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Il presunto irriducibile contrasto tra Croce ed Einaudi e la retorica mercatista

10 Febbraio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Sulla rivista on line del ‘Corriere della Sera’, ’La nostra storia’, diretta da Dino Messina, Paolo Bernardini (Università dell’Insubria), pubblicava il 15 luglio 2016, un lungo articolo Per una libertà senza garanti: rileggere Vittorio De Caprariis inteso a chiudere definitivamente il discorso sullo storico scomparso nel 1964.. Vi si legge:” Per un pensatore libertario, ma anche liberale classico, il suo liberalismo, spesso, direi sempre asserito e ribadito in queste pagine, è liberalismo molto speciale, molto “italiano” o se vogliamo crociano. Da Croce eredita la diffidenza per il mercato troppo libero, perfino per il mercato delle idee, di cui propone una statalizzazione |…| o comunque una regolazione pubblica. Insomma, un liberalismo ai confini con lo statalismo, che fa venire i brividi, ma che purtroppo è il marchio del ‘liberalismo’– chiamiamolo così, en faute de mieux – italiano, che vede tuttora marginale l’autentico liberalismo di un Bruno Leoni, ma perfino di un Einaudi, e delle loro scuole”.

In realtà, è vero il contrario, se si pensa che, persino uno studioso ‘azionista’, come Norberto Bobbio, così conclude il saggio Benedetto Croce e il liberalismo–in Politica e cultura (Ed. Einaudi 1955): ”Chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da Croce. Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi monarcomachi e Locke e Montesquieu e Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso Silvio Spaventa; e gli metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come azione (che fu il libro certamente più importante dei movimenti di opposizione “(pag.265). Era l’inizio di una equivoca rivolta anticrociana su cui ha richiamato l’attenzione Marcello Montanari nello scritto Croce ed Einaudi: un confronto su liberalismo e liberismo (Enciclopedia Treccani 2016): «Gli interventi di Einaudi hanno contribuito a creare la vulgata secondo cui l’idealismo crociano è pur sempre, come quello di Gentile, di carattere statalistico. Su questa linea si sono mossi studiosi del calibro di Norberto Bobbio (1953 e 1955), Giovanni Sartori (1966) e Luigi Firpo (1986) |…| Tuttavia, una simile interpretazione scaturisce da una forzatura dei testi crociani. Vale la pena, allora, guardare da vicino i testi da Einaudi presi in considerazione nella sua recensione del 1928.Croce aveva criticato il liberismo non in quanto metodo o pratica economica, non nel suo essere espressione della libera iniziativa privata, ma per la sua pretesa di elevare i principi dell’utilitarismo a “regola e legge suprema della vita sociale” (Liberismo e liberalismo, in Etica e politica, 1931). Che l’attività economica sia orientata da criteri utilitaristici ed egoistici, come la dottrina di Bastiat insegna – sembra dire Croce –, è cosa non discutibile; tuttavia, un intero sistema sociale non può fondarsi e reggersi su questi soli criteri. La sfera economica va ristretta, isolata e governata entro una particolare sezione della vita sociale complessiva. Non si possono innalzare a valore etico universale i principi utilitaristici, di cui il liberismo economico si nutre». Seguendo la logica di Croce, Bobbio avrebbe potuto giustificare il New Deal, lo stato sociale messo in piedi dalle socialdemocrazie scandinave laddove, richiamandosi a Einaudi, lui che per l’economia politica non aveva mai nutrito un reale interesse, continuava soltanto la guerra dichiarata dal neo-illuminismo torinese ad ogni forma di neo-idealismo.

Va pur detto che–come è stato rilevato da studiosi come Corrado Ocone e Giancristiano Desiderio – Croce e Einaudi non erano poi così lontani. Se ne Lezioni di politica sociale (Einaudi, Torino 1965) Einaudi poteva scrivere, quasi con accenti crociani, «:La libertà, che è esigenza dello spirito, che è ideale e dovere morale, non abbisogna di istituzioni giuridiche che la sanciscono e la proteggono, non ha d’uopo di vivere in questa o quella specie di società politica, autoritaria o parlamentare, tirannica o democratica; di una particolare economia liberistica o di mercato ovvero comunistica o programmata. La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi», Croce sarebbe giunto infine ad affermare nel secondo dopoguerra che «la proprietà privata non si potrà mai radicalmente abolirla in quanto coincide col concetto dell’individuo» (Monotonia e vacuità della storiografia comunista, ‘Quaderni della Critica’, XIII- XV, 1949).

