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Se 68 suicidi vi sembran pochi… – Sulla politica carceraria

13 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

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Lunedì 1° gennaio 2024. L’anno nuovo inizia con un femminicidio, o meglio con l’uccisione di una donna (una definizione rigorosa e condivisa di femminicidio ancora non esiste). Otto giorni dopo, il 9 gennaio, i casi sono già saliti 6, quasi 1 al giorno. Se le cose andassero avanti a questo ritmo, alla fine dell’anno le donne uccise sarebbero circa 250, più del doppio di quelle (113) dell’anno appena terminato. Ma l’opinione pubblica, ultra-mobilitata per il caso di Giulia Cecchettin, è già in sonno.

Quello delle donne uccise non è l’unico tema su cui andiamo presto in sonno. Ci sono drammi su cui l’opinione pubblica, più che andare in sonno, è in letargo perpetuo. Il più clamoroso, probabilmente, è quello dei suicidi in carcere, l’ultimo dei quali risale a pochissimi giorni fa. Ogni tanto i quotidiani riferiscono di un caso, specie se ci sono indizi sufficienti a ipotizzare responsabilità penali nel comportamento di giudici, medici o personale carcerario. Ma raramente si tenta un bilancio o si apre una discussione.

Eppure i numeri, ormai, sono paragonabili a quelli delle donne uccise. Negli ultimi 30 anni, i suicidi in carcere sono stati quasi sempre dell’ordine di 1 alla settimana, quali che fossero i governi in carica, ma negli ultimi 6-7 anni hanno mostrato una inquietante tendenza all’aumento. Fino al 2017 la media era dell’ordine di 50 casi all’anno, ma negli ultimi anni è salita intorno a 65, con un picco di 84 casi (massino storico) nel 2022, regnante Draghi. Nell’ultimo anno i casi sono stati 68, il valore più alto degli ultimi 30 anni dopo quello del 2022.

Una differenza importante con le uccisioni di donne è che, nel confronto internazionale, la situazione dell’Italia è di gran lunga più grave sui suicidi in carcere che sulle uccisioni di donne. A livello europeo, ad esempio, siamo fra i paesi meno pericolosi in materia di femminicidi, ma fra i più insicuri in materia di suicidi in carcere (solo 5-6 paesi su 27, in particolare Francia e Portogallo, hanno valori nettamente peggiori dei nostri).

Ma c’è una seconda differenza importante fra il dramma dei femminicidi e quello dei suicidi in carcere, ed è che le cause dei femminicidi sono estremamente complesse, diffuse e difficili da decifrare in termini scientifici (anche se facilissime da denunciare in termini ideologici), mentre quelle dei suicidi in carcere sono chiarissime, ben localizzate, e proprio per questo relativamente neutralizzabili. Fra esse:  sovraffollamento carcerario (in forte aumento negli ultimi 2 anni), carenze di personale (guardie e operatori sociali), inadeguatezza delle strutture che dovrebbero occuparsi dei detenuti con problemi psichiatrici, insufficienza dei programmi di rieducazione, professionalizzazione e accompagnamento al lavoro.

La controprova ce la forniscono i paesi scandinavi, dove il tasso di suicidio della popolazione generale è ampiamente superiore al nostro, ma quello della popolazione carceraria è più basso: indizio evidente del fatto che trattamenti più umani possono incidere fortemente sui tassi di suicidio dei detenuti.

Come e perché si sia arrivati a questa situazione è abbastanza noto. Di fronte alle sacrosante e meritorie denunce della situazione carceraria da parte di associazioni e gruppi (Antigone, Ristretti Orizzonti, Nessuno tocchi Caino…), di fronte alla storica sentenza della Corte Europea di Strasburgo contro il sovraffollamento carcerario in Italia (2013), la maggior parte delle forze politiche hanno preferito puntare su amnistie, indulti, decreti svuota-carceri, misure alternative alla detenzione, depenalizzazioni, piuttosto che sostenere i costi di una umanizzazione delle carceri. È così che siamo arrivati alla situazione attuale, in cui le omissioni dei governi passati si vengono pericolosamente a sommare alle scelte securitarie del governo in carica.

