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Sul tramonto di Tinder – Crisi o resurrezione delle app di incontri?

11 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Che le ultime due generazioni (Millenials e Zoomers) non disdegnino ricorrere ai siti di incontri per trovare partner più o meno stabili è noto da una dozzina di anni, ossia da quando, nel 2012, venne creato Tinder, il sito più frequentato. Che questo fenomeno crei in molti utenti stress e frustrazione è altrettanto noto, oltreché ovvio. Che negli ultimi anni diversi utenti, giovani e meno giovani, abbiano abbandonato Tinder è pure risaputo. Quello che, invece, è meno chiaro è se il mercato di questi servizi sia in crisi o in espansione.

Alcuni dati generali fanno propendere per il declino. Se, ad esempio, consideriamo le app totali scaricate negli ultimi anni, si può notare che, dopo il boom del 2020 (dovuto al lockdown), si è avuta una contrazione nel 2021, una lenta crescita nei due anni successivi, e un calo nel 2024. Può sembrare una leggera crisi, ma bisogna considerare che, pur essendo le varie app scaricabili in quasi tutti i paesi del mondo, il fenomeno è quasi interamente occidentale. La vera notizia, quindi, è che – a differenza di altri consumi – questo tipo di servizi non si sta espandendo nel resto del mondo. E anche considerando le società avanzate (occidentali o occidentalizzate), il grado di penetrazione è modesto: i pochi dati che circolano parlano di meno di 200 milioni di utenti, su 1 miliardo di persone. Se poi passiamo alle cifre di quanti pagano e al fatturato, il quadro si fa ancora più negativo: gli utenti paganti sono circa 1 su 7, e il fatturato globale del settore (in tutto il mondo) è dell’ordine di 4-5 miliardi di euro, grosso modo un decimo del fatturato di Vodafone in Italia. Insomma: stiamo parlando di una industria piccola, che vale più o meno 1 centesimo di quella del porno. E i cui numeri in borsa sono calanti.

Fin qui, dunque, crisi del settore. Se però per un momento abbandoniamo Tinder (la app principale), che è in crisi da 4-5 anni, e prendiamo in considerazione altre aziende di incontri, il quadro cambia notevolmente. Due app in particolare, Bumble e Hinge, sono in crescita da diversi anni, e considerate insieme hanno ormai quasi raggiunto Tinder, con circa 60 milioni di download nel 2024. Senza l’apporto di queste due app emergenti, il mercato sarebbe in crollo verticale.

Perché?

La ragione pare essere la loro filosofia, che per certi versi è opposta a quella di Tinder. Quest’ultima è strutturata in modo tale da favorire nettamente due minoranze: i maschi belli e fisicamente attraenti (i cosiddetti hot men), che possono ottenere facilmente la donna che vogliono, e le donne che cercano solo sesso. Tutti gli altri (maschi non bellissimi e donne alla ricerca di una relazione stabile), che costituiscono circa l’80% degli utenti di Tinder, hanno scarsissime possibilità di successo e sono destinati ad accumulare frustrazioni, come ha ben spiegato Tomas Pueyo in un recentissimo post (The Problem with Dating Apps). Questo vuol dire che il declino di Tinder era, in certo senso, già inscritto nella sua architettura, che ne fa una macchina delle illusioni (da ultimo supportata dall’intelligenza artificiale).

Del tutto diversa, per non dire opposta, la filosofia di Bumble e Hinge. La prima (Bumble) si caratterizza perché tiene conto dell’asimmetria di potere e di aspettative fra maschi e femmine, che viene neutralizzata concedendo solo alle donne di fare la prima mossa (i maschi non possono interagire con donne che non li hanno selezionati).

La seconda app (Hinge) si indirizza sia a maschi sia a femmine, ma si dà come missione quella di favorire l’instaurazione di relazioni stabili, con conseguente uscita dalla app. In altre parole, il fine ultimo di chi va su Hinge deve essere il distacco dalla app, reso possibile dall’incontro con il partner o la partner giusti: una sorta di rivalutazione laica e tecnologica del matrimonio d’amore.

In una prospettiva simile, ossia di rivolgersi a target ristretti e relativamente ben definiti, sembrano orientarsi anche altre app che stanno ottenendo notevoli adesioni, ad esempio Grindr, che si rivolge al mondo LGBT.