“L’individuo, non lo Stato, è la prima garanzia della libertà”, scrive Bernardini per il quale più lacci, più regole, più imposizioni gravano sull’individuo meno lo stato può dirsi liberale. Questa cannibalizzazione del liberalismo da parte del mercatismo non spiega, però, quanto Luigi Einaudi, scriveva nel saggio Liberismo e comunismo (1941): «Il legislatore liberista dice io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno o di notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei luoghi di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi. E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica». “I vincoli possono essere numerosissimi”, quindi: un principio, questo , del tutto incompatibile con l’individualismo mercatista dell’Istituto Bruno Leoni e del mainstream del ‘liberalismo’ italiano contemporaneo. Sarebbe meglio che gli storici costruissero i loro racconti sui fatti, mettendo da parte le loro predilezioni ideologiche.

Rubrica A4 – Sentire le due campane sì, ma che non siano stonate

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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In Italia si assiste a una proliferazione di talk show, di dibattiti televisivi sulle questioni politiche interne e internazionali che fanno pensare a una maturità civica e a un interesse per la cosa pubblica invidiabili. In qualche canale, dopo il tg, finita una tavola rotonda, ne comincia subito un’altra, spesso con gli stessi attori protagonisti. In genere, la formula ‘vincente’ (sic!) è: ‘tutte le ragioni, tutte le opinioni’ ma a, ben riflettere, si dovrebbe dire: “tutte le opinioni, tutte le fazioni”. E’ un notevole passo avanti che vengano invitati tutti, in omaggio al dovere di ‘sentire sempre le due campane’, senonché quel principio finisce spesso per diventare l’occasione di risse da bar insopportabili. Ciò dipende dal fatto che, in mancanza dei grandi intrattenitori e comici televisivi   d’antan, gli insulti, le accuse di malafede, le insinuazioni sul piano personale degli attori in  scena ‘fanno spettacolo’, indipendentemente da quel che dicono o si dicono. Il curatore della trasmissione, onestamente, non nasconde affatto da che parte sta ma questo finisce per essere irrilevante. Ciò che conta, invece, è che politici e giornalisti, quasi sempre incompetenti, grazie alla comparsata televisiva ottengono visibilità e ..’prestigio’ (chiamiamolo così). Quanto dicono sono fesserie per chi non condivide le loro opinioni ma sono perle di saggezza per gli altri. E alla fine—ed è ciò che davvero importa—, per citare Mcluhan,”il medium è il messaggio”, e il contenuto del messaggio non è l’elemento decisivo nella comunicazione. Chi prenderebbe in considerazione certe Erinni della carta stampata o certe passionarie della politica o certi residuati bellici del 68, se non comparissero regolarmente sul teleschermo? “Con quella bocca possono dire tutto ciò che vogliono” giacché ogni scarafone ha diritto a dire la sua e l’importante, poi, è che milioni di telespettatori stiano lì a sentirlo (il fatto che il conduttore della trasmissione tv mostri il suo  disaccordo è ininfluente).

Siamo seri, almeno con l’anno nuovo! Meno politica spettacolo e più informazione attendibile e controllata. Si riducano, una buona volta, gli spazi del battibecco politico e, anche se al di fuori delle opere di maggiore ascolto, si faccia conoscere quanto sta avvenendo in Ucraina, nel Medio Oriente, a Gaza, nelle città europee e americane vittime del terrorismo islamico.  Specialmente in area anglosassone, non mancano riviste di relazioni internazionali che mostrano la realtà prismatica di quanto accade nel mondo, nè mancano studiosi (di diverse aree politiche e culturali) che si sono dedicati alla ricerca e che possono dire cose interessanti sulla politica, sull’economia, sulla cultura dei paesi in guerra. Non dico di stare a sentire ‘soltanto’ John J. Mearsheimer (rimasto dopo la morte di Samuel P. Huntington il più prestigioso political scientist degli Stati Uniti) : le sue idee, infatti, fanno a pezzi le interpretazioni dei conflitti in corso riportate dai grandi quotidiani nazionali; si invitino anche quegli storici e quegli scienziati politica che non la pensano come lui ma che hanno scritto articoli e saggi notevoli, in grado di mostrarci ogni volta ‘l’altra faccia della medaglia’.