Si può essere favorevoli o contrari alla linea attuale, che punta molte delle sue carte su moltiplicazione dei reati, inasprimento delle pene, misure di “incapacitazione” (mettere in condizione di non nuocere) verso gli autori dei crimini di maggiore allarme sociale, come risse, rapine, aggressioni, reiterati furti e borseggi. Ma, proprio perché la via imboccata dal nuovo esecutivo è securitaria, e inevitabilmente porterà a un aumento del numero di detenuti, credo che oggi meno che mai si possa chiudere gli occhi di fronte alla situazione delle carceri, di cui il dramma dei suicidi è il segnale.

Rendere, se non più sopportabile, almeno più umana la condizione di chi è in carcere, avrebbe dovuto essere uno degli imperativi categorici dei numerosi governi progressisti che si sono succeduti negli ultimi decenni. L’aver rimosso il problema non lo ha cancellato, ma lo ha consegnato al nuovo governo.

È paradossale, ma è così: della umanizzazione delle carceri dovrà occuparsi il governo di Giorgia Meloni.

Black Magic Woman

10 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. È martedì 5 dicembre 2023, sono passati 2 mesi dall’attacco terroristico di Hamas a civili israeliani. Tre presidenti di prestigiose università americane (tra cui Harvard) sono chiamate a rispondere ad alcune domande davanti al Congresso. Le domande girano intorno al quesito se, secondo le regole degli illustri atenei, invocare il genocidio degli ebrei costituisca oppure no bullismo o molestia (e sia quindi sanzionabile, secondo i codici accademici).

Le malcapitate presidenti, tutte donne e una pure black, cominciano a tergiversare e annaspare, e finiscono per rifugiarsi in un pilatesco “dipende dal contesto”. Di qui un mare di polemiche, che conduce alle dimissioni della presidente dell’Università della  Pennsylvania (la bianca Elizabeth Magill), poi a quelle della presidente di Harvard (la nera Claudine Gay). Al momento in cui scrivo, benché invitata ripetutamente a farlo, non si è ancora dimessa la presidente del MIT (la bianca Sally Kornbluth).

Può sembrare strano, e per qualcuno pure scandaloso, ma le risposte delle tre poverette, per quanto goffe, imbarazzate, e poco lucide, non erano poi così destituite di fondamento su un piano legale. Come ha subito notato Will Kreeley, direttore della Fondazione per i Diritti di Espressione dell’Individuo, effettivamente sul piano legale tutto dipende da come e in che situazione l’invito al genocidio viene formulato. Semmai, come non ha mancato di notare lo stesso Kreeley, è frustrante vedere i vertici accademici, così pronti alla censura quando viene infranta l’ortodossia woke, disseppelire scrupoli pro-libero pensiero (“free speech scruples”) solo sotto il fuoco di un’audizione congressuale. Il massimo dell’ipocrisia: nelle università americane gli studenti sono sanzionabili per le più minuscole ed evanescenti “micro-aggressioni”, ma diventano oggetto di pensose riflessioni sulla libertà di pensiero quando le vittime bisognose di tutela sono gli ebrei.

Ma la storia non è tutta qui. Anzi il lato più interessante viene dopo. Perché, mentre a Elizabeth Magill, presidente dell’università della Pennsylvania, bastano 4 giorni per decidere di dimettersi, a Claudine Gay, presidente della più prestigiosa università statunitense, occorrono ben 2 mesi. La lettera di dimissioni arriva solo il 2 gennaio, pochi giorni fa. Una lettera piena di belle frasi sulle meraviglie di Harvard e sul proprio impegno, ma parca di spiegazioni sulle ragioni delle sue dimissioni, e del tutto priva di scuse.

Che cosa, dunque, ha convinto la presidente di Harvard a dimettersi?

