plausibilmente) si può pensare che chi invoca remigration e rimpatri abbia in mente problemi di sicurezza, o patisca la concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e nell’accesso ai servizi sociali. Quanto all’ostilità verso le politiche green o ai timori per la deindustrializzazione, problemi tipici del nostro tempo, è evidente che nulla hanno a che fare con il fascismo e il nazismo. Infine, il tema del riarmo europeo: come non vedere che l’estrema destra in Europa, con il suo anti-interventismo bellico, è semmai l’esatto contrario dell’espansionismo e del militarismo nazi-fascista?

Se ne potrebbe concludere che, in realtà, non vi è nulla che plausibilmente colleghi fra loro le quattro idee-forza delle formazioni che i politologi classificano come di estrema destra. E che il loro essere “di destra” poggia sul fatto che tutte e quattro sono contrarie a idee sposate dalla sinistra, che di norma difende l’immigrazione, il green deal, il politicamente corretto, il riarmo dell’Europa. Ma sarebbe una conclusione affrettata, molto affrettata. Intanto, perché ci sono formazioni politiche di sinistra (ad esempio la BSW di Sahra Wagenknecht, o i Cinque Stelle), e intellettuali di sicura fede progressista (ad esempio filosofi marxisti come Michéa e Žižek) che, in parte o in toto, sottoscrivono quelle quattro idee affrettatamente squalificate come di estrema destra, o fasciste, o naziste. E poi perché, a pensarci bene, qualcosa che tiene incollate fra loro quelle quattro idee c’è. Ma che cosa?

Fondamentalmente, la nostalgia. La credenza che il progresso non sia tale, e l’idea che il mondo di ieri fosse migliore, o perlomeno più abitabile, di quello di oggi. Molti di coloro che votano per i partiti maledetti, squalificati dall’establishment europeo, semplicemente pensano che ci stiamo allegramente incamminando verso il baratro, e che sarebbe bello tornare a un mondo più semplice; un mondo in cui regna ancora la pace, ci sono pochi immigrati, le fabbriche di automobili non chiudono, la gente può parlare come vuole, il progresso tecnologico non ci costringe a una continua rincorsa. Il potente motore che scalda gli animi della presunta “onda nera” che avanza in Europa è prima di tutto il rimpianto, che conduce a idealizzare il mondo di ieri e a temere quello di oggi.

Possiamo continuare a chiamarli fascisti, o nazisti, o estremisti di destra, o reazionari. Ma è una scorciatoia che ci fa perdere l’essenziale, ossia il tratto che accomuna le loro  manifestazioni di destra e di sinistra: la profonda sfiducia nell’idea di progresso dell’establishment europeo, unita alla mesta consapevolezza che indietro non si torna. Se dovessi proporre un termine, suggerirei di chiamarli regressisti. O, ancora meglio, indietristi. Come, sia pure in un modo tutto suo, lo era l’inclassificabile Pier Paolo Pasolini, convinto che lo sviluppo non fosse progresso e il mondo di ieri fosse migliore di quello oggi.

[Articolo uscito sul Messaggero l’11 maggio 2025]

Estrema destra?

7 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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L’ufficio tedesco per la protezione della Costituzione, alla fine di un’indagine durata ben quattro anni, ha stabilito che Alternative für Deutschland (AfD), primo partito tedesco (alla pari con la CDU/CSU secondo gli ultimi sondaggi), è un’organizzazione “di estrema destra acclarata” e non è “compatibile con l’ordinamento liberale e democratico” della Germania. La decisione, potenzialmente, apre la strada a decisioni drastiche, come la sospensione dei finanziamenti pubblici e lo scioglimento. Intanto autorizza i servizi segreti a infiltrare l’AfD per indagarne il funzionamento interno e scoprirne eventuali piani eversivi.

Non è la prima volta che, in Germania, si tenta di eliminare dalla competizione un partito considerato di estrema destra. Per l’esattezza, è la quarta volta. Nel 2001 e nel 2013 il tentativo fallì perché la Corte Costituzionale, pur ravvisando le ascendenze neonaziste del partito NPD, non ravvisò il concreto pericolo di un sovvertimento dell’ordine costituzionale da parte del partito incriminato. Nel 2024, grazie a una modifica costituzionale introdotta proprio per rendere sanzionabili i partiti giudicati anti-democratici, al partito di estrema destra Die Heimat (La Patria), erede dello NPD, è stato tolto il finanziamento pubblico per 6 anni. Il tentativo, a questo punto, è di ripetere l’operazione con la AfD, che con il suo 20-25% di consensi è giudicato molto più temibile di un partitino come NPD o come Die Heimat.