Forse, a dispetto del declino di Tinder, sul mondo dei siti di incontri non è ancora calato il sipario.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 giugno 2025]

A proposito dell’epidemia di solitudine – Le conseguenze dell’amore

9 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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I sociologi americani se n’erano accorti già a metà degli anni ’80, allorché Robert Bellah ebbe a pubblicare il volume Le abitudini del cuore (sottotitolo: Individualismo e impegno nella società complessa): l’individualismo esasperato della società americana (ma il discorso vale per quasi tutte le società occidentali) erode inesorabilmente il senso di comunità e l’impegno civico. E 15 anni dopo un altro sociologo americano, Robert Putnam, sembrò chiudere definitivamente il discorso con un libro sconsolato, Bowling Alone (giocare a bowling da soli), in cui constatava la distruzione del tessuto comunitario, il declino dell’associazionismo, la contrazione delle relazioni faccia a faccia.

In queste analisi, tuttavia, la preoccupazione principe degli studiosi era l’erosione del “capitale sociale”, fatto di partecipazione e impegno pubblico, più che la condizione dell’individuo. È vero che la condizione umana che traspariva da quelle analisi era quella di individui sempre meno connessi, e quindi sempre più soli, ma è solo recentemente che, grazie soprattutto ad alcuni psicologi sociali americani (Haidt e Twenge su tutti), la solitudine del singolo individuo è diventata l’oggetto e il centro degli studi. Oggi, diversamente da ieri, si parla esplicitamente di “epidemia di solitudine”, e il fenomeno è diventato oggetto di attenzione da parte di psicologi, medici, operatori sociali, schiere di terapeuti di ogni specie. Persino l’Organizzazione mondiale della sanità, un paio di anni fa, ha definito la solitudine “una preoccupazione globale per la salute pubblica”. Per non parlare dei governi che, come quello britannico e quello giapponese, non hanno trovato di meglio che istituire un “ministero della solitudine”.

In effetti i dati, sia quelli comportamentali (come usi il tuo tempo?), sia quelli soggettivi (come ti senti?), supportano pienamente l’idea di una epidemia di solitudine, soprattutto fra le ultime generazioni (Millenials e Zoomers), e in special modo specie nei paesi occidentali.

Ma qual è l’origine di questa ondata di solitudine?

I sociologi tendono a rispondere: è l’individualismo, bellezza! La ricerca ossessiva della felicità e l’imperativo dell’autorealizzazione tolgono spazio alle forme tradizionali della socialità, basate sull’associazionismo e i riti comunitari. Gli psicologi sociali osservano che l’epidemia di solitudine e i sintomi di disagio si sono moltiplicati dopo l’invenzione dell’iPhone4, che ha enormemente facilitato l’accesso a internet e ai social.

Uno sguardo più lungo, tuttavia, suggerisce che, forse, un fattore importante sono state anche le modificazioni della nostra concezione dell’amore, e più in generale dei rapporti con l’altro sesso. Modificazioni che non datano da oggi, ma risalgono ai primi anni ’70, quando è iniziato il lungo processo di disgregazione (o superamento?) della famiglia tradizionale. Secondo il filosofo francese Pascal Bruckner è proprio l’affermazione del matrimonio d’amore, basato sulla passione e la libertà individuale anziché sull’interesse e sul bisogno di sicurezza, che ha reso le relazioni più instabili, più brevi, più a rischio (Il matrimonio d’amore ha fallito?, 2011). E questo ben prima dell’avvento di internet e della vita online: il crollo dei matrimoni e la moltiplicazione di separazioni e divorzi hanno preceduto di diversi decenni la nascita dei social, che hanno dovuto attendere l’invenzione dell’iPhone4 (2010) per decollare veramente.

Ma, anche qui, forse la novità più importante non è che i social hanno confinato un paio di generazioni di giovani nelle loro stanzette, sottraendo tempo ed energie alle interazioni faccia a faccia. La vera novità è che, insieme ai social, sono nate le piattaforme di incontri (come Tinder, Bumble, Hinge), che hanno consentito a tutti, giovani e meno giovani, di inaugurare una nuova stagione nella ricerca del partner. Una stagione in cui la visione romantica, dominante nella seconda metà del secolo scorso, sta progressivamente cedendo il posto a una concezione disincantata, pragmatica, o mercatista, in cui ciascuno opera come mero consumatore, che sfoglia il catalogo dei partner che la piattaforma gli sottopone, alla ricerca più o meno ansiogena di “match”, ossia di potenziali corrispondenze fra domanda e offerta.

