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Una distinzione fondamentale – Patriarcato e maschilismo

26 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

Speciale

[estratto da:

Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, La nave di Teseo, 2024]

Devo confessare che, fino a non molto tempo fa, non mi era chiarissima la ragione per cui una parte delle femministe (talora definite ‘radicali’) nutre ostilità non solo nei confronti dei maschi ordinari, ma anche nei confronti degli omosessuali e dei transessuali biologicamente maschi. Non mi era chiara, in particolare, l’accusa di “patriarcato”, una nozione che – come sociologo – ho sempre trovato evanescente, in quanto del tutto priva di una definizione operativa che permetta di stabilire se e quanto una società o un individuo siano appunto patriarcali. Tanto più che nelle nostre società occidentali è da tempo venuto meno un ingrediente chiave delle culture patriarcali: il principio di autorità. Cioè, per l’appunto, il pater. Lo aveva spiegato bene, e profeticamente, lo psicanalista e psicologo sociale Alexander Mitscherlich nel suo libro Verso una società senza padre, che già nel 1963 delineava i tratti della società in cui oggi viviamo: una società in cui è scomparsa l’autorità paterna, e con essa ogni forma di autorità. Ne hanno preso atto, ripetutamente, sociologi, psicologi e psicanalisti, più o meno rassegnati per la scomparsa del padre.  E, se posso permettermi una nota autobiografica, ne avevo preso atto io stesso alla fine degli anni ’70, quando, con la collega Loredana Sciolla, pubblicammo Senza padri né maestri, resoconto stupefatto degli atteggiamenti della generazione immediatamente successiva a quella del ’68, una generazione disincantata, che aveva perso ogni deferenza verso il mondo degli adulti.

Insomma, difficile parlare sensatamente di patriarcato se i padri – siano essi genitori, maestri, o preti – sono destituiti di ogni autorità.

Dunque, fino a non molto tempo fa, restavo con due domande in sospeso:

– perché le femministe continuano a evocare il patriarcato a dispetto della scomparsa del padre?

– perché tanta ostilità verso trans e omosessuali maschi?

Poi, però, una notizia di cronaca mi ha illuminato. Un brillante articolo di Marina Terragni sul Foglio titolava: “Se due uomini denunciano la discriminazione di essere nati senza utero”.

Ed ecco la vicenda in breve. Una coppia gay di New York, regolarmente sposata pochi anni prima, decide di intentare una causa contro l’assicurazione sanitaria di uno dei due. Nella polizza, infatti, è previsto che, in caso di perdurante infertilità, l’assicurazione intervenga pagando le spese di una fecondazione in vitro. Ma che significa, secondo le clausole dell’assicurazione, perdurante infertilità?

Significa che la coppia non è riuscita a concepire un figlio né facendo sesso senza protezione per almeno 12 mesi, né ricorrendo alla inseminazione intrauterina. Clausola ragionevole, ma – dicono gli aspiranti padri – non adatta al loro caso, in quanto nessuno dei due ha un utero (in effetti la loro sarebbe una infertilità a priori, e perdurante ad infinitum). Se interpretata letteralmente, la clausola è discriminatoria, perché tutela il diritto alla genitorialità alle coppie eterosessuali o lesbiche, ma non a quelle gay. Dunque va reinterpretata. Ma come?

Secondo i due aspiranti padri e i loro avvocati, riconoscendo agli assicurati una somma dell’ordine di 150 mila dollari con cui pagare una donna-incubatrice, che si faccia carico della gestazione.

Non so come la vicenda finirà, ma il caso è di straordinario interesse, e risponde alle mie due domande in sospeso.

Risposta alla prima domanda: la ragione per cui le femministe evocano ossessivamente il patriarcato è che lo confondono con il maschilismo. Nessuno dei due concetti è scientifico, ma non per questo è privo di ancoraggi nella storia e nel linguaggio comune. La radice della parola patriarca è pater, quella della parola maschilista è maschio.

Nelle nostre società il primato del pater familias è un ricordo del passato, così come lo è il surplus di autorità un tempo associato ai ruoli di comando se interpretati da uomini. Se proprio vogliamo trovare tracce di patriarcato in senso proprio, dobbiamo cercarle nelle famiglie di credo islamico, con la sottomissione di moglie e figli ai divieti e ai piani di vita stabiliti dai capifamiglia.

