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Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

1 Marzo 2024 - di fondazioneHume

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Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)

Nessuna zanzariera è gratis – Il mito dei lavoratori dipendenti che sono i soli a pagare le tasse in Italia

29 Febbraio 2024 - di Matteo Repetti

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Le tasse in Italia sono uno dei più abituali argomenti di conversazione: al bar, sui giornali, tra conoscenti ed in famiglia si parla spesso di tasse, di pressione fiscale che risulta particolarmente gravosa e soffoca ogni iniziativa imprenditoriale, ma soprattutto di evasione fiscale, di chi paga le tasse e di chi invece non le paga.

A questo punto la conversazione assume di solito – come testimonia il recente caso della residenza di Jannik Sinner a Montecarlo – una connotazione moralistica: chi non paga le tasse viola il patto di convivenza sociale, e non contribuisce a finanziare la sanità, gli ospedali, la scuola, ecc..

Per carità, ci sono anche queste considerazioni, che sono condivisibili. Le tasse sono fatte apposta per consentire che l’Amministrazione possa rendere servizi pubblici essenziali e si realizzino le infrastrutture necessarie (strade, ponti, ospedali, ferrovie, ecc.).

Magari si potrebbe iniziare a ragionare un po’ più serenamente riguardo al perimetro delle cose che è necessario o semplicemente opportuno che vengano fatte dallo Stato: se siamo diventati la repubblica dei bonus, incluso quello per l’installazione delle zanzariere, probabilmente qualche problema ce l’abbiamo, considerato che nessuna zanzariera è gratis.

Fuori di metafora, e al di là delle contingenze del PNRR, pare evidente che il livello della spesa pubblica in Italia abbia raggiunto livelli ormai insostenibili. Quel che è poi certo è che, a fronte di una spesa pubblica debordante e di un’enorme mole di quattrini intermediati dalla mano pubblica, il livello dei servizi non è adeguato (e molto spesso non ci siamo neppure dotati di strumenti per verificare il grado di efficienza – in termini appunto di qualità delle prestazioni rese e/o delle infrastrutture realizzate – di quanto spendiamo).

Sotto una prospettiva solo parzialmente differente, poi, sarebbe forse il momento di mettere almeno in dubbio l’asserzione per cui il pubblico sarebbe in grado di investire e/o allocare le risorse a disposizione meglio dei privati e/o dei diretti interessati, rivalutando in qualche modo il concetto di mano invisibile di Adam Smith.

Ma tornando alle tasse, è evidente come la questione fiscale sia fondante del concetto stesso di comunità (no taxation without representation): esattamente come, quando tra amici si decide di uscire a mangiare una pizza, non è un dettaglio stabilire chi e come si paga.

E’ poi di dominio pubblico come nel nostro Paese il lavoro sia tassato in maniera particolarmente pesante: si tratta del cd. cuneo fiscale, di cui da decenni si invoca la riduzione, evidentemente con scarsi risultati.

In un’intervista di qualche tempo fa, Roberto Costa, il ristoratore genovese che ha aperto una catena di ristoranti a Londra (Macellaio RC), alla domanda se aveva intenzione di ritornare in Italia ha risposto che nel Regno Unito “il costo del personale è circa il 36%, in Italia tra tredicesime, quattordicesime e TFR, si arrivava al 110%”: in altre parole, mentre da noi quello che percepisce in busta paga un lavoratore è meno della metà del suo costo complessivo a carico del datore di lavoro, a Londra il netto corrisponde a circa i 3/4 del costo complessivo. Game, set, match, la partita finisce qui, il differenziale tra i due sistemi è troppo elevato, a queste condizioni in Italia non possiamo essere competitivi.

Se le cose stanno così – e purtroppo stanno così per davvero -, la principale preoccupazione della nostra classe dirigente dovrebbe essere quella di rimuovere il gigantesco ostacolo che rende oggettivamente poco remunerativo lavorare nel nostro Paese (dove non a caso sostanzialmente si vive di rendita, di impiego pubblico e di pensioni, per lo più pubbliche pure quelle).

Ed invece, con un ribaltamento francamente incomprensibile della realtà, disconoscendo le più elementari regole del mercato del lavoro e dell’economia tra cui la fondamentale differenza – sostanzialmente marxiana – tra lavoro produttivo ed improduttivo (il lavoro produttivo è quello dell’impresa privata, che crea ricchezza e valore; quello improduttivo è tipicamente quello della Pubblica Amministrazione, che fornisce servizi utilizzando il prelievo fiscale del primo in una logica redistributiva), da noi si ritiene che la questione non sia sgravare il lavoro di costi assolutamente eccessivi ed esorbitanti.