Ma la Germania non è l’unico paese europeo in cui si cerca di eliminare una formazione politica dalla competizione elettorale. La stessa cosa è successa pochi mesi fa con la dichiarazione di ineleggibilità di Marine Le Pen, a capo del maggiore partito francese (il Rassemblement National) e candidata favorita per la presidenza della Repubblica. E sulla medesima lunghezza d’onda si sono mosse la Corte Costituzionale della Romania, che per neutralizzare Georgescu, considerato troppo di destra e troppo antieuropeo, è arrivata ad annullare il risultato elettorale (giudicato falsato da interferenze straniere).

Apparentemente, tutti questi atti sono volti a preservare la democrazia, minacciata dalla destra anti-europea. Ma basta rivolgere lo sguardo appena più in là, in uno stato a cavallo fra Asia e Europa come la Turchia, per scoprire che il medesimo metodo viene usato non per proteggere la democrazia ma, tutto al contrario, per impedirne l’affermazione: è il caso dell’arresto preventivo di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale avversario di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali.

Di tutti questi casi, però, forse il più interessante è proprio quello tedesco. Qui, infatti, accade una cosa abbastanza sorprendente. Da un lato, quasi la metà dei tedeschi è a favore dello scioglimento dell’AfD, primo partito del paese, in quanto lo giudica di estrema destra. Dall’altro, i sondaggi rivelano che la stragrande maggioranza degli elettori di tale partito, giudicato (dagli altri) “di estrema destra”, non si considera affatto tale, ma si sente di centro o di destra.

Di qui un paradosso: in un mondo in cui la gente esige di essere giudicata, classificata e percepita sulla base del proprio sentiment, il diritto di autodefinirsi viene negato agli elettori del partito che riscuote i maggiori consensi.

Ma forse non è semplicemente un paradosso. Dietro l’uso dell’etichetta estrema destra, o far-right, si nasconde l’incapacità – non solo dei media, ma degli stessi scienziati politici – di concettualizzare e nominare un cluster di credenze che sono intrinsecamente non riducibili a un posizionamento sull’asse destra-sinistra: ostilità all’immigrazione irregolare, scetticismo sulla transizione green, rifiuto del follemente corretto, sfiducia nell’Europa, pacifismo anti-interventista. Tutte idee che, considerate nel loro complesso, non sono né di destra né di sinistra, tanto è vero che – in Germania – accomunano partiti etichettati di estrema destra (AfD) e partiti etichettati di estrema sinistra (BSW).

È con questo cluster di idee, non con la “marea nera” neo-nazista montante in Europa, che bisognerà prima o poi fare i conti.

[articolo uscito sulla Ragione il 6 maggio 2025]

Aspettando il Conclave – La tragedia degli “stupri sacri”

5 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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È quasi inevitabile che, parlando del Pontificato appena concluso e di quello che verrà, l’attenzione si concentri sul messaggio di fondo del capo della Chiesa cattolica. Nel caso di Bergoglio il messaggio di fondo, per riconoscimento di un po’ tutti, è stata la difesa degli ultimi, degli oppressi, dei deboli, delle vittime, specie in teatri drammatici come quelli delle migrazioni, delle guerre, delle carceri. È comprensibile che, in attesa del Conclave, ci si chieda di quale messaggio si farà interprete il nuovo papa.

E tuttavia un pontificato è come la letteratura. C’è la poesia, e c’è la prosa. Il messaggio di fondo è la poesia, ma esiste anche la prosa. La prosa è il modo in cui un Papa amministra ed eventualmente riorganizza la complessa macchina del Vaticano, e più in generale della Chiesa (la ‘governance’, direbbe un economista). Al riguardo un papa può cambiare poco, o cambiare molto. E può farlo in varie direzioni, ad esempio puntando più sulla catechesi o più sulla carità, riorganizzando oppure no le disinvolte finanze vaticane, ampliando o restringendo i privilegi di vescovi e cardinali, concedendo o non concedendo maggiori responsabilità alle suore e alle donne che fanno funzionare la macchina della Chiesa, aprendo oppure no alle donne il sacerdozio e il diaconato. Su questi terreni prosaici l’azione di Bergoglio è stata tutt’altro che rivoluzionaria, e sarà molto arduo, anche una volta eletto, indovinare in che direzione vorrà muoversi il nuovo papa.