Semplice: l’accusa di plagio, basata sulla scoperta di numerosi passaggi copiati nella sua produzione scientifica (ne ho esaminati diversi, e devo dire che alcuni sono effettivamente inaccettabili, altri banali e perdonabilissimi). Il lato interessante della storia è però quel che è venuto fuori esaminando il suo curriculum accademico: la produzione scientifica della Gay, pluriosannata nei mesi scorsi in quanto prima donna nera eletta a capo della più prestigiosa università americana, è a dir poco imbarazzante. Specie nell’ultimo decennio, la prof.ssa Gay ha pubblicato pochissimo, e sulla qualità di quel poco che ha pubblicato non sono mancate perplessità e dubbi da parte di vari studiosi. Qualcuno ha azzardato una difesa dicendo: che cosa c’entra la produzione scientifica? se fai il rettore di Harvard quel che conta non sono i titoli accademici, quel che conta è che tu sia bravo a rastrellare fondi (o fundraising, che suona meglio). Probabilmente è anche vero, e infatti qualcuno ha notato che proprio per questo la Gay andava cacciata, visto che ci sono già le prime rinunce di donatori importanti (Ferragni docet, sui traffici della beneficenza tutto il mondo è paese).

Ma c’è un’altra lettura possibile, di cui si parla negli Stati Uniti, ma che è rimasta in sordina da noi. Qualcuno ha fatto notare che la vera ragione per cui una mediocre studiosa come la Gay è stata scelta per occupare il vertice della più importante università americana sono le sue “immutable characteristics”, ovvero le sue permanenti qualità innate di essere donna e di essere nera. In un mondo nel quale non si pensa più che lo scopo dell’università sia perseguire la verità, bensì sia di promuovere la Social Justice, non è poi così strano che quelle caratteristiche immutabili facciano miracoli, come pietre magiche: Black Magic Woman, come magistralmente cantavano i Santana mezzo secolo fa.

Verso le elezioni europee – I paradossi della soglia al 4%

7 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

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Il 2024 sarà un anno record per il numero di cittadini – 4 miliardi, quasi la metà della popolazione mondiale – che saranno chiamati al voto. Si voterà in India, negli Stati Uniti, in Europa, in Indonesia, in Pakistan, solo per citare le comunità più popolose. E pure in due dittature (o finte democrazie) come Russia e Iran.

Quanto all’Italia, elezioni regionali e comunali a parte (si voterà in 5 regioni e 3700 comuni), l’appuntamento fondamentale sono le elezioni europee di giugno, fra 5 mesi esatti.

Quando se ne parla, molto si discute del problema delle candidature. Non si sa se Giorgia Meloni e Elly Schlein decideranno di presentarsi come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni, ma si sa che le donne del Pd non vedono di buon occhio una eventuale “mossa leaderista” della segretaria, che metterebbe in ombra molte di loro.

Quello di cui poco si discute, invece, è un piccolo problema la cui soluzione o mancata soluzione potrebbe avere un grande impatto sul risultato in termini di seggi (l’Italia ne ha 76 a disposizione): il problema della soglia di sbarramento, attualmente al 4%. Come noto, la fissazione ed eventuale modificazione della soglia di sbarramento è materia di competenza nazionale, con un solo vincolo: l’asticella non può essere posta al di sopra del 5% (soglia adottata dalla Francia e da altri 8 paesi). Qualche tempo fa si è ipotizzato di abbassare la soglia al 3% per assicurare una rappresentanza anche alle forze minori, ma nulla finora è stato deciso in vista dell’appuntamento di giugno.

Perché, e per chi, la soglia è cruciale?

La soglia è cruciale per i partiti minori di sinistra e, indirettamente, per il Partito Democratico: Italia Viva, Azione, +Europa, Verdi, Sinistra Italiana attualmente attirano circa il 13% dei consensi, ma sono ben 5 partiti distinti. Nelle condizioni attuali, per superare la soglia del 4% dovrebbero federarsi, come in parte hanno già fatto (Verdi e Sinistra Italiana, Azione e Italia Viva), o tentato di fare (Azione e +Europa). Per sperare di superare il 4% tutti e cinque separatamente, infatti, il loro bacino di consensi dovrebbe essere dell’ordine del 25 %, circa il doppio dei voti di cui effettivamente dispongono. L’ultima supermedia dei sondaggi attribuiva loro appena il 13.1% dei consensi, senza concedere il 4% a nessuno dei cinque, e neppure all’alleanza a due Bonelli-Fratoianni (Verdi+Sinistra Italiana), ferma al 3.6%, risultato peraltro identico a quello delle elezioni politiche dell’anno scorso.