In Italia – bypassando il problema – si sostiene che gli unici che pagano le tasse sono i lavoratori dipendenti, mentre le imprese, i professionisti e i lavoratori autonomi sono una massa di evasori fiscali: per risolvere la questione basterebbe convincere questi lazzaroni a pagare le tasse, come fanno già i dipendenti.

In realtà, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), le tasse dei lavoratori dipendenti le pagano in realtà i lazzaroni di cui sopra, ovvero i loro datori di lavoro.

E questo perché il cd. cuneo fiscale è un onere che grava concretamente sul datore di lavoro, sia da un punto di vista sostanziale, rappresentando un vero e proprio costo, che da un punto di vista formale, operando il meccanismo del cd. sostituto di imposta (per cui il dipendente neppure sa quali e quante sono le sue ritenute, che vengono pagate direttamene dal suo principale all’Erario).

In soldoni (è proprio il caso di dirlo), io so benissimo quanto costa all’anno la mia bravissima segretaria, mentre lei sa solo quello che prende come netto.

Se possibile, per il dipendente pubblico, che lavora presso una P.A. (e/o un Ente e/o una società partecipata e/o controllata), la situazione è ancora più gravosa per il povero lazzarone che ha messo su un’azienda con il proprio lavoro, risultando a suo carico – pro-quota con tutti gli altri delinquenti titolari di un’impresa e/o professionisti e/o lavoratori autonomi – non solo gli oneri contributivi e previdenziali del pubblico impiegato, ma l’intero bilancio dell’Ente di appartenenza (che in questo caso è datore di lavoro solo formalmente, traendo le risorse necessarie dal prelievo fiscale posto a carico dei contribuenti).

In definitiva, vale anche con riferimento al problema delle tasse quello che diceva Winston Churchill riguardo alle imprese: “alcune persone vedono un’impresa privata come una tigre feroce da uccidere subito, altri come una mucca da mungere, pochissimi la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che traina un carro molto pesante”.

Schiaffi, Sexting e libertà

28 Febbraio 2024 - di Paola Mastrocola

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Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.

Perchè le ragazze sono sempre più infelici? – Lettera da una adolescente 1

25 Febbraio 2024 - di Lettera firmata

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Pubblichiamo integralmente la lettera firmata da una quindicenne di Roma che chiameremo convenzionalmente Alessandra (useremo nomi convenzionali anche per le lettere successive che potete inviare a Hume.fondazione@gmail.com).

 