Tutt’altro che scomparso, invece, è il maschilismo, come tratto culturale fondamentale della nostra società. Maschilista è la volontà di controllo di tanti maschi sulle loro partner. Maschilista è il disprezzo verso le donne. Maschilista è quasi tutta la pubblicità, in cui la donna è usata come oggetto-stimolo atto a incentivare gli acquisti. Maschilista è la pornografia. Maschilista è la promozione del sexting (invio di immagini sessualmente esplicite). Maschilista è l’esaltazione del sex-work. Maschilista, infine, è la pratica dell’utero in affitto, in cui la donna assume il ruolo di incubatrice al servizio del maschio, eterosessuale, omosessuale o transessuale che sia.

Ed ecco la risposta alla seconda domanda: l’ostilità di una parte delle femministe verso i maschi anche quando appartengono a minoranze protette deriva, in realtà, dal maschilismo di cui non di rado tali minoranze dànno prova o, se vogliamo metterla sul filosofico, dalla mancata adesione al precetto del maschio Immanuel Kant: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo”.

Agli occhi delle femministe radicali la cosiddetta gestazione per altri (GPA), o maternità surrogata, o utero in affitto, tratta la donna-madre come strumento che permette di adempiere alle clausole di un contratto economico, tipicamente stipulato fra una parte forte (chi commissiona la gravidanza) e una parte debole (la donna che si farà carico della gravidanza, e si separerà dal bambino che ha portato in grembo). Nella GPA, non solo per una parte delle femministe, ma anche per diversi intellettuali e filosofi maschi, prende forma il più inquietante degli ideali della post-modernità: il superamento di ogni limite umano, grazie alla tecnologia e alla dilatazione della cultura dei diritti, una forma estrema di hybris. Come se non fosse più vero quello che, nella storia dell’umanità, è sempre stato vero, e cioè che scegliere significa rinunciare, o accettare dei condizionamenti: se faccio la carriera militare non posso fare il manager, se vado ad abitare in un paesino di montagna non avrò il supermercato (e neanche la spiaggia) a un tiro di schioppo, se mi sposo con una donna di cinquant’anni non ne avrò dei figli, se faccio il prete non mi potrò sposare. E, naturalmente: nessuno è tenuto a risarcirmi delle conseguenze non desiderate o non previste delle mie libere scelte.

Simone Weil ammoniva che “dietro un errore di vocabolario c’è un errore di pensiero”. Il fatto è che qui gli errori di vocabolario sono due, non uno soltanto. Confondere patriarcato e maschilismo non porta solo a vedere il patriarcato quando non c’è, ma anche a non vederlo quando c’è. È quel che è successo con Saman Abbas. Un caso di patriarcato allo stato puro (il padre che impone alla figlia chi deve sposare), snobbato dalle femministe perché l’autore del crimine non è il solito maschio italiano bianco, prepotente e possessivo, ma qualcuno che ha “un’altra cultura”, e dunque avrebbe diritto a qualche attenuante.

Ma c’è anche un secondo errore di vocabolario, e quindi di pensiero: quello di parlare di diritti quando si tratta di semplici desideri. I diritti in senso proprio, lo ha ricordato anche Bobbio nella sua importante riflessione sulla “età dei diritti”, sono quelli il cui godimento è garantito dalle leggi, il resto sono desideri, pretese o rivendicazioni (claim). E non è affatto vero che garantire un diritto significa solo allargare la platea degli inclusi (come è accaduto con il diritto di voto, le unioni civili, l’accesso delle donne a determinate professioni), perché quasi tutti i diritti – non solo i cosiddetti diritti sociali – hanno un costo, spesso ingente (si pensi al “diritto alla salute”). In concreto, questo significa che farli valere implica togliere risorse ad altri impieghi (altri diritti possibili, o ampliamenti dei beneficiari di diritti preesistenti). Persino l’aborto, con la costituzione dei consultori, ha comportato un costo, e quindi ha sottratto risorse ad altri impieghi socialmente utili. Lo stesso accadrebbe con una norma che obbligasse lo Stato o le società di assicurazione a riconoscere a tutti (comprese le coppie gay benestanti) il “diritto alla genitorialità”.

Anche si ammettesse che non vi è nulla di sbagliato nella “gestazione per altri”, anche si volesse legittimare le gravidanze su commissione come manifestazioni della incoercibile libertà delle donne che le accettano, resterebbe la domanda: siamo certi che, con quei 150 mila dollari erogati a due membri gay del ceto medio, moltiplicati per tutte le coppie potenzialmente beneficiarie (circa mezzo milione, prevalentemente bianche e istruite), non si potrebbero garantire diritti più urgenti e fondamentali?