Che cosa c’entra questo con la solitudine?

Lo spiega bene un recente report di Tomas Pueyo, brillante analista dei dati attivo negli Stati Uniti: le app di incontri hanno fallito, gli utenti si stanno rendendo sempre più conto che ne beneficiano solo due minoranze (i maschi molto attraenti e le donne che cercano solo sesso) e che la base di tutto è la finzione (profili inventati, ora anche con l’aiuto dell’intelligenza artificiale). La conseguenza è l’aumento del senso di solitudine, aggravato da una circostanza: avendo passato troppo tempo online, e avendo rinunciato a imparare l’arte del corteggiamento durante gli anni giovanili, diventa sempre più difficile rientrare nel mondo reale, un po’ come accade ai reduci di una guerra quando tornano a casa. Se la prima ondata di solitudine, quella iniziata negli anni ’70 del secolo scorso, era il (paradossale) risultato del trionfo dell’amore romantico, la seconda ondata sembra essere, semmai, il frutto dell’abbandono degli ideali romantici, travolti dagli algoritmi di match fra utenti alla ricerca del partner ideale.

Cumulando i loro effetti, le due ondate hanno prodotto uno degli esiti più sconcertanti del nostro tempo: la proliferazione delle “famiglie unipersonali”, ossimoro con cui i demografi indicano le persone che vivono da sole. Il peso di queste “famiglie non-famiglie” era rimasto prossimo al 10% per tutta la storia d’Italia, fino alla fine degli anni ’60. Era balzato al 25% alla fine del millennio, dopo 30 anni di femminismo. Oggi, dopo 20 anni di internet e di social, è arrivato a sfiorare il 40%: niente meglio della demografia ci mostra “le conseguenze dell’amore”, per dirla con il celebre film di Paolo Sorrentino.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 giugno 2025]

De Felice e gli azionisti

9 Giugno 2025 - di Dino Cofrancesco

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Eugenio Di Rienzo, Professore Emerito di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma e Direttore della prestigiosa ‘Nuova Rivista Storica’, nel suo recente saggio, Renzo De Felice, Leo Valiani e gli amici azionisti, ha raccolto lettere e articoli di Renzo De Felice, di Alessandro Galante Garrone e di Leo Valiani, per suffragare una tesi che, con tutta franchezza, mi riesce difficile condividere. E’ la tesi secondo la quale «De Felice, certo naturaliter destinato a divenire un grande storico, grazie anche al fondamentale apporto del padrinaggio intellettuale di Cantimori» non sarebbe divenuto il più grande storico del fascismo «senza il rapporto instaurato con gli ‘amici azionisti’. E questo non tanto per i subsidia e i consigli fornitigli negli anni del suo esordio nell’arena accademica, che De Felice contraccambiò abbondantemente con i tanti materiali messi a disposizione di Galante Garrone e specialmente di Valiani, come il lettore potrà appurare leggendo la raccolta di lettere pubblicata alla fine di questo saggio. Ma per il sostegno morale ricevuto nel difficile periodo del suo tirocinio, indispensabile a ogni apprenti historien, e poi per quel dialogo ininterrotto, dove gli elogi si alternavano alle critiche, anche le più taglienti, e soprattutto per quel rispetto intellettuale e umano che si mantenne sempre intatto. Anche durante gli ultimi decenni della sua “vita difficile”, quando le loro rispettive posizioni, che si erano molto allontanate, trovavano e in ogni caso cercavano di trovare un punto di dialogo e in qualche caso persino di convergenza».