L’infelicità continua provata dai giovani è stata ultimamente un argomento del quale si è discusso molto. Dopo un’attenta lettura dell’articolo di Luca Ricolfi, seguita da una riflessione sia sui dati oggettivi, che quelli più soggettivi, mi sento di poter esprimere, in quanto ragazza completamente immersa nel contesto,  il mio pensiero.
Condivido il punto di vista su ciò che al giorno d’oggi la maggior parte delle ragazze si aspetta di avere, soprattutto in base ad alcuni canoni radicati nella società: bellezza, followers, like e tutta la gloria e apparente felicità che tutto questo può comportare. Dall’altro lato mi piacerebbe aggiungere a questa tesi sul disagio giovanile anche il ruolo fondamentale del gruppo, più o meno ristretto che sia, che nella vita delle adolescenti ha un’importanza e un peso da non sottovalutare. Molte di noi hanno il costante bisogno di sentirsi parte di una rete di amiche protetta, dove si è certe di avere approvazione e appoggio soprattutto in casi considerati critici (es. discussioni con altre ragazze al di fuori della propria cerchia); tutto questo però induce le ragazze che hanno più difficoltà per timidezza, introversione, insicurezze (che maggiormente riguardano l’aspetto fisico) ad essere completamente isolate e ritrovarsi spesso anche derise ed escluse da ogni evento che coinvolga gli altri elementi del loro ambiente. Davanti ad una situazione come questa i comportamenti spesso scelti dalle “vittime” sono due: da un lato si può scegliere la noncuranza, vivendo tranquillamente anche senza un appoggio continuo da parte di un gruppo, dall’altro lato però c’è tutta una fetta di persone che pur di non rimanere tagliate fuori cambiano sé stesse, fino ad apparire agli occhi degli altri perfettamente idonee per poter entrare a far parte della loro rete di amicizie. Durante questi processi, che un pò tutte abbiamo passato, si tende a mutare notevolmente quei tratti più personali e distintivi di ognuno di noi: io stessa mi sono dovuta adattare, modificando alcuni modi e atteggiamenti, ma alla fine bisogna fare la scelta decisiva tra l’indossare continuamente delle maschere per mostrare solamente un certo lato di sé, rivelandosi solo in piccola parte, oppure omologarsi completamente alla massa (diventando un cosiddetto NPC, non-player character, ovvero letteralmente un “personaggio non giocante”).
Dall’altro lato ci sono i ragazzi, i maschi, il cui ruolo all’interno della società è notevolmente cambiato negli ultimi anni. Sono certa che  anche loro abbiano interesse nel loro aspetto fisico, nella cura personale e nell’abbigliamento, ma secondo me nelle ragazze questi interessi rimangono sempre maggiori. Molti maschi nella fascia di età di cui stiamo parlando (10-19) non si curano più dello stretto necessario, per esempio non fanno skincare, non usano scrub, e spesso e volentieri quando fanno la doccia usano il primo shampoo che trovano senza sapere cosa sia. Al contrario la differenza si nota meno sulla questione dei gruppi perché anche i maschi tendono a formarne, ma mentre la selezione delle ragazze riguarda spesso aspetto fisico, followers e like, quella dei ragazzi è tendenzialmente ben diversa: a contare sono quasi sempre la squadra che si tifa, lo sport che si pratica e quello che si segue, oppure ci sono gruppi creati casualmente attraverso le scuole frequentate oppure le feste. Un altro punto di grande differenza tra maschi e femmine è che sempre più spesso e con sempre più cattiveria le ragazze tendono ad insultarsi a vicenda, soprattutto attraverso i social, sia con commenti pubblici che con giudizi notevolmente pesanti in privato, oppure attraverso diffamazioni in gruppi ristretti di amiche, il cui difetto è che già dopo poche ore saranno a conoscenza di tutte le persone vicine all’interessata; la probabilità che un ragazzo faccia una cosa del genere è molto bassa e nei rari casi i commenti tendono ad essere più contenuti e privati e, di conseguenza, forse meno influenti per chi li riceve.  
Per sottrarsi ad ognuno di questi cambiamenti sociali forse il modo migliore sarebbe quello di saper accettare e gestire le critiche, riconoscere i “veri” amici distinguendogli tra gli altri, ma soprattutto tenere a mente che ognuno di noi è un essere a parte, con emozioni e caratteristiche proprie che tutti noi dovremmo poter e voler difendere.

La frattura tra ragione e realtà 6 / Distruggere la scuola in nome della (ri)educazione

22 Febbraio 2024 - di Paolo Musso

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Sull’onda dell’emotività suscitata dal terribile assassinio di Giulia Cecchettin da parte del fidanzato tutte le forze politiche hanno approvato all’unanimità l’istituzione in tutte le scuole d’Italia di un corso obbligatorio di “educazione alle relazioni”. A parte l’obiettivo specifico, clamorosamente sbagliato, della lotta al “patriarcato” (che in realtà non c’entra nulla), a preoccupare è la logica di fondo di questi corsi, che stanno distruggendo la scuola in nome della (ri)educazione. Un’idea perversa che ancora una volta nasce da un pregiudizio comunista inconsapevolmente condiviso da molti non comunisti, ma stavolta pure da un pregiudizio liberista che piace molto anche a sinistra.

Quando ho fatto l’elenco delle idee comuniste che si sono così diffuse in Occidente da essere spesso condivise anche dagli anticomunisti (https://www.fondazionehume.it/politica/la-frattura-tra-ragione-e-realta-3-marx-e-vivo-e-lotta-dentro-a-noi-dodici-idee-comuniste-a-cui-credono-anche-gli-anticomunisti/) ne ho dimenticata una, oltretutto della massima importanza, perché, almeno a giudicare dalle vicende di questi giorni, è condivisa veramente da tutti: è quella della rieducazione del popolo.

I comunisti, infatti, hanno sempre avuto tra i loro dogmi indiscutibili che, essendo per definizione “dalla parte giusta della storia”, chi non è d’accordo con loro non è semplicemente uno che ha idee diverse, ma uno che ha, sempre per definizione, delle idee sbagliate. Esse perciò, nel suo stesso interesse, devono essere estirpate e sostituite con quelle giuste attraverso un opportuno processo di rieducazione.