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Il fantasma del patriarcato

25 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Domani è la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Possiamo star certi che, fra gli slogan, non mancheranno quelli contro il patriarcato. Del resto ne abbiamo avuto un assaggio in questi giorni: chiunque neghi l’esistenza del patriarcato
viene guardato con stupefatto rimprovero, come se avesse osato negare la Shoah.

La ragione è semplice: siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne.

Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime.

La più importante è che, a parte alcune specifiche enclave di cui parlerò fra poco, nelle società occidentali sono scomparsi quasi interamente i tratti distintivi delle società patriarcali: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la
sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra). Il processo è durato secoli, ma ha avuto due impulsi fondamentali: l’ascesa del matrimonio d’amore fra Settecento e Ottocento, in epoca romantica, e le rivoluzioni libertarie e anti-autoritarie degli studenti e delle donne negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un aspetto fondamentale di questi processi è l’evaporazione della figura del padre, e più in generale di ogni autorità, tempestivamente annunciata da Alexander Mitscherlich con il suo libro Verso una società senza padre, uscito in lingua tedesca fin dal 1963. Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi.

Di qui un’ovvia domanda: come si fa a parlare di società patriarcale, quando la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società?

La realtà è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul “dominio maschile” (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo
prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato – controintuitivo e paradossale – della sconfitta del patriarcato.

Sono sempre più numerose le voci che attirano l’attenzione sul fatto che potrebbero essere proprio le grandi conquiste di libertà e di autonomia delle donne negli ultimi 50 anni, combinate con il crescente individualismo, consumismo, ipertrofia dei diritti
– tutti tratti tipici del nostro tempo – ad avere reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto. Insomma: l’odierno maschilismo sarebbe
anche una sorta di contraccolpo a conquiste delle donne per cui i maschi non erano pronti, né disposti a farsi da parte. La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva.

Questa linea di pensiero, su cui mi paiono convergere anche importanti settori del femminismo (vedi il recentissimo coraggioso intervento di Marina Terragni sul sito Feminist Post), ha un importante vantaggio concettuale: spiega il “paradosso nordico”, ovvero il fatto – a prima vista sorprendente – che la violenza sulle donne, dagli stupri ai femminicidi, sia maggiore nei paesi più civilizzati (come quelli scandinavi) e che un paese come l’Italia, in cui il gender gap è ancora relativamente ampio, sia fra i meno insicuri del continente europeo.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo schema interpretativo, che distingue nettamente fra patriarcato e maschilismo?

La prima, e più ovvia, è di combattere il patriarcato ovunque sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato. I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane. Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria “Fondazione Giulia Cecchettin”, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane.

Ma la implicazione più importante del passaggio dalla lotta al patriarcato alla lotta al maschilismo, è quella di sollecitarci a cercare, individuare e combattere le vere determinanti del maschilismo stesso. Che a me paiono almeno due. Innanzitutto,
l’uso sistematico del corpo delle donne per promuovere la commercializzazione di ogni genere di merce, servizio, evento, spettacolo: una prassi più che gradita ai maschi, ma non di rado assecondata dalle donne stesse, e che solo una parte del
femminismo osteggia. E poi, una determinante più sfuggente, ma forse ancora più impattante: gli eccessi della cultura dei diritti, a partire dal diritto a non soffrire, né patire sconfitte, né subire scacchi, né vivere frustrazioni, né sostenere sacrifici o lunghe attese.

Se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale – sul piatto della bilancia – il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri.

[articolo uscito sul Messaggero il 24 novembre 2024]

Il rebus di Elly

13 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Non vorrei essere al posto di Elly Schlein. Se prima della vittoria di Trump poteva ancora accarezzare l’idea di una possibile futura vittoria della sinistra, oggi coltivare quel sogno è diventato ancora più difficile di prima. Le elezioni americane hanno mostrato infatti almeno due cose. La prima è che l’adesione acritica alla cultura dei diritti, da cui Kamala Harris non ha saputo prendere le distanze, è una pesantissima zavorra nella corsa elettorale. La seconda è che la sinistra non ha più un’idea di società, o meglio di cambiamento degli assetti sociali, capace di convincere gli strati popolari.

Il perché lo ha spiegato, con qualche tortuosità, Massimo Cacciari in un mesto articolo comparso sulla Stampa pochi giorni fa. Ridotto all’osso, il suo ragionamento è il seguente. La sinistra non ha perso per ragioni contingenti, ma per ragioni strutturali. E la ragione strutturale fondamentale è che ai ceti popolari impauriti e impoveriti la sinistra stessa non è più in grado di offrire la risposta che dava un tempo: più welfare finanziato in deficit. Di qui una certa comprensione (manifestata in altri interventi) per i limiti della legge di bilancio varata da Meloni, e il riconoscimento che – vigente il patto di stabilità europeo – ad analoghi vincoli si troverebbe soggetto un eventuale governo Schlein.