Nel suo comprensibile rimpianto per un «’mondo di ieri, oggi, purtroppo, definitivamente scomparso», Di Rienzo scrive che « con tutti i loro contrasti, i rapporti umani e scientifici tra l’autore della biografia di Mussolini, Venturi e gli altri “amici azionisti”, Galante Garrone, Valiani |…| non possono non essere letti, a distanza di un sessantennio, come la testimonianza di una stagione felice e purtroppo irripetibile, dove nel mondo accademico regnava ancora il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione, la solidarietà tra studiosi di diversissime tendenze politiche. Una solidarietà che oltrepassava ogni steccato ideologico e che faceva tornare alla mente quella familiaritas che, secondo Ludovico Ariosto, costituiva il tratto distintivo di un rapporto tra pari nel quale si manifestava ‘la gran bontà de’ cavalieri antiqui ‘».Di Rienzo sembra vedere solo il piano dei rapporti personali di discepolato che un tempo si instauravano tra gli storici anziani e i giovani, caratterizzati da generosi consigli e incoraggiamenti, soprattutto quando si trattava di galantuomini come Galante Garrone e Valiani. E giustamente rimarca le differenze di stile tra i Maestri d’antan e i loro successori fanatici e superpoliticizzati. L’accoglienza che i primi riservarono ai volumi della biografia del duce è incomparabile con la rabbiosa reazione di quanti denunciavano il tradimento della Resistenza e ‘la pugnalata dello storico’, per riprendere il titolo di una famosa stroncatura di Nicola Tranfaglia. E tuttavia, ci si deve chiedere onestamente, intellettuali militanti come Ernesto Rossi–che definì De Felice «un piccolo mascalzone manovrato da un qualche personaggio potente che non sono riuscito a identificare»–o Nicola Tranfaglia, che nel libro Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Ed .Dalai 2010, intendeva mettere a fuoco il nucleo centrale dell’ideologia socialista liberale poi confluita nel Partito d’Azione, non appartenevano alla galassia azionista?. E non vi apparteneva Norberto Bobbio che alla ‘vulgata antifascista’ mise il timbro della sua autorevolezza?

In realtà, come ben documenta Di Rienzo nella seconda parte del testo, le recensioni ai volumi di De Felice su Mussolini scritte da Galante Garrone e da Valiani, erano, sì, civili e misurate ma rivelavano un dissenso radicale su punti fondamentali e qualificanti del ‘revisionismo’ defeliciano.

In uno scritto del 2005, Il ritorno dell’azionismo, Di Rienzo scriveva « nel nostro paese, oggi, i valori dell’azionismo sono diventati i veri valori di riferimento della sinistra. Date un’occhiata alle librerie politicamente corrette. Neanche a pagarlo oro troverete un volume di Lenin. Scomparse dagli scaffali le opere di Marx. Anche Togliatti scarseggia. Grande abbondanza invece dei volumi di Gobetti e Carlo Rosselli, i padri nobili di quel movimento. Buon successo arride alla biografia di Ferruccio Parri. Si susseguono le ristampe degli scritti di Massimo Mila, Franco Venturi, Alessandro Galante Garrone, Carlo Levi. Nelle loro pagine ritorna il vecchio mito azionista della ‘resistenza tradita’, dell’unica rivoluzione italiana che sarebbe riuscita a rigenerare la nazione, a svellere la mala pianta del clericalismo, del capitalismo avventuriero, della continuità tra fascismo e repubblica». Per fortuna, proseguiva Di Rienzo, «la nostra gente rifiutò quella astrusa miscela di snobismo liberale e di velleità populiste. Disse no ad un processo epurativo che avrebbe disgregato in un colpo solo gli apparati finanziari, economici, burocratici del paese».

Il fatto è che De Felice rappresentava una cultura autenticamente liberale laddove l’azionismo si poneva sul piano di una rivoluzione che voleva essere più ardita e progressiva di quella sovietica. Come scriveva Franco Venturi in Socialismo di oggi e di domani, ’Quaderni dell’Italia libera’n.17, dicembre 1943 (a firma Leo Aldi): «Impossibile capire la critica che i fatti hanno esercitato sul socialismo se non si pone al centro l’idea che tutta la nostra epoca è epoca di realizzazione del socialismo. Dopo esser stato aspirazione e utopia, movimento ed ideologia, il socialismo si è mescolato con la realtà, ha reagito su di essa e ne è stato, naturalmente, trasformato e sconvolto. L’unico modo oggi per curarsi radicalmente da ogni antistorica visione dì un futuro ‘regno’ socialista (con i relativi riflessi psicologici che vanno dal terrore del borghese all’entusiasmo alquanto vuoto del rivoluzionario) è proprio quello di dirsi che in epoca socialista ci stiamo vivendo, che l’aria che respiriamo, gli istinti a cui obbediamo sono in fondo dettati da un atteggiamento che, storicamente, non possiamo non chiamare socialista». Non si pensava a riportare in Italia una democrazia liberale di tipo classico—con l’alternanza di laburisti e conservatori al governo—ma a una vera e propria ‘nuova civiltà’.