Naturalmente, c’era una distinzione tra i “borghesi”, cioè i membri delle classi dirigenti, che di tali idee sbagliate erano i creatori e i promotori (allo scopo di proteggere i propri interessi economici, che per il marxismo sono sempre la spiegazione ultima di qualsiasi evento storico), e i “proletari”, cioè i membri delle classi popolari, che invece ne erano le vittime. Perciò nei regimi comunisti i primi venivano “rieducati” con metodi brutali, nei gulag o nelle cliniche psichiatriche, mentre per i secondi si puntava essenzialmente sulla scuola.

Ma questa attitudine è stata condivisa anche dai partiti comunisti che si sono trovati ad agire nei paesi democratici, che hanno sempre cercato di tradurla in pratica ogniqualvolta ne hanno avuto l’opportunità. Naturalmente, qui non era possibile spedire gli avversari politici nei gulag (anche se si è cercato più volte di spedirli almeno in galera: vedi per esempio Mani Pulite), per cui questo metodo è stato sostituito dalla gogna mediatica. Per il “popolo”, invece, il mezzo di indottrinamento privilegiato anche in Occidente è rimasto la scuola.

È un dato di fatto innegabile, di cui tutti abbiamo fatto esperienza, direttamente o indirettamente, che gli insegnanti di sinistra sono in media molto più determinati (e anche più abili) degli altri nel far passare la propria visione del mondo attraverso l’insegnamento ordinario delle proprie materie. In Italia, poi, questo fenomeno è stato ulteriormente accentuato dal patto non scritto, ma tuttavia ferreamente rispettato per decenni, stretto fra DC e PCI dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per permettere la loro coesistenza pacifica, per il quale (semplificando un po’, ma neanche tanto) i democristiani si sarebbero presi le istituzioni e i comunisti la società.

Sul breve e medio periodo questo patto ha favorito la DC, ma sul lungo periodo il conseguimento dell’egemonia culturale di gramsciana memoria all’interno della società italiana da parte del PCI ha finito per erodere, fino a farlo saltare, il controllo della DC sulle istituzioni. È per questo che in Italia la sinistra negli ultimi decenni ha sempre avuto un peso politico nettamente superiore alla sua consistenza elettorale, che non è mai arrivata ad essere maggioritaria.

Negli ultimi vent’anni o giù di lì, però, a ciò si è aggiunto un altro fenomeno, molto più grave e (purtroppo) anche molto più ampio, che ha contribuito a devastare la scuola come poche altre cose. Infatti, ogni volta che si manifesta qualche grave problema sociale che non sappiamo come risolvere, accanto all’immancabile ritornello “qui ci vuole una legge” parte subito l’ormai altrettanto immancabile “qui ci vuole un corso a scuola”, condiviso ormai non solo dalla sinistra, ma da tutta l’area liberal e a volte perfino dai suoi oppositori. L’ultimo esempio è quello del corso di “educazione alle relazioni” che dovrebbe risolvere il problema della violenza sulle donne, deciso sull’onda emotiva del terribile assassinio di Giulia Cecchettin.

Questa legge mostra con particolare evidenza l’assurdità e, di conseguenza, la dannosità di questo approccio. Per questo lascerò da parte tutta la questione  delle presunte colpe del “patriarcato”, che è già stata ampiamente discussa negli articoli di Ricolfi apparsi su questo sito (su ciò si vedano soprattutto i seguenti due: https://www.fondazionehume.it/societa/patriarcato-alle-radici-dei-femminicidi/ e https://www.fondazionehume.it/societa/il-singhiozzo-delluomo-maschio-a-proposito-di-violenza-sulle-donne/), giacché è specifica di questo caso, per concentrarmi su quegli aspetti più generali che sono invece diretta conseguenza di questo modo di affrontare i problemi.

1) Anzitutto, è davvero difficile capire come una persona sana di mente possa credere sul serio che chiunque abbia ucciso una ragazza (o abbia commesso qualsiasi altro crimine) l’abbia fatto solo perché nessuno gli aveva mai detto che è sbagliato.

2) Altrettanto difficile è capire come una persona sana di mente possa credere sul serio che gli studenti accettino di sentirsi dire che in campo sentimentale (o in qualsiasi altro campo) devono essere disposti ad accettare serenamente le avversità dalle persone che gestiscono la scuola odierna, dove tutto (ma proprio tutto) funziona in base al principio diametralmente opposto, cioè quello di proteggerli da ogni minima avversità.