Rimedi?

Come sempre, una lieve oscurità avvolge i pensieri del filosofo veneziano, però leggendo tra le righe la risposta la si intuisce: quello su cui la sinistra dovrebbe puntare è una politica di sviluppo “radicalmente riformista”, basata su “una efficace politica ridistributiva”. In concreto: ripudio della stagione renziana, che abbassava le tasse e puntava sulla crescita, nella credenza che “quando la marea sale fa salire tutte le barche”; e ritorno a una stagione bertinottiana, in cui “anche i ricchi piangono”, perché è dalle loro tasche che vengono prelevate le risorse necessarie per rifinanziare lo stato sociale (sanità e scuola innanzitutto).

Abbiamo trovato la quadra, dunque?

In un certo senso sì. La linea Cacciari ha una sua logica. Prende atto che l’Europa non ci lascia finanziare il welfare facendo ulteriore debito, e dà per scontato il ripudio irreversibile della della “terza via”, a suo tempo entusiasticamente sottoscritta da
Renzi. Un ripudio che, a ben guardare, è un punto di forza del nuovo gruppo dirigente del Pd, che alle reiterate domande della destra “come mai, quel che proponete ora, non lo avete fatto quando eravate al governo?” può tranquillamente rispondere “noi al governo non c’eravamo, e il Pd di allora è il contrario del Pd che stiamo cercando di costruire adesso”.

Apparentemente tutto fila. C’è un punto, però, che non funziona. Finora Elly Schlein si è ben guardata dall’ammettere (come invece fa Cacciari) che, stanti i vincoli europei, non si poteva fare una legge di bilancio sostanzialmente diversa (e più pro
ceti bassi) di quella varata da Meloni. Ma soprattutto si è ben guardata dal dire la verità sulle tasse, e cioè che già solo per raddrizzare sanità e scuola occorre prevedere un prelievo fiscale aggiuntivo ingente, permanente, e inevitabilmente gravante anche sul ceto medio-alto, non certo sui soli ricchi. In breve: occorre che il Pd diventi come il Labour Party di Jeremy Corbyn, che però proprio con quel tipo di programma non era mai riuscito a battere i conservatori.

Se riflettiamo su questo nodo, forse capiamo meglio anche perché – negli ultimi anni – il Pd è diventato sempre più il partito dei diritti, attento alle rivendicazioni delle minoranze sessuali, ossessionato dalla cultura woke, irremovibile nella tutela dei migranti, paladino delle grandi battaglie di civiltà, ma dimentico dei diritti sociali, dei drammi del lavoro e dello sfruttamento: la ragione è che le battaglie sui diritti civili, a differenza di quelle sui diritti sociali, costano poco, e quindi non mettono a repentaglio i conti pubblici. Voglio dire che, paradossalmente, puntare tutte le carte sulla cultura dei diritti ha il notevole vantaggio di non esporre alla domanda delle domande: ma dove le prendete le risorse? Mentre, puntare sui diritti sociali, quella domanda non permette di eluderla facilmente (anche se, ovviamente, ogni politico fingerà di sapere dove trovarle, quelle benedette
risorse).

Conclusione: tornare a puntare sui diritti sociali, e mettere la sordina su quelli civili, può riavvicinare la sinistra alla sensibilità dei ceti popolari. Più difficile supporre che la stangata fiscale permanente che quel ritorno comporta non spaventi i ceti medi, come già è accaduto con il Labour di Corbyn nel Regno Unito e con il Fronte Popolare di Mélenchon in Francia.

Ecco perché non vorrei essere al posto di Elly Schlein.

[articolo uscito sulla Ragione il 12 novembre 2024]

Lezioni americane

11 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]

Mezzi di informazione e manifestazioni contro il self-id – Un inquietante silenzio

6 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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La notizia è che quasi nessuno, e meno che mai i grandi giornali e le grandi reti tv, ne ha parlato. Eppure è successo, un po’ dappertutto nel mondo (o più precisamente nei paesi democratici).