Certo, in seguito, Leo Valiani ,vicino al PRI, divenne una ‘risorsa della Repubblica’ e giustamente venne nominato senatore a vita– e Galante Garrone contese a Bobbio, sulla ‘Stampa’, il ruolo di mentore della nazione ma resta che la loro visione del fascismo non contribuiva, al di là dei toni pacati (ma non sempre) a fondare , nel nostro paese, ‘valori comuni’, impensabili finché nel famigerato ventennio si fossero viste in azione solo le forze del Male.(Anche se Valiani aveva dedicato ai caduti della guerra civile delle due parti, le bellissime memorie. Tutte le strade conducono a Roma, che avevano quasi commosso De Felice).

Sennonché, a parte le valutazioni storiche sull’Italia in camicia nera, a dividere De Felice e gli ‘amici’ azionisti, erano concezioni della ricerca storica assolutamente incompatibili. E questo forse è il punto centrale di cui si dovrebbe tenere massi-mamente conto. Per gli storici azionisti (quelli seri) lo storico è un onesto magistrato democratico che prende atto del reato , convoca le parti, le ascolta con attenzione e stabilisce chi ha ostacolato il progresso civile di un popolo e chi, invece, si è battuto per la libertà e la democrazia. Per lo storico classico, come intendeva essere De Felice con i suoi richiami a Leopold von Ranke, ci sono solo fatti, drammi e individui che scelgono da che parte stare (o non stare) con le più diverse motivazioni. Si tratta di comprenderli, non di giudicarli, lasciando al lettore la libertà di riconoscersi nelle ragioni degli uni piuttosto che in quelle degli altri.

Scienza e morale appartengono—con Max Weber ma anche con Benedetto Croce e con Raymond Aron– a due diverse dimensioni esistenziali. Sta qui la quintessenza del liberalismo che è pluralismo preso sul serio. I valori di Giuliano l’Apostata sono oggetto di conoscenza come i valori dei cristiani perseguitati. La valutazione etica non spetta allo storico ma ad ogni uomo interessato alla storia dell’imperatore (e allo stesso storico purché disposto a uscire dal suo ruolo..). I valori, quelli dei prota-gonisti degli eventi, vanno riguardati come fatti che, insieme ad altre cause—più o meno strutturali—, motivano l’agire: non sono le lenti del ricercatore senza le quali sarebbe impossibile mettere a fuoco la realtà. L’amore del ricercatore per la libertà non garantisce l’individuazione e la comprensione dei suoi (veri o presunti) nemici. Di qui l’importanza dei documenti che, di per sé, non spiegano ma contribuiscono a far capire sia le azioni che gli stati della mente che le motivano.

Quando l’elogio di De Felice consiste nel riconoscere che «ricercava i documenti come un cane da tartufi» vien quasi da sorridere ,pensando a certo malcostume universitario e alla divisione di compiti tra il giovane assistente che si smazza negli archivi e il cattedratico che, grazie al suo lavoro, può scrivere opere destinate a ‘fare storia’. Nell’uso che ne fa De Felice i documenti non sono un mero accumulo di dati ma il machete che si fa largo nella sterpaglia dei miti e delle ideologie.

[articolo pubblicato il 6 giugno 2025 su Lettera150]

Il governatore De Luca e il senso comune

4 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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C’è una certa ripetitività, selettività e pure teatralità, nelle fiammate retoriche che accompagnano ogni femminicidio che abbia guadagnato l’attenzione dei media. Il caso di Martina Carbonaro, la quattordicenne uccisa a sassate dal suo fidanzato quasi diciannovenne, non fa eccezione. Fotografie sui giornali, interviste ai genitori della vittima e dell’assassinio, fiumi di indignazione da parte di scrittrici e giornaliste, costernazione del mondo politico, accuse al governo per non aver ancora varato l’unico (presunto) rimedio efficace: l’educazione sessuo-affettiva obbligatoria a scuola, fin dalle elementari.

C’è una differenza, però – una sola ma importante – nell’ultima vicenda, quella della povera quattordicenne di Afragola: il battibecco, andato in scena a Napoli, fra il governatore Vincenzo De Luca e Valeria Angione (una autoproclamata influencer). La pietra dello scandalo è stata una frase di De Luca in cui faceva notare l’anomalia di un fidanzamento che la ragazza uccisa (14-enne) aveva iniziato a 12 anni, con un ragazzo molto più grande di lei.  De Luca è stato immediatamente interrotto e stigmatizzato in quanto il suo commento avrebbe scaricato sulla vittima la colpa del suo carnefice, che – secondo la Angione – l’avrebbe uccisa “perché maschio”.