Poco male, penserà qualcuno. Dopo tutto sono questioni che non appassionano la massa dei credenti, più sensibili ai grandi messaggi papali che alla bassa cucina del governo della Chiesa. Ce n’è una, però, che – per quanto ben poco poetica – non può non interessarci tutti, credenti e non credenti: la tragedia degli abusi sessuali dei sacerdoti (e di altro personale ecclesiastico, compresi vescovi e cardinali) nei confronti di suore e di minorenni. Una vergogna venuta alla luce poco per volta, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, su cui però nessun pontefice ha finora avuto la volontà o la capacità di incidere profondamente.

Si potrebbe ipotizzare che lo scarso interesse della Chiesa riguardo agli abusi sessuali dei suoi rappresentanti sia anche dovuto alla marginalità del fenomeno. Ma è un’ipotesi incompatibile con i dati. Per quanto frammentari e soggetti a molteplici fonti di incertezza, i dati suggeriscono che né il fenomeno dei “preti pedofili” né, soprattutto, quello delle suore vittime di violenza sessuale da parte di preti, vescovi e cardinali abbiano dimensioni modeste, o siano circoscritti in specifici paesi o contesti. Se come termine di riferimento prendiamo le violenze sessuali e gli stupri di cui sono vittima le donne italiane nel corso della vita (circa il 20% subisce violenza sessuale, il 3% stupro), si può plausibilmente sostenere che questi numeri (già drammatici) non siano di entità inferiore nell’ambiente teoricamente protetto in cui operano le suore (anzi, secondo la teologa Doris Reisinger sarebbero ancora superiori). Chi vuole farsi un’idea vivida dei meccanismi, davvero diabolici, di questa tragedia moderna, in cui il potere spirituale dei superiori (uomini) viene usato per sottomettere le creature più indifese (donne), li può trovare accuratamente e appassionatamente descritti nel libro Stupri sacri (Rizzoli, 2025) di Laura Sgrò, avvocato presso la Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano e legale della famiglia Orlandi.

Se il fenomeno è così grave e pervasivo, perché così poco è stato fatto negli ultimi pontificati, a dispetto del proliferare degli scandali e nonostante alcune coraggiose quanto rare campagne di stampa?

Difficile dare una riposta perentoria. Una ragione ovvia è che la Chiesa cattolica è, per sua costituzione, la istituzione più maschio-centrica del mondo, o perlomeno del mondo occidentale. Innumerevoli fatti, gesti e decisioni testimoniano la scarsissima volontà dell’élite che la governa di concedere più spazio e responsabilità alle donne (religiose e non), nonostante gli oneri del funzionamento dell’istituzione gravino assai più sulle donne che sugli uomini di Chiesa (un tema, questo, più volte meritoriamente sollevato da Lucetta Scaraffia). Un’altra ancor più ovvia ragione è che, mentre la battaglia contro i femminicidi conferisce prestigio, quella contro le violenze sessuali verso ragazzini e suore non può che gettare discredito sulla Chiesa (oltre a provocarle danni economici, ad esempio nella raccolta di fondi attraverso l’8 per 1000).

Una ragione meno ovvia è che chiunque oggi voglia mettere mano al problema degli abusi sessuali si scontra con il fatto che, per decenni e decenni, la prassi è stata di “distribuire il danno” anziché estirpare il male, un po’ come avviene nelle scuole quando gli insegnanti incapaci, essendo illicenziabili, vengono fatti ruotare fra le classi. Sono innumerevoli le testimonianze di casi in cui, di fronte alle denunce ricevute, i vescovi e i superiori – anziché rimuovere gli autori degli abusi – hanno preferito spostarli in altri contesti, senza avvertire i nuovi superiori della loro pericolosità (una prassi agevolata dalla scelta del Vaticano di delegare alle istituzioni locali la gestione di questi casi).

Fortunatamente oggi non mancano le organizzazioni, associazioni, enti, anche interni o collegati alla Chiesa cattolica, che di questi problemi si occupano. C’è da sperare che la loro voce non resti inascoltata.

[articolo uscio sul Messaggero il 4 maggio 2025]

Un papa bifronte

2 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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C’è qualcosa che non torna nella ricostruzione del dodicennio di papa Francesco. Una lettura filologicamente attenta non può che restituirci l’immagine di un papa bifronte.

Durante il suo papato, in innumerevoli circostanze non ha esitato a condannare il capitalismo (visto come sopraffazione dei ricchi sui più poveri) e a difendere il diritto dei migranti ad essere accolti nei paesi di arrivo. Meno frequenti, ma altrettanto nette, sono state le prese di posizione contro l’aborto, contro il controllo delle nascite, contro le rivendicazioni LGBT+ nella chiesa e fuori della chiesa. In materia di diritti civili papa Bergoglio è stato un Pontefice decisamente conservatore, se non reazionario.