Parigi. Berlino. Milano. Madrid. Barcellona. Maiorca. Lisbona. Vienna. Praga. Berna. Copenhagen. Bruxelles. The Hague. Lussemburgo. Oslo. Londra. Manchester. Edimburgo. Dublino. Glasgow. Cardiff. Swansea. New York. Washington. Atlanta.
San Francisco. Chicago. Chennai, Tokyo. San Poalo, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Taipei. Brisbane. Wellington. Montreal…

Sono decine e decine le grandi città in cui, il 1° novembre, si sono date appuntamento migliaia di donne per protestare davanti alle ambasciate e ai consolati della Germania. Perché tanto silenzio? Come mai ogni sera veniamo minuziosamente informati delle più banali, irrilevanti, o semplicemente ultra-localistiche manifestazioni di protesta, e nulla, invece, ci viene detto di quel che è appena capitato nelle principali città del mondo?

Per provare a capire, ricapitoliamo i fatti. Il 1° novembre, in Germania, è entrata in vigore una legge rivoluzionaria sul self-id, o autodeterminazione di genere. La nuova legge permette a chiunque di cambiare genere con un atto puramente amministrativo,
indipendentemente da qualsiasi valutazione di medici, psichiatri, psicologi, giudici. In particolare, permette a qualsiasi maschio di proclamarsi femmina, e così accedere a spazi e benefici riservati alle donne. Dove gli spazi invasi possono essere i reparti
femminili nelle carceri, i centri anti-violenza, le competizioni femminili nello sport. Mentre i benefici vanno dalle quote rosa in ambito economico o elettorale alle agevolazioni in materia di assunzioni e pensionamenti.

E non è tutto. Dopo aver cambiato genere una prima volta si può, dopo 12 mesi, tornare al sesso originario, e poi magari cambiare di nuovo, e così via per anni. In linea di principio, una persona può cambiare genere/sesso anche decine di volte, a seconda delle opportunità e dei rischi. Quanto ai minori, dall’età di 14 anni possono cambiare genere con il consenso dei genitori, e dai 14 ai 18 anni anche senza, purché un giudice dia l’ok.

Ma l’aspetto più paradossale della legge, fortemente voluta dalla cosiddetta coalizione semaforo (socialisti, liberali, verdi) è quel che implica per i neonati. Al momento di registrarli all’anagrafe, oltre al nome, ora i genitori potranno anche scegliere il genere fra quattro alternative: maschio; femmina; diverso; nessuno. Un bambino biologicamente maschio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con una famiglia che lo tratta come una femmina, e viceversa (per non parlare dei bambini arbitrariamente considerati come di un genere “diverso”, o di nessun genere).

Infine, le sanzioni: chi trattasse un autopercepito lui come una lei (o viceversa), rischia una sanzione fino a 10 mila euro.

È contro tutto questo che si sono mobilitate le donne tedesche, ed è in loro aiuto che sono scese in piazza le donne in tante città di tutto il mondo.

Ed ora torniamo alla domanda iniziale: perché questo silenzio assordante dei mezzi di informazione sulle manifestazioni del 1° novembre a sostegno delle donne tedesche, vittime di una legge che ne comprometterà la sicurezza e ne eroderà le conquiste?

Sarò molto sincero: non mi è chiaro.

Una ragione potrebbe essere che il movimento di resistenza al self-id, pur avendo fra le sue promotrici Joanne Rowling e altre celebrità, è largamente minoritario (ma lo sono anche altri movimenti, di cui in realtà si parla parecchio). Un’altra ragione,
potrebbe essere che, a giudicare dalle immagini circolate nei giorni scorsi, l’età media delle femministe che protestano contro il self-id è abbastanza avanzata (qualcuno potrebbe dire che si tratta soprattutto di boomers, nate fra il 1946 e il 1964). Un’altra
ragione ancora potrebbe essere la forza e l’ubiquità del politicamente corretto, che privilegia nettamente la comunità trans, a scapito del mondo femminile.

Ma anche quest’ultima ragione non mi convince granché: tutta la stampa di destra è ostile alle rivendicazioni trans, eppure anch’essa è rimasta in silenzio. Insomma, il rebus sembra restare tale.

Forse, per capire, dobbiamo scavare in altra direzione. Il punto debole dei presidi davanti alle ambasciate germaniche potrebbe essere, semplicemente, la loro compostezza. Nessuna delle donne scese in piazza ha bloccato il traffico, o imbrattato monumenti, o scagliato molotov contro la polizia. Nessuna si è spogliata, nessuna ha lanciato sassi, nessuna ha gridato slogan offensivi.

Manifestare pacificamente non paga?

[articolo inviato alla Ragione il 3 novembre 2024]

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