 Non è possibile che quando, per caso, sul piccolo schermo appare un sociologo come Marzio Barbagli—o  un giurista del prestigio di Sabino Cassese- si debba pensare: ”finalmente il parere  di un esperto!”. Nelle trasmissioni dedicate alla politica, infatti, dovremmo sempre ascoltare i ‘compe-tenti’, affiancati da giornalisti seri, in grado di porre domande intelligenti e pertinenti. E, nel caso delle guerre in corso, occorrerebbero documentari (anche storici) delle due parti che ci aiutino a capire, da angolazioni diverse, quanto sta accadendo nel mondo e le cause alle origini dei vari conflitti.

Conoscere le opinioni politiche dei direttori dei grandi quotidiani o dei loro vice o caporedattori può avere qualche interesse ma quale contributo conoscitivo reale possono dare, ad es., al problema dell’Azerbaigian o della Georgia? All’estero i direttori—di Le Monde, del NYT, di Die Zeit etc.- intervistano (e con indubbia professionalità) ma non vengono intervistati giacché, nei paesi avanzati dell’Occidente, la divisione del lavoro rimane una regola inviolabile.

Un tempo, per farci conoscere il bel paese, la RAI produceva inchieste affidate a scrittori come Mario Soldati o a grandi giornalisti come Sergio Zavoli che rappresentano, tuttora ,documenti di straordinaria utilità  per chi intenda studiare il nostro recente passato. Non si potrebbe pensare, dove è possibile, a fare la stessa cosa per le guerre in corso, organizzando una bella scuola di documentaristi e di corrispondenti di guerra, diretta semmai, da vecchi, rispettabili, giornalisti come Domenico Quirico? E se non se ne hanno i mezzi, non si potrebbero acquistare dagli Stati Uniti filmati che non siamo in grado di produrre noi? In tal modo, non sentiremmo più l’intervistato del Bar di Casal di Principe che vorrebbe annullare la sentenza palermitana che ha assolto Matteo Salvini per ‘conflitto di interessi’ (l’avv. Bongiorno milita nella Lega, il partito dell’imputato!). ‘Tutte le ragioni, tutte le opinioni!” Ma possiamo risparmiarci almeno quelle degli imbecilli? O meglio, per essere politicamente corretti, quelle dei ‘diversamente intelligenti”?

Il Concerto di Capodanno

7 Gennaio 2025 - di Dino Cofrancesco

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Sere fa su RAI Storia Giorgio Zanchini e la storica Vittoria Fiorelli hanno rievocato, con indubbia competenza, La tragedia di un imperatore, Francesco Giuseppe. Ne è venuto fuori il ritratto di un monarca assoluto, chiuso a ogni idea moderna (a differenza del figlio Rodolfo), interessato solo alla caccia e all’esercito, succubo della madre, l’Arciduchessa Sofia di Baviera, e incapace di dare affetto alla donna pur molto amata, la mitica Sissi. La cupa atmosfera della Hofburg, l’ossessione burocratica, la preoccupazione impotente di tenere insieme un impero, che si stava sgretolando, sono emersi in maniera inequivocabile. Eppure al telespettatore non digiuno di storia non sarà sfuggito un rilievo fatto quasi en passant: che la Vienna di Francesco Giuseppe è stata la città culturalmente più affascinante d’’Europa, al punto da superare la stessa Ville Lumière, Parigi. Dalle arti visive alla musica d’avanguardia, dalla psicanalisi alla filosofia del linguaggio, dal teatro alla letteratura, dalle scienze all’economia, la capitale del vecchio Kaiser (al quale Johann Strauss avrebbe dedicato il suo valzer più bello, cantato dalle scolaresche viennesi nel giorno del genetliaco dell’Imperatore sotto le finestre della reggia) è stata, oltretutto, un irrepetibile crogiuolo di etnie culturali, oggetto di rimpianto di grandi scrittori come Stephan Zweig e Joseph Roth. Come spiegare questa ‘contraddizione’? Il fatto è che l’Impero austro-ungarico era una comunità politica ‘premoderna’, nel senso che in essa la politica (differenza fondamentale dai terrificanti regimi totalitari e dalle impegnative democrazie occidentali) non assorbiva tutto il cittadino: a occuparsene erano i burocrati e al suddito era riservata la più ampia di libertà di dedicarsi ai suoi affari, alla sua religione, ai suoi problemi esistenziali. Non era un impero liberale ma del liberalismo condivideva una caratteristica cruciale: l’immenso spazio riservato alla privacy non controllato da un (disinteressato) potere politico. Non a caso, il suo più alto simbolo musicale non era un inno di battaglia ma il valzer. Quello che il 1° gennaio ci incanta al Concerto di Capodanno, trasmesso in tutto il mondo, dalla sala dorata del  Musikverein  di  Vienna .