Allo stato attuale, le uniche formazioni che possono nutrire qualche timida speranza di superare il 4% sono Azione (che è data al 3.9%), e l’alleanza Verdi-Sinistra (che è al 3.6%). La lista di +Europa è addirittura sotto il 3%, e anche alle ultime elezioni europee lo aveva superato a malapena (3.1%).

Di qui alcuni scenari possibili. Se la soglia verrà abbassata al 3%, non è da escludere che i 5 partitini di sinistra corrano tutti o quasi tutti separatamente, e che a farcela – alla fine – siano solo Azione di Carlo Calenda e l’alleanza rosso-verde di Bonelli-Fratoianni. I voti sprecati sarebbero circa il 5%, ovvero quelli per Renzi più quelli per +Europa.

Ma se, come è abbastanza probabile, la soglia di sbarramento dovesse restare al 4%?

Allora, per la sinistra, le cose si farebbero complicate. Scegliendo di coalizzarsi in un paio di cordate, i partitini perderebbero un po’ di voti (è sempre così, quando ci si allea) ma almeno eleggerebbero qualche deputato. Scegliendo di andare ognuno per la propria strada, invece, preserverebbero le proprie identità, ma si esporrebbero a un grave rischio: l’invito del Pd al “voto utile” (votate per noi, se volete che il vostro voto conti).

Perché una cosa è abbastanza sicura, qualsiasi cosa dica ufficialmente Elly Schlein: se i cespugli della sinistra restano cinque, e ognuno corre per sé, l’elettore razionale, che non vuole sprecare il suo voto, è “costretto” a votare Pd. Il risultato del Pd alle Europee, in altre parole, dipenderà anche dalle strategie dei partitini di sinistra di fronte alla spada di Damocle dello sbarramento al 4%.

Con un esito paradossale: un buon successo del Pd, basato sullo spolpamento dei suoi potenziali alleati, potrebbe rafforzare la segretaria, ma – al tempo stesso – renderle più difficile rimettere insieme i cocci dell’alleanza in vista delle future elezioni politiche.

Consensi ai 3 partitini di sinistra

  Europee 2019 Camera 2022 Supermedia
Italia Viva 7.8 3.1
Azione 3.9
+Europa 3.1 2.8 2.5
Verdi 2,3 3.6 3.6
Sinistra italiana 1.8
TOTALE 7.2 14.2 13.1

Diritto alla rappresaglia (linguistica)?

6 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

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Bene ha fatto Chiara Valerio a definire “gesto dada” la piccola provocazione messa in atto da Cecilia Guerra (deputata Pd) quando, alla Camera dei Deputati, si è rivolta al presidente dell’assemblea Giorgio Mulé chiamandolo “signora presidente”. Altrettanto bene ha fatto Giorgio Mulé a provare a metterla sul ridere. E benissimo ha fatto il quotidiano Libero a prendersi la libertà (se no, perché chiamarsi Libero?) di proclamare Meloni “Uomo dell’anno”, come in passato era già successo con altre donne illustri. Nel 1999, la campagna elettorale per Emma Bonino Presidente della Repubblica ne esibiva una foto sorridente, con la scritta “Finalmente l’uomo giusto”. Per non parlare di Angela Merkel, spesso descritta come grande “uomo di Stato”, o addirittura come l’unico vero uomo di Stato di cui l’Europa disponesse.

Insomma tutto bene finché si resta sul giocoso. La lingua è anche un gioco, l’ironia è una risorsa insostituibile della lingua vivente, guai a chi prova a ingessarla con regole, divieti, intimidazioni più o meno arroganti.

Male, invece, hanno fatto altri. Tanto per cominciare, il deputato Marco Perissa (Fratelli d’Italia), che ha acceso la miccia chiamando “segretario” la segretaria del Pd Elly Schlein, ben sapendo che ella preferisce essere chiamata segretaria. In secondo luogo Cecilia Guerra, che anziché restare sul giocoso, si è spinta a teorizzare una sorta di diritto di rappresaglia linguistica: se il deputato Perissa si permette di chiamare “segretario” la segretaria del mio partito Elly Schlein, allora è lecito a me chiamare  Giorgio Mulé “signora presidente”. In terzo luogo, Elly Schlein, che improvvisamente accortasi che lo statuto del Pd, parlando sempre e solo di segretario del partito, finiva per legittimare il deputato Perissa, non ha trovato di meglio che annunciare un congresso per cambiare lo statuto del partito. Così suscitando
la contro-reazione di Perissa, infantile e logica al tempo stesso : “Finché lo statuto Pd dice che Schlein è segretario nazionale, la chiamerò così”.

