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Il caso Venezi

16 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

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Marzo 2021. Beatrice Venezi, al Festival di Sanremo, dichiara che preferisce essere chiamata direttore d’orchestra (piuttosto che direttrice o direttora). Laura Boldrini, ex presidente della Camera, trova il tempo e la voglia di montare una polemica: la presa di posizione della Venezi “è un problema serio”, e “dimostra poca autostima”.

Che dire?

Se uno pensa a quanti e quali problemi veri ha l’Italia, viene il mal di mare a constatare che ci sia qualcuno, a sinistra, che pensa che il fatto di preferire direttore a direttrice costituisca un “problema serio”. Quanto alla scarsa autostima, vien da ridere: la Boldrini ha visto il curriculum della Venezi? Si è accorta che è la più giovane direttrice d’orchestra italiana?

Ma andiamo avanti. 10 luglio 2023, Beatrice Venezi, incorre nell’ira di 14 associazioni (sedicenti) democratiche e anti-fasciste francesi. Alla fine del 2023 dovrebbe dirigere l’orchestra filarmonica per i tradizionali balletti di Natale e per il concerto di Capodanno. Ma le associazioni democratiche e anti-fasciste non ci stanno, e lanciano una petizione in cui chiedono al sindaco di Nizza e al direttore generale dell’Opera Nice Côte d’Azur di annullare l’invito. Motivi: le idee politiche di Venezi, la sua partecipazione alla Convention di Fratelli d’Italia la primavera dell’anno scorso, il suo ruolo di consigliere del ministro della Cultura Sangiuliano.

Non è finita. Due giorni dopo, il 12 luglio, a Lucca si svolge il Summer Festival dedicato al centenario pucciniano. Venezi dirige l’orchestra e include fra i brani l’Inno a Roma di Puccini, scritto nel 1919, ma successivamente usato dal fascismo e dal Movimento Sociale Italiano. Per protesta, diversi membri del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, fra cui alcuni sindaci e un presidente di provincia, disertano l’evento (peraltro dimenticandosi che il medesimo inno, cantato da Bocelli al Colosseo due anni fa, non aveva suscitato la benché minima protesta o contestazione).

Beatrice Venezi giustamente tiene il punto, e rivendica l’assoluta autonomia dell’arte rispetto alla politica (lo stesso, peraltro, dovrebbe valere per scienza, letteratura, sport). Respinge fermamente l’idea che un’opera o un autore possano essere cancellati per il solo fatto che sono piaciuti ai soggetti sbagliati. L’esempio di Richard Wagner è perfetto: non dovremmo più ascoltare la musica del grande compositore tedesco solo perché quella musica piaceva a Hitler?

Poi respinge l’accusa di essere neo-fascista, o che lo sia l’attuale governo. E accusa i suoi accusatori di misoginia, perché attaccano una giovane donna per le idee del padre (che era stato dirigente di Forza Nuova).

Tutto ineccepibile, ma forse manca qualcosa. Venezi è stata troppo soft. La petizione in cui si chiede di toglierle la direzione dei concerti di fine anno a causa delle sue idee politiche andrebbe considerata per quel che è: un incitamento a compiere un atto di discriminazione.

Sia nella Costituzione italiana (art. 3), sia nel diritto europeo (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 14 della CEDU), le idee politiche sono indicate esplicitamente fra le ragioni sulla base delle quali è inammissibile effettuare discriminazioni.

Viste le cose da questa angolatura, diventa del tutto irrilevante stabilire quali siano le idee politiche di Beatrice Venezi. Perché il punto non sono le sue convinzioni, ma come mai, nel 2023, una parte della sinistra considera normale, anzi dovuto, discriminare una giovane donna a causa delle sue idee.

Non era, la lotta contro ogni discriminazione, uno dei cardini del politicamente corretto?

Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

15 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.

Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

8 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.

La battaglia per il salario minimo legale

1 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.