3) Infine, è inquietante che questi corsi debbano essere tenuti da insegnanti opportunamente “formati” da psicologi (o da esperti di qualsiasi altro tipo). Anzi, è doppiamente inquietante. Anzitutto, infatti, ciò suppone implicitamente l’idea che solo degli “esperti” siano in grado di spiegare come ci si deve rapportare correttamente agli altri (il che implica che non solo gli insegnanti, ma anche le famiglie non siano ritenute in grado di farlo). In secondo luogo, come verranno scelti tali “esperti”? La psicologia non ha standard di giudizio oggettivi come la scienza naturale, per cui esistono scuole di pensiero molto diverse tra loro e quelle che si impongono come maggioritarie nella società lo fanno assai più per i propri “meriti” ideologici che per il proprio valore intrinseco. Di conseguenza, questa legge rischia di diventare il cavallo di Troia che la sinistra da molti anni cercava per introdurre definitivamente l’ideologia di gender nella scuola italiana, cosa che non le era riuscita nemmeno quando era al potere e che ora, in modo davvero paradossale, le è stata servita su un piatto d’argento dal primo governo di destra della nostra storia (tant’è vero che all’inizio tra le persone che dovevano sovrintendere al progetto era stata scelta Anna Paola Concia, ex deputata PD e nota esponente di tale ideologia, anche se poi il Ministro ha fatto marcia indietro). Ma, sia chiaro, il mio giudizio non cambierebbe neanche se venissero scelti psicologi di altre tendenze o se si trattasse di esperti di altro genere: è l’idea in sé stessa che gli insegnanti non siano in grado di educare i propri studenti senza essere indottrinati da qualche “esperto” ad essere inquietante.

Eppure, questa legge demenziale è stata approvata addirittura all’unanimità da tutte le forze politiche, con l’entusiastico appoggio del sistema mediatico e degli intellettuali. Quindi, delle due l’una: o le classi dirigenti dell’Occidente sono ormai composte quasi per intero da malati di mente o hanno ormai tutte interiorizzato l’idea di cui sopra, che cioè il “popolo” si comporta male perché gli vengono insegnati valori sbagliati, che in realtà servono a giustificare rapporti di potere (ultimamente economico), per cui la soluzione è rieducarlo, anzitutto attraverso la scuola.

Personalmente ritengo che siano vere entrambe le cose. In ogni caso, è facile vedere che, al di là delle differenze esteriori dovute ai differenti argomenti (corsi di cittadinanza contro la mafia e la corruzione; alternanza scuola-lavoro contro la disoccupazione; corsi di ecologia per combattere il riscaldamento globale; corsi sulle “abilità caratteriali” per superare il nozionismo; e ora, appunto, corsi di educazione affettiva per combattere la violenza sulle donne), tutti i corsi di questo tipo che negli ultimi anni sono stati introdotti (o si è cercato di introdurre) nella scuola condividono gli stessi tre demenziali presupposti che stanno alla base di questa legge:

1) La pretesa di risolvere un problema “facendo la predica” ai ragazzi, cioè insegnando loro in poche ore alcune semplicistiche regole di comportamento (che oltretutto spesso non hanno nulla a che fare con la vera natura del problema stesso), perlopiù presentate in modo intimidatorio e moralistico, puntando a colpevolizzare chi non le accetta anziché cercando di seguire un percorso di convinzione razionale, per il quale, d’altronde, non ci sarebbe il tempo (e spesso neppure gli argomenti).

2) La pretesa che i ragazzi prendano sul serio tale “predica”, che chiede loro serietà, sforzo e sacrificio, benché provenga dalla stessa istituzione che per tutto il resto dell’anno propone loro un modello di comportamento esattamente opposto.

3) La pretesa di basare questi corsi su giudizi forniti da “esperti” che vengono ritenuti per definizione “neutrali”, mentre non lo sono affatto, dato che per loro natura questi problemi non possono essere trattati in modo neutrale, come dimostra il fatto che al riguardo esistono profonde e inconciliabili divisioni, sia nella politica che nella società.

Il peggio, comunque, è che tutto ciò avviene, inevitabilmente, a scapito dell’insegnamento, non solo per il tempo che viene dedicato a questi “corsi di rieducazione”, ma anche per l’enorme carico di burocrazia aggiuntiva che ognuno di essi comporta. È vero che alla fine, benché molti lo volessero obbligatorio, questo corso sarà invece facoltativo, ma ciò vale solo per i ragazzi: le scuole saranno comunque tenute a fornirlo e gli insegnanti vedranno quindi aumentare ulteriormente il loro già pesantissimo carico di lavoro. Eppure, nessuno sembra preoccuparsene.

