IL RITORNO DELLA GUERRA

Dunque la guerra è tornata, sorprendendo molti, che si illudevano che il fenomeno guerra potesse ormai considerarsi in via, se non di estinzione, di crescente contenimento.  Quasi impensabile poi che la guerra esplodesse in Europa ove, da tre quarti di secolo, si viveva nella pace e nell’abbondanza.  Così nel 2011 uscì un libro di Steven Pinker sul “declino della violenza” nella nostra epoca che, pur controverso, corrispondeva a persuasioni comuni.  La riesplosione della guerra in Europa (Ucraina) in forme brutalmente convenzionali e in Palestina, in forme vicine a pratiche di genocidio, ci interroga profondamente e ripropone un dilemma che sembrava superato: la guerra e la violenza provengono da cause circostanziali e da una pluralità di fattori scatenanti che non implicano necessariamente la presenza dentro l’uomo di una sua spinta intrinseca alla violenza oppure il richiamo della violenza è pur presente in noi, almeno potenzialmente, come parte ineludibile di noi stessi? Propendo, ahimè, per questa seconda ipotesi. Peraltro già proprio Kant, nel suo “Per la pace perpetua” scrisse: “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (stato “naturalis”), è piuttosto uno stato di guerra”. E a Foucault è attribuita la definizione per cui “ la politica è la guerra continuata con altri mezzi “, che rovescia e inverte la nota definizione di von Clausewitz secondo cui “ la guerra è la politica continuata con altri mezzi “. E’ una dichiarazione che ha fatto osservare allo psicoanalista James Hillman “allora la guerra è una conseguenza della nostra natura politica?”. Si pone qui una questione di estremo, e drammatico, interesse: per lo più anche in quei pensatori che ritenevano che la spinta alla violenza faccia parte di una “natura umana”, a tale spinta veniva contrapposta una, ancor più forte, spinta alla socialità ed allo spirito di collaborazione. Ricondotta ad una simile antinomia dualistica la socialità, sia nella sua forma inter-individuale sia nelle sue forme più complesse e istituzionali, appariva la risorsa cui affidare principalmente il contenimento della violenza, che nell’uomo, ricordiamocene, va ben al di là della “aggressività” presente in tutti gli animali e che in essi è al servizio dell’autodifesa, del controllo del territtorio, della ricerca del cibo e dell’accoppiamento.  Nell’uomo, poi, la violenza trova anche una sua forma legittimata e istituzionalizzata, la guerra appunto. Una simile forma di violenza organizzata non solo non è in antitesi alla socialità, ma trova in essa anche alimento e potenza distruttiva. Le guerre che gli uomini sono in grado di portare avanti con tanta frequenza presuppongono, infatti, e utilizzano, forme diverse ed estremamente complesse di coesione, condivisione identitaria e organizzazione gerarchica e sociale. Già ai primordi della storia della nostra specie fu certamente soprattutto la capacità di cacciare in gruppo a consentire ad un animale quasi privo di armi corporee (né zanne, né artigli e ridotta potenza muscolare) di diventare da facile preda lui stesso  un predatore che, grazie anche all’invenzione di armi sempre più efficaci, si trasformò nel più temibile antagonista degli altri animali, “Homo necans” secondo la definizione che Walter Burkert, sulla scia di Konrad Lorenz, ha proposto per la specie “sapiens”. L’antropologo Francesco Remotti ha sottolineato come lo straordinario successo predatorio dell’uomo e la sua attitudine a organizzare eserciti per la guerra trovava origine dalla sua capacità di produrre “coordinamento sociale delle azioni offensive di gruppo”. Ed il filosofo Sadun Bordoni, interrogandosi sui venti di guerra che tornano a minacciare l’Europa e il mondo, sottolinea che recenti sviluppi nelle scienze biologiche e antropologiche consentono di rileggere la storia evolutiva della nostra specie, riconoscendo nella guerra un fenomeno che ha profonde radici nella nostra storia naturale. Del resto già Freud, scrivendo proprio sul tema della guerra, sosteneva la presenza di spinte potentemente aggressive e autodistruttive nello psichismo umano e concludeva che “quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro”.

BIBLIOGRAFIA

Sadun Bordoni G. “Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale”, Il Mulino.