Peggio di tutti, almeno ai miei occhi, ha infine fatto Michele Serra, che pare aver perduto il sense of humour che lo aveva reso famoso quand’era giovane e dirigeva Cuore (capolavoro assoluto della satira politica). In un serioso articolo nella sua rubrica su Repubblica, ha definito nientemeno che “inappuntabili sotto ogni punto di vista” le parole di Cecilia Guerra, aggiungendo che il ragionamento della deputata Pd – se tu chiamare uomo me, io chiamare donna te – “non fa una grinza” e “non c’è replica possibile”. Il tutto per lapidariamente concludere: “la deputata Guerra ha ragione, il deputato Perissa ha torto”.

Mah…

Siamo sicuri che non c’è replica possibile?

Io ne ho in mente parecchie, ma le più importanti sono due. Primo, la lingua da sempre ammette infinite variazioni e sfumature, sottigliezze e connotazioni, che ne costituiscono la ricchezza (e la potenza espressiva). La lingua è libera, e nessuno ha diritto di fissare le regole e le parole con cui dobbiamo rivolgerci agli altri, salvo un’unica basilare restrizione: mai offendere intenzionalmente. Da questo punto di vista, Giorgio Perissa e Cecilia Guerra non hanno l’uno torto e l’altra ragione, ma hanno torto entrambi, perché entrambi hanno deliberatamente usato il genere che l’interlocutore non gradiva. Entrambi hanno cercato di ferire.

Secondo. La pretesa degli intellettuali di regolare l’uso della lingua è l’espressione più plateale del “razzismo dei laureati” (copyright Federico Rampini). Una brutta bestia, non solo perché umilia i ceti meno istruiti, che con le sottigliezze dei legislatori della lingua non si raccapezzano, ma perché ingessa il discorso pubblico. Non vi siete accorti di quanto circospetti, prudenti, insipidi – e in definitiva noiosi – stiamo diventando per il terrore di essere beccati in fallo su un aggettivo, un avverbio, un accostamento?

Avanti così, e perderemo del tutto la nostra libertà.

La chiusura della mente progressista – A proposito di “egemonia culturale”

5 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Se c’è una cosa che, ogni volta, è capace di suscitare il mio stupore è il modo, sostanzialmente autolesionista, in cui i media progressisti parlano di Giorgia Meloni, e più in generale del suo primo anno di governo.

Ma forse, più che di stupore, dovrei parlare di incredulità. Non riesco a credere, infatti, che tutto – ma proprio tutto – quello che questo governo ha fatto nel primo anno sia sbagliato. Eppure è questo il messaggio che, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, riga dopo riga, battuta dopo battuta, vignetta dopo vignetta, promana dall’universo progressista. Dove il fatto sorprendente è che le critiche non riguardano solo le cose di destra che questo governo ha fatto, come i condoni, le norme ostili alle Ong, l’inasprimento delle pene per alcuni reati, ma anche le innumerevoli misure di sinistra che un’opposizione pensante e intellettualmente onesta avrebbe dovuto accogliere con sorpresa e compiacimento, anziché con rabbia e ostilità. La politica economico-sociale, dagli sconti in bolletta alla riduzione del cuneo fiscale, dalle misure a sostegno delle fasce deboli all’intervento sulle pensioni (punitivo verso i ricchi), ha avuto fin qui un chiarissimo segno progressista. Condoni a parte, non ricordo leggi finanziarie così univocamente sbilanciate a favore dei ceti medio-bassi.

Persino sulla politica migratoria, ci sarebbero molte cose da eccepire. Capisco che l’opposizione abbia sparato a zero sul decreto Cutro, sull’accordo con la Tunisia, sul progetto di smistare in Albania una parte degli arrivi, ma che dire della politica degli ingressi legali? Qualcuno ha notato che nessun governo precedente aveva mai programmato tanti ingressi per lavoro mediante i decreti flussi?