Ora, da parte della sinistra ciò è soltanto logico, giacché da tempo ritiene l’insegnamento tradizionale obsoleto e superato, se non addirittura reazionario e, come tale, almeno in parte corresponsabile dei problemi della società che in tal modo si vorrebbero risolvere. La cosa sorprendente è che sembri non curarsene neppure chi non condivide tale ideologia.

E ciò è tanto più grave considerando che il contributo che la scuola può dare alla soluzione di questi problemi consiste invece proprio nell’insegnamento tradizionale, che ha come scopo non risolvere questo o quel problema specifico, bensì formare la persona nella sua globalità (benché con accentuazioni diverse a seconda dell’indirizzo), in modo che poi la persona così formata sia in grado di dare il proprio contributo, piccolo o grande che sia, alla soluzione dei problemi specifici. In questo consiste l’autentica educazione, che, come dice anche la sua etimologia, significa “tirare fuori” ciò che i giovani hanno già dentro allo stato potenziale e non riempirli a forza di idee altrui, buone o cattive che siano, che si chiama invece indottrinamento.

Ciò è vero in generale, ma è particolarmente evidente proprio nel caso che stiamo discutendo. La vera ragione per cui uno può arrivare a voler uccidere la donna che ama è infatti la stessa per cui, in altre circostanze, può arrivare a voler uccidere i propri figli o sé stesso o entrambe le cose. E questa ragione è l’inconsistenza dell’io, la fragilità della persona, che di fronte a un dolore che non sa come tollerare o a un problema che non sa come risolvere sceglie di eliminarlo, distruggendolo e/o distruggendo sé stesso (e infatti spesso chi uccide la propria donna poi si suicida).

Questo è confermato dall’analisi fatta da Ricolfi sui dati dell’associazione femminista Non Una Di Meno, da cui risulta che delle poco più di cento donne che vengono uccise ogni anno in Italia appena il 15% ha meno di 40 anni, mentre la fascia di età più a rischio è quella dai 60 anni in su (https://www.fondazionehume.it/societa/femminicidi-un-problema-degli-anziani/). Si tratta quindi di un problema che non riguarda in modo particolare i giovani né, più in generale, nessuna particolare categoria sociale.

Ma questi dati ci dicono anche un’altra cosa, per quanto terribilmente incorrect, ma cionondimeno assolutamente vera: le donne che ogni anno vengono uccise in Italia sono molto poche (circa una ogni 300.000) e inoltre il loro numero è da tre anni costante, dopo un periodo di continua, benché lenta, diminuzione e per niente affatto in vertiginoso aumento, come ci viene ossessivamente ripetuto. Anche gli omicidi nel loro insieme sono in costante calo e negli ultimi 15 anni si sono più che dimezzati, essendo ormai poco più di 300 all’anno, cioè meno di uno al giorno e poco più di uno ogni 200.000 abitanti.

Quella che invece negli ultimi tre anni è davvero in preoccupante aumento è la violenza giovanile più spicciola, quella che va dal bullismo al teppismo fino alla microcriminalità vera e propria (dati Eurispes – Ministero dell’Interno: https://www.leurispes.it/criminalita-meno-omicidi-preoccupano-minori/). Quest’area comprende certo molti gravi atti di violenza contro le donne, ma anche, se non addirittura di più, contro gli uomini: nel 2022, per esempio, sono stati uccisi 23 uomini in risse o altri episodi di violenza minorile, cioè commessi da ragazzi con meno di 18 anni (per il 2023 non sono ancora stati pubblicati i dati definitivi).

È vero che, come ha ben spiegato Ricolfi (https://www.fondazionehume.it/societa/minori-e-violenza-sessuale-quel-che-dicono-i-dati/), questo aumento si deve quasi esclusivamente ai minorenni stranieri, ma ciò non fa che confermare il fatto che il metodo dei corsi di (ri)educazione non funziona, dato che l’inclusione sociale e il razzismo sono tra i temi che essi affrontano più frequentemente, eppure, a quanto pare, inutilmente.

A ciò va poi aggiunto l’aumento, altrettanto preoccupante, dei comportamenti autodistruttivi di ogni tipo (droghe, alcol, guida pericolosa, rave party, sfide estreme, ecc.), che coinvolgono in ugual misura ragazzi e ragazze, nonché la continua diminuzione dell’età di chi è coinvolto sia in queste pratiche che negli episodi di violenza.