Burkert W., “Homo necans. Antropologia del sacrificio”, ed. Jouvence.

Clausewitz von C., “Pensieri sulla guerra “, ed. Theoria.

Foucault M., “Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti”, Mimesis.

Freud S.,  “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte “, Bollati Boringhieri.

Hillman J., “Un terribile amore per la guerra”, Adelphi.

Lorenz K.,  “L’aggressività. Il cosiddetto male”, Il Saggiatore.

Kant I., “Per la pace perpetua”, Editori Riuniti.

Pinker S., “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”, Mondadori.

Remotti F., “Guerra: perché sì, perché no”, in L’Educazione sentimentale, aprile 2023, rivista di Psicosocioanalisi, Franco Angeli.




Requiem per il mito dei due Stati

Non bastavano le divisioni su tutto il resto. Ora, grazie alla mossa di Macron (annuncio che a settembre la Francia riconoscerà lo stato di Palestina), l’Europa è ancora più divisa di prima pure sulla Palestina. Fino a pochi mesi fa nessuno dei grandi paesi europei riconosceva lo Stato palestinese, ora Spagna e Francia controbilanciano le posizioni più prudenti (o timide, secondo i critici) di Germania, Italia, Regno Unito. Su una cosa, tuttavia, la maggior parte dei governi europei (e più in generale di quelli occidentali) pare essere d’accordo: in prospettiva, la soluzione non può che essere quella dei “due Popoli, due Stati”. Anche l’Italia è su questa linea. In un’intervista a Repubblica la premier si è spinta a formulare il dubbio che “il riconoscimento dello Stato di Palestina, senza che ci sia uno Stato della Palestina, possa addirittura essere controproducente” in quanto distoglierebbe l’attenzione dal vero problema, che è di renderlo effettivamente possibile, uno Stato palestinese.

E tuttavia anche questa posizione, e a maggior ragione quella dei critici di Giorgia Meloni, mi sembra eludere il problema preliminare: quali dovrebbero essere i confini di questo fantomatico Stato di Palestina?

Alcuni parlano dei confini stabiliti dall’ONU nel 1947 (un po’ meno del 50% della Palestina storica ai Palestinesi), confini che già nel conflitto del 1948 Israele aveva modificato  a ulteriore proprio favore. Altri parlano dei “confini del 1967”, intendendo quelli anteriori alla “Guerra dei 6 giorni”, ovvero i confini emersi alla fine del conflitto del 1948, particolarmente favorevoli a Israele. Altri ancora si accontenterebbero di assegnare allo Stato di Palestina la striscia di Gaza e l’intera Cisgiordania (la cosiddetta West Bank), oggi quasi interamente (per più dell’80%) controllata da Israele. Senza parlare dello spinosissimo problema di Gerusalemme, che Israele si è annessa ma che l’Onu avrebbe voluto sotto controllo internazionale.

Tutti però sembrano ignorare che ciascuna di queste soluzioni, compresa l’ultima – la più favorevole a Israele – è di fatto impraticabile. Gli Israeliani non possono cedere di nuovo Gaza (da cui si erano ritirati nel 2005) senza la previa distruzione di Hamas. Quanto alla Cisgiordania, troppo spesso si dimentica che è un labirinto controllato dall’esercito israeliano (la zona A, l’unica interamente soggetta all’autorità palestinese, è puntiforme, completamente priva di continuità territoriale, e copre meno del 20% del territorio). Se davvero volesse cedere l’intera Cisgiordania ai palestinesi, Israele dovrebbe convincere centinaia di migliaia di coloni, blanditi negli ultimi decenni a fini elettorali, ad abbandonare terre che ormai considerano loro.

Insomma, vie di uscita ragionevoli e praticabili non se ne vedono. Anche se l’intera comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, fosse favorevole alla soluzione dei “due Popoli, due Stati”, resterebbero il dato di fatto che, a dispetto dei molti crimini di guerra commessi, Israele non è stata in grado di cancellare Hamas, e il dato di realtà per cui, anche senza Netanyahu, sarà difficilissimo estirpare i coloni israeliani dalla Cisgiordania.