Ma De Luca non si è lasciato intimidire, e ha aggiunto un invito: “direi a quelli della mia generazione di essere padri e madri, non finti giovani”.  Poi la discussione è proseguita burrascosamente, e De Luca ha affrontato di petto il tema più scabroso, cioè il doppio problema della libertà della donna e della prudenza.

“In genere c’è un dibattito anche sul modo di presentarsi. Siamo libere, la donna deve presentarsi come vuole, mettersi mezza nuda… Nessuno deve dire nulla. Non c’è dubbio, io ho il diritto di fare quello che voglio (…) Poi ti posso dire, da padre, che forse, siccome abbiamo un mondo nel quale ci sono persone con un po’ di disturbi, un po’ di fragilità, è ragionevole avere un po’ di prudenza? Non contesto il tuo diritto, ti dico cerchiamo di essere umani, e di capire la realtà, altrimenti moriamo di ideologismi”.

Apparentemente, niente di nuovo. Discussioni di questo tipo ci sono sempre state dopo femminicidi, violenze sessuali, stupri. Da una parte c’è chi dice che, per ridurre i rischi, le ragazze farebbero bene a vestirsi in modo sobrio, non frequentare determinati luoghi, non rientrare da sole a notte fonda, non ubriacarsi o drogarsi in discoteca. Dall’altra c’è chi, di fronte a simili raccomandazioni, dice che equivalgono a colpevolizzare la vittima, accusandola di “essersela andata cercare”.

Qual è la novità dunque?

La novità sta nelle reazioni. Mentre i principali media hanno reagito nel solito modo, facendo intendere che le parole di De Luca avevano fatto scoppiare una polemica, il pubblico della rete ha reagito in un unico modo: dando pienamente ragione a De Luca. Nel giro di poco tempo, sul sito di Fanpage (notoriamente progressista) sono piovuti più di 1000 commenti (con circa 300 mila visualizzazioni del battibecco), la stragrande maggioranza dei quali schierati con il governatore della Campania, e non di rado ultra-critici con la Angione. Personalmente non avevo mai incontrato, visitando i siti che pubblicano uno scambio polemico, una simile unanimità di reazioni.

Morale. Ci sono questioni che sono controverse solo sui media, mentre la gente ha le idee chiarissime. Sono solo gli scrittori, gli intellettuali, i giornalisti, i conduttori tv, i politici che si dividono su frasi come quelle di De Luca. Perché la gente sa benissimo che raccomandare a una bambina di non comportarsi come una imprudente “femme fatale” non significa affatto giustificare i suoi possibili stupratori o assassini, ma semplicemente cercare di abbassare la probabilità che qualcuno le faccia del male. La gente lo sa perché, quando si tratta di cose serie (e i femminicidi lo sono), non usa l’ideologia ma il senso comune: una facoltà intellettiva che il circo mediatico sembra aver completamente smarrito.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 giugno 2025]

Disegno di legge sul femminicidio – Più o meno padre?

3 Giugno 2025 - di Luca Ricolfi

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Il disegno di legge sul femminicidio torna a far parlare di sé, come già era successo qualche mese fa, al momento del suo annuncio. Con una novità: il ritorno di argomenti paleo-sessantottini contro l’uso del diritto penale come mezzo di contrasto di determinati delitti. Il ragionamento è sempre lo stesso: il fenomeno (in questo caso il femminicidio) è complesso, le sue cause sono sociali e culturali, le misure repressive sono inefficaci, dobbiamo prevenire, non reprimere (su questa linea, in particolare, si sono mosse un’ottantina di giuriste che hanno proclamato la loro contrarietà al disegno di legge).