Da questo quadro emerge chiaramente che il problema di fondo dei nostri giovani non è certo il “patriarcato”, né una qualsiasi altra ideologia, ma piuttosto il fatto che chi si sta affacciando alla vita cercando qualcosa – e soprattutto qualcuno – a cui guardare per darle un senso si trova sempre davanti (o meglio, quasi sempre: per fortuna qualche eccezione c’è ancora) adulti immaturi e disorientati che sanno solo oscillare tra l’indulgenza deresponsabilizzante e la predica moralistica, a seconda di dove li porta l’emozione del momento.

Un esempio drammatico di ciò si è visto quando in uno dei tanti cortei per Giulia (che in realtà erano essenzialmente cortei anti-uomini) qualcuno ha esposto un cartello che diceva: «Per Giulia brucia tutto» (visto su RAI 3 a In mezz’oradomenica 26 novembre). Queste parole sono state riprese ed enfatizzate in tono elogiativo da tutti i principali notiziari, come se contenessero chissà quale profonda verità, mentre si trattava solo di parole vuote e disperate – o meglio, di parole che erano il segno di un vuoto (anzitutto affettivo ed esistenziale, ma anche mentale e ideale) che chiedeva disperatamente di essere colmato da altre parole, di amore e di umanità, ma anche di saggezza e di conoscenza, e non certo di essere additato ad esempio di non si sa cosa da persone ancora più vuote.

Una celebre canzone di Luca Carboni diceva che «ci vuole un fisico bestiale per resistere agli urti della vita». Ecco, è questo “fisico bestiale” (ovviamente inteso in senso metaforico) che la scuola dovrebbe “allenare” nei suoi alunni. La scuola e la società di una volta lo facevano, anche se a volte in modo troppo duro, per cui è certamente giusto che oggi ci sia una maggiore attenzione ai ragazzi che hanno delle difficoltà. Il problema è che questo un po’ alla volta ha portato a un cambiamento non solo dei mezzi, ma anche del fine, che è diventato, sia nella scuola che nella società in generale, proteggere i ragazzi dagli urti della vita anziché farli diventare abbastanza forti per affrontarli quando, inevitabilmente, dovranno farlo.

Tale contesto spinge gran parte dei giovani a sviluppare una personalità narcisistica, egocentrica e istintiva, abituata ad avere “tutto e subito” e insofferente di ogni limite, il che li rende al tempo stesso fragili e aggressivi, come hanno molto ben spiegato i bellissimi articoli di Silvia Bonino, apparsi su questo stesso sito (https://www.fondazionehume.it/societa/consumismo-rivendicazione-di-diritti-individuali-e-violenza-contro-le-donne/), e quello di Vittoria Maioli Sanese, pubblicato sul sito di Tempi (https://www.tempi.it/giulia-cecchettin-filippo-turetta-femminicidi-vittoria-maioli-sanese/).

Rispetto a questo la scuola cosa può fare?

Molto, visto che in gran parte è essa stessa che ha causato il problema. Ma per farlo deve tornare a fare la scuola. Che significa essenzialmente due cose:

1) Primo, rimettere al centro l’insegnamento, perché un giovane cresce molto di più studiando la scienza, la letteratura, l’arte e la filosofia che ascoltando predicozzi moralistici sull’emergenza di turno.

2) Secondo, tornare ad essere selettiva. Che significa anzitutto valorizzare il merito, cosa su cui da tempo insiste giustamente Ricolfi, ma anche dire chiaramente che a scuola si va per imparare e quindi, pur con tutto l’aiuto che si può e si deve dare a chi è in difficoltà, se alla fine uno non ha imparato abbastanza non può e non deve andare avanti. D’altronde, la stessa crescita dei comportamenti autolesionistici tra gli adolescenti dimostra che essi in realtà desideranomettersi alla prova in sfide difficili, tanto che, siccome gli adulti evitano accuratamente di proporgliene (a parte lo sport, che infatti aiuta molto la formazione di una personalità equilibrata, ma non è per tutti), se ne creano essi stessi delle altre. Che poi queste risultino perlopiù distruttive è un altro discorso, che dipende essenzialmente dal fatto di essere lasciati a sé stessi, ma ciò non toglie che si tratti di una manifestazione della naturale propensione dei giovani a superare i propri limiti e che ciò di per sé sia un bene: sta agli adulti “incanalare” questa tendenza verso obiettivi positivi, anziché averne paura o, peggio ancora, negarne l’esistenza.