Ecco perché baloccarsi con la formula “due Popoli, due Stati”, pur ragionevole in linea di principio, è una ipocrisia. Il vero dramma dei due popoli che si contendono la Palestina sono i governanti che si sono scelti e che, soprattutto negli ultimi 20 anni, hanno fatto deragliare il processo di pace, già molto fragile dopo gli accordi di Oslo (1993). La striscia di Gaza sarebbe un posto fiorente se i miliardi dollari che la comunità internazionale le ha destinato negli ultimi 20 anni fossero stati usati per il benessere dei suoi abitanti anziché per rimpinguare gli arsenali di armi contro Israele. La Cisgiordania sarebbe oggi pronta per far nascere lo Stato palestinese se dopo gli accordi di Oslo gli israeliani vi avessero progressivamente ridotto i propri insediamenti, anziché moltiplicarli.

Ora Gaza è distrutta, e la Cisgiordania è ipotecata. Noi continuiamo a parlare dei due Stati, della crudeltà di Israele, del dramma dei palestinesi. Ma nessuno osa ammettere che nessuna vera soluzione è alle porte e che, anche se Hamas si arrendesse e Netanyahu andasse in prigione, la loro eredità è così pesante da ipotecare il futuro prossimo. Speriamo non anche il futuro remoto.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2025]




Il rebus demografico

Facciamo sempre meno figli, è vero. E non siamo solo noi italiani a farne sempre di meno. Ma sul perché ciò accada le opinioni divergono, anche fra gli specialisti. Anzi, soprattutto fra gli specialisti. Nel mio lavoro di sociologo, raramente mi è capitato di incontrare un fenomeno per spiegare il quale ci fossero opinioni così numerose e divergenti (per la precisione, mi è capitato una sola volta, con l’enigma tuttora insoluto del crollo degli omicidi in America dopo il 1990).

Il punto su cui quasi tutti concordano è quello ricordato da Prodi nel suo articolo di ieri su questo giornale: la tendenza è generale, coinvolge paesi ricchi e paesi poveri, classi alte e classi basse, città e campagne. Ebbene, già questo primo punto di partenza ammette eccezioni significative. Fra i paesi principali del mondo (popolosi almeno come l’Islanda) ve ne sono ben 15 in cui nell’ultimo decennio il tasso di fecondità totale (numero di figli per donna in età fertile) anziché diminuire è aumentato. E di questi 15 paesi “anomali” ben 8 sono nell’Unione Europea, altri 4 sono ex membri della Jugoslavia, mentre gli altri 3 facevano parte dell’Unione sovietica. Degli 8 paesi UE 3 sono occidentali (Portogallo, Grecia, Cipro), gli altri 5 sono ex comunisti (Romania, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Slovacchia). Insomma, pare che l’Europa sia l’unica parte del mondo in cui è in atto una controtendenza significativa.

Ma veniamo all’Italia, il cui tasso di fecondità totale è circa 1.2 (solo 4 paesi UE hanno un tasso di fecondità minore). Perché è più basso di quello della maggior parte dei paesi europei?

La diagnosi che si ascolta più di frequente chiama in causa i cosiddetti fattori strutturali: reddito pro capite insufficiente, tasso di occupazione femminile bassissimo, mancanza di asili nido. Di qui la terapia: se si vuole invertire la tendenza occorre moltiplicare i benefit a favore delle famiglie che desiderano avere figli ma non se lo possono permettere. Il ragionamento filerebbe, se non vi fosse un’obiezione grande come una casa: se la ragione della bassa natalità italiana sono le condizioni strutturali delle famiglie, come si spiega il fatto che il tasso di natalità sia altrettanto basso in paesi come il Lussemburgo o la Finlandia, dove il reddito pro capite è più alto, gli asili nido non mancano e le donne lavorano?

Un’obiezione che viene rafforzata da un’altra osservazione: se guardiamo alle tendenze degli ultimi 10 anni, il calo che si osserva in Italia è alquanto minore di quello che si osserva in Francia, il paese invariabilmente additato a modello da imitare. Di qui la domanda: se non ci riesce la Francia che ha tutte le carte in regola, come può sperare l’Italia di fermare il calo delle nascite?

È a questo punto che, in molte discussioni sul problema demografico, si affaccia la diagnosi alternativa: è la cultura che fa la differenza. Il tasso di fecondità scenderebbe soprattutto perché i modelli culturali cambiano. Individualismo, narcisismo, fluidità dei rapporti, primato dell’autorealizzazione, renderebbero sempre più problematico il progetto di costruire una famiglia stabile e allevare dei figli: se quando eravamo più poveri facevamo più bambini non è solo perché non c’erano gli anticoncezionali ma è perché eravamo meno centrati su noi stessi.