Antigone non abita più qui

29 Giugno 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Hanno assunto una certa frequenza, negli ultimi anni, i casi in cui un individuo o un funzionario pubblico violano qualche legge o regola più o meno vincolante invocando ragioni di principio, o ricorrendo a qualche forma di obiezione di coscienza, se non di vera e propria disobbedienza civile. È accaduto, in passato, con i decreti sicurezza di Salvini, con la gestione disinvolta degli immigrati (famoso il caso del sindaco Mimmo Lucano), con le leggi che vietano l’aiuto al suicidio (Marco Cappato e il Dj Fabo). Accade, negli ultimi tempi, con le trascrizioni, da parte dei sindaci, degli atti di nascita dei figli di coppie del medesimo sesso. Ed è accaduto pochi giorni fa con il rifiuto del rettore dell’Università per stranieri di Siena di esporre la bandiera a mezz’asta, rispettando il lutto proclamato dal governo per la morte di Silvio Berlusconi.

Ma è accaduto spesso anche in modo più subdolo, ogni volta che gruppi di contestatori hanno impedito di parlare a esponenti politici, quasi sempre di destra. L’ultimo caso di questo tipo è accaduto al Salone del Libro di Torino un mese fa, quando al ministro Eugenia Roccella è stato fisicamente impedito di presentare un suo libro, adducendo come motivo il carattere liberticida del governo di cui fa parte.

Tutti questi episodi sollevano un problema importante: in quali casi è giustificato esercitare l’obiezione di coscienza, o mettere in atto forme (collettive) di disobbedienza civile?

A prima vista, una risposta potrebbe essere: ogniqualvolta l’autorità pubblica viola un diritto o un principio fondamentale. È il modello Antigone, che nella celebre tragedia di Sofocle dà sepoltura al fratello Polinice, obbedendo alle “non scritte leggi degli dei”, ma così violando quella della città (Tebe), retta dal tiranno Creonte.

Ci sono due complicazioni, però, se cerchiamo di applicare il modello Antigone al nostro tempo. Innanzitutto, siamo in una democrazia, le leggi sono espressione del Parlamento, ed esiste la possibilità di cambiarle senza spargimento di sangue. In secondo luogo, siamo in un tempo di “politeismo dei valori”, espressione con cui Max Weber descriveva la necessità di scegliere fra valori contrastanti, nessuno dei quali può pretendere di avere una validità assoluta. A differenza di Antigone, raramente abbiamo un valore condiviso cui appellarci contro la prepotenza del potere, perché siamo noi stessi – cittadini delle società moderne – in conflitto fra noi sui valori, i principi, i doveri e i diritti.

Ecco perché l’obiezione di coscienza, in qualsiasi campo si applichi, è sempre esposta a un rischio: quello di far valere un principio che non è universale, ma pretende di esserlo. Come già nelle antiche vicende della leva obbligatoria e dell’aborto, non ci troviamo di fronte a un principio assoluto e indiscutibile, da far valere contro un potere dispotico, ma a un genuino conflitto fra valori inconciliabili: la difesa della patria e il divieto di uccidere, la vita del nascituro e l’autodeterminazione della donna. In una situazione nella quale la società civile è divisa fra opposte concezioni di quel che è giusto e quel che è sbagliato, di quel che è bene e quel che è male, l’obiezione di coscienza è ancora possibile, ma assume inevitabilmente una curvatura soggettiva, e per ciò stesso non esente da arbitrarietà, se non da hybris individualista. Il caso della gestazione per altri, o utero in affitto, lo illustra nel modo più chiaro: fra diritto alla genitorialità e principio di non mercificazione del corpo della donna è impossibile fare una scelta che metta d’accordo rutti.

Forse dovremmo rassegnarci a questo e, quando insorgono conflitti valoriali, considerare con rispetto entrambe le posizioni, senza pretendere di attribuire caratteri di universalità a diritti che tali non sono. In una democrazia, il conflitto fra modelli culturali e concezioni del bene è fisiologico. Quel che non è fisiologico è che una parte assuma di avere il monopolio del bene, e pensi le proprie battaglie nel registro dell’obiezione di coscienza classica, come se fossero dirette contro un potere arbitrario e dispotico, che calpesta diritti divini, naturali o universali. Perché il mondo è cambiato, Giorgia Meloni non è Creonte, e Antigone non abita più qui.

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