Ma è chiaro che un tale cambiamento non potrà accadere se si continuerà a pretendere dalla scuola che invece di educare si occupi di rieducare, rincorrendo affannosamente tutte le emergenze con pseudo-risposte che fanno sentire tutti più buoni, ma in realtà non risolvono nulla e, peggio ancora, non lasciano più ai docenti il tempo e le energie necessarie per fare il loro vero mestiere.

Prima, di chiudere, però, devo aggiungere che alla base di questa tendenza non c’è soltanto il pregiudizio ideologico di cui ho detto all’inizio, anche se questo è di sicuro la causa preponderante. Cionondimeno, vanno nella stessa direzione anche le frequenti richieste che provengono dal mondo delle imprese per avere un sistema dell’istruzione “più professionalizzante” (anche se in genere vengono rivolte più all’università che alla scuola: ma la logica è la stessa).

Qui la motivazione addotta è che oggi i giovani arrivano nel mondo del lavoro senza essere adeguatamente preparati ai compiti che dovranno svolgere, cosicché l’onere della loro formazione ricade sulle imprese. Ma l’onere della formazione al lavoro è sempre ricaduto sulle imprese: anzitutto perché dare una preparazione troppo specifica agli studenti sarebbe impossibile, perché richiederebbe di creare migliaia di corsi differenti; ma soprattutto perché non sarebbe auspicabile, giacché una formazione iperspecialistica preparerebbe per un unico lavoro, rendendo difficilissimo cambiarlo quando fosse necessario. Niente di nuovo sotto il sole, da questo punto di vista: non si tratta infatti che di uno dei tanti modi in cui molte imprese (non tutte, sia chiaro) cercano di scaricare sullo Stato (e quindi, in ultima analisi, sui cittadini) costi che invece dovrebbe toccare a loro sostenere.

La cosa stupefacente, però, è che queste richieste vengano dalle stesse persone che enfatizzano (a volte anche troppo: ne riparleremo) la mobilità dell’attuale mercato del lavoro, la fine del “posto fisso” e la conseguente necessità di “imparare a imparare” più che imparare contenuti determinati. Che non si veda la palese contraddizione tra queste due esigenze è un ulteriore segno di come la frattura tra ragione e realtà abbia ormai contagiato un po’ tutti, al punto che non basta a renderne immuni nemmeno svolgere un’attività che per sua natura dovrebbe obbligare alla massima concretezza.

Con ciò non sto dicendo che non ci sia un problema con i giovani che oggi si affacciano al mercato del lavoro: il problema c’è, ed è gravissimo. Ma esso non consiste nella mancanza di una preparazione specialistica, bensì nella frequente mancanza di qualità della loro preparazione di base, che rende in media più lento (e quindi più costoso) il percorso di formazione al lavoro.

Anche da questo punto di vista, perciò, la soluzione non è snaturare ulteriormente la scuola pretendendo che rincorra tutte le ultime (e spesso effimere) novità, ma chiedere che la scuola torni a fare la scuola, fornendo di nuovo una preparazione di base di qualità adeguata, a cominciare da quella umanistica, che molti, stupidamente, giudicano inutile per i lavori produttivi, mentre in realtà è fondamentale, perché è quella che insegna a ragionare, che è la base di qualsiasi lavoro e anche del tanto strombazzato quanto frainteso “imparare a imparare”.

È molto significativo che questa richiesta, che non nasce certo in un ambito di sinistra, venga spesso sostenuta anche da politici e intellettuali di sinistra. Essa, infatti, ha in comune col pregiudizio di sinistra sulla “rieducazione” il fatto che non punta sulla ragione e sulla libertà, ma sull’ideologia e sull’indottrinamento. E da questo punto di vista non fa nessuna differenza che in questo caso si tratti di un’ideologia tecnocratica anziché politica.

L’aspetto più preoccupante è che ancora una volta stiamo assistendo  a una convergenza tra ideologie di sinistra e di centrodestra in una sorta di “super-ideologia” liberal che ormai da tempo manifesta una crescente tendenza verso l’autoritarismo (cfr. https://www.fondazionehume.it/societa/la-frattura-tra-ragione-e-realta/).

Opporsi a tale tendenza può apparire un’impresa disperata, vista la sua dimensione globale. Ma forse, come spesso accade, scopriremmo che lo è meno di quel che sembra, se, anziché ragionarci su in astratto, cominciassimo ad opporci in maniera concreta a qualche sua concreta manifestazione. Per esempio, chiedendo che tutti i corsi di (ri)educazione vengano aboliti in tutte le scuole italiane, restituendo così ai docenti il tempo e le energie per dedicarsi adeguatamente al loro unico, vero e importantissimo compito: l’educazione.

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