Il punto forte di questa spiegazione è la sua autoevidenza (chiunque si rende conto che viviamo in un mondo molto più individualista di quello di ieri). Il punto debole è che nessuno è in grado di individuare con precisione le culture che competono nel mondo e, anche quando si prova a farlo, si trova sempre che le differenze fra paesi all’interno della medesima area culturale sono molto grandi, comunque più ampie di quelle fra macro-aree culturali (Europa occidentale, paesi europei ex comunisti, paesi islamici, paesi cattolici, eccetera). Fra le società avanzate (ricche e democratiche), ad esempio, si va dal caso di Israele, che ha un tasso di fecondità prossimo a 3, a quello della Corea del Sud che ha un tasso di 0.72. Ma anche restringendo l’analisi alle società europee di tradizione occidentale si va dal minimo di Malta (1.06) al massimo della Francia (1.66). Insomma, sicuramente essere una società occidentale moderna conta, ma le particolarità nazionali sembrano ancora più influenti.

Che fare, dunque, se si vuole invertire il trend demografico?

Difficile dirlo, perché il rebus demografico è tutt’altro che risolto. E finché non ne saremo venuti a capo sarà difficile valutare costi e benefici di qualsiasi politica.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 luglio 2025]




Quando l’egualitarismo diventa nichilismo

Intervistato sul raid israeliano  che ha colpito la Chiesa della Sacra Famiglia di Gaza (3 morti, 11 feriti) Antonio Padellaro, un giornalista che ho sempre stimato, al di là delle diverse opinioni politiche, ha  chiesto perché i tre morti in chiesa abbiano suscitato uno scalpore mediatico che non ci sarebbe stato se le vittime palestinesi si fossero trovate in casa. Le considerazioni di Padellaro, a ben riflettere, sono il tristissimo segno di un’epoca in cui “uno vale uno” e qualsiasi vita equivale a quella di un altro. Agli occhi di Dio è così ma noi poveri mortali sappiamo bene che le civiltà si costruiscono sui simboli e sulle differenze. Se Albert Einstein fosse perito in un attentato terroristico, Dio non avrebbe fatto differenza tra la sua anima e quella di un sicario di Al Capone ma la storia umana avrebbe avuto un altro corso. L’orrore suscitato (in Occidente, beninteso) dall’episodio di Gaza non riguarda il conteggio delle vittime ma il fatto che si sia colpito un simbolo della civiltà cristiana. Il nichilismo dell’epoca della secolarizzazione –come la chiamò Augusto Del Noce—sta nel togliere valore a ogni distinzione tra individui, comunità, culture  sicché non si riesce  più a spiegare, se non con l’ipocrisia, l’indignazione generale per la violazione di un luogo di culto..

Diversi anni fa, una carissima amica e collega demoproletaria e radical chic, se la prese con Paolo VI che aveva detto di ’aspettare Giuseppe Prezzolini’. Perché la conversione di Prezzolini era considerata dal pontefice più importante di quella di un bracciante pugliese? Ancora una volta, per Dio non c‘era differenza ma per noi italiani—atei o credenti—il ritorno alla fede di un ‘prince de l’esprit’, come Prezzolini, sarebbe stato motivo di profonda riflessione, in un senso o nell’altro. La democrazia ha eliminato le aristocrazie del sangue ma non quelle dell’arte, della scienza, della giurisprudenza, dell’economia, della politica. Nella mente dei fanatici dell’apocalisse egualitaria c’è, forse inconsapevolmente, la Cina di Mao, dove tutti erano vestiti allo stesso modo, ma volerci tutti uguali è eliminare la nostra individualità fatta di qualità che ci differenziano dagli altri e che fondano superiorità e inferiorità, in democrazia sempre mobili.

[articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria martedì 22 luglio 2025]

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinoicofrancesco.it




Magistratura in soccorso di Giorgia?