Anche sul piano della gestione della Chiesa, il bilancio è tutt’altro che univoco. Come ha scritto giustamente Luca Zorloni su Wired, papa Bergoglio “non ha riformato la Chiesa dalle fondamenta come prometteva e non ha saputo combattere le battaglie contro gli abusi e gli sprechi, se non a parole”. Progressista nelle intenzioni, Francesco si è rivelato lento, se non immobilista, in materia di funzionamento della macchina ecclesiastica. Il sogno di una “Chiesa povera”, depurata dagli scandali finanziari e ripulita dai preti pedofili è rimasto lettera morta.

Naturalmente non vi è nulla di intrinsecamente contraddittorio nell’essere progressista sul piano economico-sociale e reazionario in materia di matrimoni gay e “diritti riproduttivi”. Si può benissimo essere l’uno e l’altro. In Italia abbiamo avuto un precedente illustre, quello di Pier Poalo Pasolini, che – proprio come Bergoglio – era comunista-pauperista da un lato e anti-abortista dall’altro.

La questione interessante è un’altra: come mai, nonostante questa intrinseca ambivalenza, papa Bergoglio viene quasi universalmente dipinto come pontefice progressista? E questo, notiamo bene, non da oggi, nel clima di commozione per la sua morte, ma fin dall’inizio del suo pontificato? Come mai, a dispetto delle sue posizioni tradizionaliste in tema di famiglia, matrimonio, sessualità, diritti delle minoranze sessuali, l’immagine di Francesco è sempre stata – e rimane più che mai – quella di un pontefice progressista, se non rivoluzionario?

La risposta a queste domande, a mio parere, è che il suo pontificato si è retto su un patto non dichiarato – ma solidissimo forse proprio perché non dichiarato – fra la sua persona e il sistema dei media. Papa Francesco ha capito fin da subito che la sua popolarità aveva tutto da guadagnare dal suo impegno a favore dei poveri e dei migranti, e tutto da perdere dai suoi severi richiami a un’etica sessuale meno spregiudicata e individualista. I media, a loro volta, hanno capito che la costruzione dell’immagine progressista, avanzata e innovatrice del nuovo papa richiedeva di amputarne i posizionamenti più retrogradi o – ancor meglio – di trasformarli in gesti di riconoscimento mediante operazioni più o meno sofisticate di decontestualizzazione e manipolazione. Penso, ad esempio, al sistematico fraintendimento della lettera (e cancellazione del contesto) della frase “chi sono io per giudicare?”, o dei gesti di tolleranza nei confronti delle coppie gay; al velo pietoso sulle invettive contro l’aborto e i medici che lo praticano (che Francesco considerava nientemeno che “sicari”); ai resoconti giornalistici benevoli sulla lotta contro i preti pedofili, ben meno incisiva di come è spesso stata tratteggiata.

Ma, sia ben chiaro, non si è trattato in alcun modo di un’opera di deformazione del “vero” messaggio di Francesco. In questi anni papa Bergoglio e i media dominanti sono stati perlopiù in perfetta sintonia. Il fraintendimento parziale dei propri messaggi è stato quasi sempre assecondato dal Pontefice, che evidentemente ne comprendeva il potenziale di legittimazione della propria figura di paladino degli ultimi: altrimenti avremmo assistito a continue smentite, precisazioni, e soprattutto a ben più frequenti (e chiari) interventi riguardo alla morale sessuale e familiare. La realtà è che papa Bergoglio considerava il suo messaggio verso gli ultimi (poveri, migranti, emarginati, “scarti” della società) infinitamente più importante di qualsiasi esortazione in materia di comportamenti sessuali, ambito nel quale raramente è andato oltre il “minimo sindacale” per un capo della Chiesa Cattolica.