Si tratta di un fatto nuovo perché, al momento della presentazione, il testo di legge aveva invece goduto di un sostegno bipartisan. L’8 marzo, a un convegno femminista cui ero stato invitato, mi era accaduto di ascoltare non pochi interventi a favore delle nuove norme (che non riguardano solo l’introduzione del reato di femminicidio) anche da parte progressista. Più in generale, la maggior parte delle critiche inizialmente formulate erano state di natura tecnica (difficoltà di stabilire quando una donna viene uccisa “in quanto donna”) o di tipo costruttivo (mancanza di risorse economiche adeguate). Ora non più. Forse per la concomitanza con il disegno di legge sicurezza, i toni si vanno facendo sempre più aspri. Il disegno di legge sul femminicidio, che peraltro – oltre alla definizione del nuovo reato – contiene numerose norme di contrasto alla violenza di genere, viene attaccato in quanto repressivo e perciò stesso inefficace. Nell’appello delle giuriste, ad esempio, con considerevole spregio delle regole delle scienze sociali, si afferma apoditticamente che “osservando la realtà, si può constatare come qualsiasi intervento repressivo svincolato da azioni di perequazione sociale ed economica e da strategie di prevenzione, di tipo innanzitutto culturale, risulti del tutto inefficace”. E da più parti si torna ad ascoltare il mantra dell’educazione sessuale/sentimentale nelle scuole, vista come via maestra per sradicare il patriarcato. Una strada che piace alla sinistra, ma non convince la destra, timorosa che i corsi di educazione sessuale/sentimentale si trasformino in strumenti di propaganda della cosiddetta “teoria gender” e dei diritti LGBTQ+.

Al di là delle polemiche di questi giorni, la realtà è che sulle radici dei femminicidi, e quindi sui mezzi per combatterli, vi sono idee di fondo molto diverse, e non sempre riducibili alla contrapposizione fra progressisti e conservatori. Per alcuni la radice del male è il carattere patriarcale della nostra società, e il canale di trasmissione è soprattutto l’educazione, o meglio la mancanza di educazione all’affettività e al rispetto. Di qui l’idea che, essendo impossibile imporre modelli educativi alle famiglie, sia innanzitutto la scuola che debba farsi carico del problema, fin dal ciclo primario. Dietro ogni femminicidio, vi sarebbe un maschio cui non è stato insegnato il rispetto della donna, della sua autonomia, libertà e dignità.

Per altri, invece, le cose stanno un po’ diversamente. Una parte dei femminicidi sarebbero quasi ineliminabili, in quanto riconducibili a condizioni psichiatriche o drammi esistenziali dei loro autori. Mentre la quota maggiore sarebbe frutto di autori apparentemente “normalissimi”, accomunati dalla incapacità di accettare un rifiuto oi sopportare le “pretese” di indipendenza della partner. Di qui l’idea che il punto cruciale non sia l’insegnamento del rispetto, bensì la capacità degli adulti (genitori e insegnanti innanzitutto) di comportarsi da adulti, esercitando l’autorità che il loro ruolo educativo comporta. Perché il problema del maschio che uccide la donna che dice di amare è che non è stato abituato a ricevere dei no, a rispettare dei limiti, ad accettare rinunce, a differire la gratificazione.

Anche se a prima vista possono sembrare due prospettive simili, o quantomeno compatibili, si tratta in realtà di due modi di vedere le cose opposti. Per gli uni il problema è che la nostra società, nonostante mezzo secolo di lotte e di conquiste delle donne, resta una società maschilista (ingenuamente e impropriamente definita patriarcale), per gli altri il problema è l’evaporazione della “funzione paterna”, espressione con la quale psicanalisti e psicologi sociali intendono l’esercizio dell’autorità e l’insegnamento del desiderio, lacanianamente incompatibile con il godimento immediato. Insomma: per i primi nella società c’è troppo padre, per i secondi ce n’è troppo poco.

Di qui la diversità di prescrizioni: per gli uni solo la scuola, con i corsi di educazione sentimentale, può sperare di raddrizzare il legno storto del maschilismo; per gli altri il compito della scuola è semmai di tornare a essere una cosa seria, e quello dei genitori di tornare a fare i genitori, anziché – come troppo spesso accade – i sindacalisti dei figli.

Chi ha ragione?

Sfortunatamente non vi sono abbastanza dati per confermare o confutare le due teorie, anche se qualche indizio empirico esiste. Ma è importante che dell’esistenza di queste due linee di pensiero si prenda atto, e sulle radici culturali del femminicidio si avvii una riflessione di ampio raggio, aperta e senza pregiudizi. Perché la posta in gioco è alta: se davvero vogliamo battere questo obbrobrio, dobbiamo capire qual è la strada che può dare più frutti.

[articolo uscito sul Messaggero il 31 maggio 2025]

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