Difficile che passi una settimana senza un sondaggio che annuncia il crollo di Fratelli d’Italia, accompagnato – pochi giorni prima o pochi giorni dopo – da un sondaggio che annuncia l’esatto contrario. Come mai ciò ineluttabilmente accada lo ha spiegato più volte Paolo Natale, probabilmente il più attrezzato e navigato dei nostri sondaggisti: gli istituti di sondaggio omettono di indicare il margine di errore delle stime, che si aggira intorno al 2%. Ma c’è anche una seconda ragione che spiega l’altalena dei sondaggi: giornali, tv, siti internet amano l’iperbole e – ben poco professionalmente – definiscono “crollo” una perdita (presunta, visto il margine di errore) di 0.3 punti percentuali, e “avanzata” un aumento (ancora più presunto) di 0.2 punti percentuali.

Ma proviamo a raccapezzarci: come stanno evolvendo effettivamente gli orientamenti di voto? La risposta solida, che lavora su sondaggi ripetuti e tiene conto del margine di errore, è che il consenso personale di Giorgia Meloni è in lenta discesa dall’inizio del 2024, ma sia le intenzioni di voto per Fratelli d’Italia sia quelle per la coalizione di centro-destra sono sensibilmente cresciute rispetto al momento delle ultime elezioni (settembre 2022).

L’erosione del consenso verso Giorgia Meloni e il suo governo non stupisce più di tanto, visto il fisiologico esaurimento della “luna di miele” con l’elettorato e vista la mancanza di successi clamorosi e mediaticamente sottolineati, salvo il poderoso aumento dei posti di lavoro, oltre 1 milione a metà legislatura (ricordiamo che Berlusconi ne aveva promessi altrettanti, ma in un’intera legislatura).

Quello che merita una riflessione, invece, è il rafforzamento prima e la tenuta poi del partito della premier. Fratelli d’Italia, che aveva vinto le elezioni con il 26% dei voti, è stabilmente attestato vicino al 30% dei consensi, a dispetto dei sondaggi che da due anni periodicamente ne annunciano l’arretramento quando non il crollo (salvo smentirsi la settimana dopo).

A che si deve questa tenuta?

Una prima ragione è che, finora, l’opposizione non è stata in grado di costruire una alternativa credibile e compatta. Se gli italiani continuano a guardare a destra è innanzitutto perché, in quasi 3 anni dalla sconfitta del settembre 2022, la sinistra non è ancora riuscita a costituire quella coalizione o “campo largo” di cui non smette di parlare da allora.

Io credo però che vi sia anche una seconda ragione, molto importante e molto sottovalutata, per cui la destra tiene e anzi si rafforza: la paura delle criminalità e dell’immigrazione. Diversi sondaggi condotti da Demos negli ultimi anni certificano, fin dal 2022, l’esistenza di un trend di crescente preoccupazione nei confronti degli immigrati. Alla fine del 2024, due anni dopo il voto alle Politiche, la percentuale di elettori che considerano prioritari i problemi della criminalità e dell’immigrazione era quasi raddoppiata.

Ma perché, in così breve lasso di tempo, le percezioni dei cittadini sono tanto cambiate? Difficile dirlo, ma io avrei un’ipotesi: probabilmente la colpa (o il merito?) è della magistratura. Sono ormai talmente tante (e visibilmente partigiane) le entrate a gamba tesa dei giudici volte a ostacolare ogni tentativo di frenare l’immigrazione irregolare e punire gli autori di reati, che non stupisce che gli elettori, anziché allontanarsi dalla destra perché non riesce a ostacolare il crimine, attribuiscano ogni insuccesso della destra stessa all’azione di boicottaggio della magistratura. È paradossale, ma quel che succede è che l’ostruzionismo della magistratura verso i tentativi di fermare l’immigrazione irregolare finiscono per fornire a Giorgia Meloni e al suo governo il più inossidabile degli alibi per ogni possibile insuccesso dell’azione di contrasto.

L’attacco ai centri di trattenimento in Albania, il sistematico smontaggio di ogni tentativo di espellere gli immigrati che commettono reati, non fanno che convincere una parte dei cittadini che ci vuol più e non meno destra al governo.

Ad ennesima riprova della hegeliana “astuzia della ragione” (o “eterogenesi dei fini” per dirla con Wilhelm Wundt): la storia si fa gioco delle intenzioni degli uomini, comprese quelle dei magistrati più politicizzati.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 luglio 2025]