La controprova? Tutti, in occasione dell’incontro con il vicepresidente statunitense J.D. Vance, hanno giustamente notato il contrasto fra fede cattolica e crudeltà delle politiche verso i migranti. Ma non si ha notizia di analoghe riflessioni in occasione dell’incontro fra papa Bergoglio e Emma Bonino, come se le posizioni (e le azioni) di quest’ultima in materia di aborto non esistessero e non fossero mai esistite. Un segno difficilmente fraintendibile di che cosa Francesco considerasse importante e che cosa invece no.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 aprile 2025]

Il Papa anti-occidentale

28 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Chi è stato Papa Francesco? La domanda si è imposta in questi giorni nelle riflessioni di tutti, ma ben pochi hanno resistito alla tentazione di scambiare la parte per il tutto. Era inevitabile: per descrivere il Pontefice scomparso come fonte di ispirazione, è giocoforza amputare porzioni significative del suo pontificato. Certo tutti abbiamo notato, e in molti apprezzato, la sua informalità, quel suo parlare e interagire in modo semplice, deponendo o celando i simboli del potere e della Grazia: quel suo “buonasera” inaugurale, quelle espressioni familiari o di senso comune nei discorsi, quei gesti di rinuncia al lusso in materia di spostamenti (utilitaria) e di residenza (Santa Marta). Ma al di là di questo, resta il fatto che nessuno – proprio nessuno – fra gli attori grandi e piccini della politica può plausibilmente rivendicarne l’eredità. E se qualcuno cionondimeno ci prova, è a prezzo di clamorose omissioni.

La destra, tutta la destra, è costretta a omettere le ripetute prese di posizione di Francesco a favore dei migranti, di tutti i migranti, regolari e irregolari, sospinti non solo dalle persecuzioni e dalle guerre ma dal legittimo desiderio di sfuggire alla povertà. La sinistra, tutta la sinistra, è costretta a omettere le chiare prese di posizione contro l’aborto e i medici che lo praticano, bollati come “sicari”; a dimenticare le critiche alla cosiddetta teoria gender, definita “il pericolo più brutto”; a sorvolare sulla demonizzazione dei contraccettivi, paragonati alle armi che uccidono.

Quanto alla cultura laica e liberale, che vede nel capitalismo uno strumento di uscita dalla miseria e di emancipazione dalle costrizioni del passato, è costretta a dimenticare le severe parole del Papa: “Il problema del nostro mondo (…) sono l’egoismo, il consumismo e l’individualismo, che rendono le persone sazie, sole e infelici”.

Questo vuol dire che la visione del mondo di Bergoglio era eclettica, confusa o contradditoria?

Non direi. Certo, agli occhi di qualsiasi scienziato sociale non accecato dall’ideologia le idee di Bergoglio in materia di economia appaiono quantomeno ingenue (l’economia non è un gioco a somma zero), quelle in materia demografica appaiono potenzialmente catastrofiche (in tanti paesi è precisamente l’assenza di controllo demografico che provoca miseria e morti premature). Ma se dal prosaico mondo delle scienze sociali ci volgiamo al fantasioso mondo delle ideologie, quelle idee non sono poi così strane o incoerenti. Perché un’idea unitaria, un pensiero di base, o se preferite un’ossessione di fondo, nel pensiero del Papa scomparso esiste eccome. E ha pure un nome: si chiama anti-occidentalismo. Nelle esternazioni di Bergoglio sono confluiti un po’ tutti i motivi della critica alla civiltà occidentale: condanna del colonialismo (il “singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner), critica dell’economia capitalistica (“l’economia che uccide”), riserve sulle politiche dell’Alleanza Atlantica, deplorazione del consumismo, difesa della famiglia tradizionale, attacco all’aborto e al controllo delle nascite, presa di distanza dalla cultura woke. L’unico elemento non criticato, e in parte ascrivibile alla cultura occidentale (almeno fino a ieri), è stata l’apertura delle frontiere ai migranti, un tipo di politica che Papa Bergoglio, come molti capitalisti in cerca di manodopera a basso costo, giudicava insufficiente.

Possiamo concludere che la cifra del pontificato di papa Francesco è stato il ripudio dei valori della società occidentale?

Sì e no. Sì, perché quello dell’anti-occidentalismo pare l’unico denominatore comune delle sue esternazioni. No, perché in realtà, dopo i rivolgimenti degli ultimi anni, non sappiamo più che cosa siano i valori dell’occidente. Le guerre in Ucraina e in Palestina hanno fatto riemergere in tutta la sua forza il fiume carsico dell’anti-occidentalismo dentro l’occidente stesso. L’ascesa e il declino dell’ideologia woke, il capovolgimento delle politiche di accoglienza in politiche di espulsione, le accuse all’Europa di avere tradito i valori occidentali, la guerra dei dazi, le divergenze su come porre fine alle guerre in Ucraina e a Gaza, hanno riproposto in termini drammatici l’interrogativo: chi siamo, noi occidentali?

Forse, più che affannarci a rivendicare improbabili sintonie con il pensiero del Papa scomparso, personaggio unico e difficilmente ripetibile, dovremmo provare a interrogarci su noi stessi.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 aprile 2025]

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