Certo, le lamentele dell’opposizione sugli innumerevoli problemi dell’Italia sono più che fondate: liste d’attesa inaccettabili negli ospedali, fuga dei cervelli, insegnanti mal pagati, scuole pericolanti, dissesto idrogeologico, bassi salari, alto debito pubblico, povertà. Ma come pensare che l’opinione pubblica sia così stupida e smemorata da mettere tutto questo in conto al governo Meloni, senza riflettere per un solo momento sul fatto che, dopo la crisi del 2011, l’unico partito che è stato quasi sempre al governo è il Pd?

Però, si dirà, il fatto è che la Meloni ha tradito tutte le sue solenni promesse. Le tasse restano alte, la legge Fornero non è stata abolita né superata, gli sbarchi sono triplicati, la criminalità dilaga nelle strade. Qualche commentatore, si avventura a pronosticare che, per l’imbarazzo di non aver saputo attuare il “blocco navale”, i media di destra e la tv pubblica – in vista delle elezioni europee – non oseranno più parlare di sicurezza, criminalità, immigrazione.

Anche qui, non ci posso credere: come non capire che, se critichi la Meloni perché non ha saputo fermare i migranti, stai chiedendo più destra, non certo più sinistra? che se denunci le troppe tasse, stai invocando più liberismo, non più welfare? come illudersi che esista un percorso logico che dalle promesse tradite di Giorgia Meloni possa condurre verso il voto a Elly Schlein?

Ma non è solo questo. La “chiusura della mente progressista” (per richiamare un felice titolo di Allan Bloom) va ben oltre queste stranezze della comunicazione. Il suo vero punto debole è sostanziale, e consiste nell’incapacità di rispondere alla domanda-chiave: perché i ceti popolari, da diversi decenni, guardano più a destra che a sinistra?

Accontentarsi della solita risposta – la destra parla alla pancia del paese, la destra fornisce soluzioni semplicistiche a problemi complessi – non è solo vagamente razzista (il popolo è ignorante e manipolabile), ma è drammaticamente controproducente perché non coglie i due tratti fondamentali che, finora, hanno reso la destra più attrattiva della sinistra. Il primo è che ci sono un sacco di cose giuste e di sinistra nella politica della destra. Il secondo è che la destra che Giorgia Meloni ha costruito e vuole rappresentare è culturalmente vicina al modo di sentire della maggioranza degli italiani, e in special modo dei ceti popolari. Una circostanza che, ove avessero ascoltato con animo aperto il discorso pronunciato ad Atreju, non sarebbe sfuggita neppure ai critici più prevenuti.

Quando solidarizza con l’inquilino che non può rientrare in casa propria perché gliel’ hanno occupata. Quando difende il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre, e a non essere separati dalla propria madre biologica. Quando prende le distanze dalle follie del politicamente corretto e della mentalità woke. Quando solidarizza con l’insegnante “sparata” e filmata dagli allievi, o stigmatizza i genitori che si fanno sindacalisti dei figli. Quando denuncia l’iniquità del reddito di cittadinanza se erogato a chi potrebbe lavorare. Quando, alludendo agli influencer come Chiara Ferragni, contrappone chi il made in Italy lo fa (a beneficio di tutti), a chi cinicamente lo sfrutta (a proprio esclusivo vantaggio).  In questi e tanti altri casi, Giorgia Meloni fa anche un discorso morale, che non piace a tanti intellettuali progressisti ma incontra, intercetta, e legittima sentimenti profondamente radicati nella sensibilità popolare, e più in generale nel senso comune.

Finché non prenderà atto di questo, la sinistra avrà ben poche chance di tornare al potere. E alla destra, forse, non occorrerà cimentarsi nella mission impossible di costruirsi una propria egemonia culturale: dopotutto, fra i ceti popolari l’egemonia ce l’ha già. E la chiusura della mente progressista, incapace di vedere quel che di sinistra c’è nella destra, e quel che di destra c’è nei ceti popolari, è – per Giorgia Meloni – la miglior polizza di assicurazione.

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