(Articolo uscito il 31 dicembre 2024 su “Il giornale del Piemonte e della Liguria”)

Feste civili e giornate della memoria che dividono

23 Dicembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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I lettori non me ne vogliano se dico di comprendere i magistrati, i giustizialisti e la sacra corona delle sinistre unite che si oppongono ferocemente al giorno della memoria delle vittime delle sentenze giudiziarie. Nel nostro paese, infatti, le feste nazionali e le giornate della memoria non sono momenti di rinnovata concordia nazionale ma sceneggiate di guerre civili che si vogliono far rivivere, carnevalate di cui nessuno sembra vergognarsi. Nelle marce, nei moniti minacciosi—‘non passeranno!’—nella demonizzazione dei vinti (‘Vae victis!’), non si gode insieme la riconquistata libertà, la ritrovata indipendenza, la fine di una tragedia nazionale, ma ci si compiace quasi per la violenza erogata contro i nemici interni ed esterni, fino ad esaltare le macellerie messicane (per citare Ferruccio Parri) di Piazzale Loreto e dei triangoli della morte. Un comunista d’antan, Gian Carlo Pajetta, in una trasmissione televisiva, disse a Giorgio Almirante: “abbiamo riconquistato la democrazia anche per voi”. E il leader missino, qualche tempo dopo, dichiarò pubblicamente, non senza una certa ironia, “se antifascismo vuol dire libertà per tutti, elezioni democratiche, rispetto di tutte le opinioni sono antifascista anch’io”. E’ superfluo rilevare che non è questo lo spirito del 25 aprile in cui, alle sfilate partigiane stricto sensu, non sono tollerati, non dico gli ex fascisti (pentiti o dissociati), ma neppure i liberali non di sinistra. I più vecchi ricorderanno che al padre di Letizia Moratti, in carrozzella, si vietò di prendere parte al corteo che, nella sua Milano, rievocava la Resistenza e la Liberazione. Una delle figure più nobili della Resistenza e della Prima Repubblica, Randolfo Pacciardi, fu demonizzato per aver collaborato con Giano Accame – un politico intellettuale di elevata cifra morale – in un movimento inteso al superamento del fascismo e dell’antifascismo e a una riconciliazione nazionale. Nel 1974, come ricorda Luca Polese Remaggi nel ‘Dizionario Biografico degli Italiani’ (2014) venne persino “raggiunto da una comunicazione giudiziaria, inviata dal giudice istruttore di Torino Luciano Violante. Era accusato insieme a Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, a diversi funzionari dello Stato e a neofascisti di Ordine Nuovo e del Fronte Nazionale di Valerio Borghese di aver cospirato per un colpo di Stato”. Cose e’ pazze!, si direbbe a Napoli.

Nel 1945, nella grande manifestazione svoltasi nella Parigi liberata, Charles De Gaulle intonò ‘La Marsigliese’ “Contre nous de la tyrannie/ L’étendard sanglant est enlevé” . (‘Contro di noi si è levato lo stendardo insanguinato della tirannia’). Lo stendardo (cattivo) era quello dei suoi antenati giacché il generale veniva da una famiglia cattolica e nazionalista di origine aristocratica (fondata da Thébault de Gaulle nel XVI secolo) e, da giovane, era stato vicino ai monarchici dell’’Action Française’ ma anche per lui la Festa della Bastiglia (il 14 luglio) e la ‘Marsigliese’ erano simboli di unione, oltre i partiti e le classi sociali, come nel bellissimo film di Michael Curtiz Casablanca (1942). Lo stesso dicasi del 4 luglio in America dove non si sfila contro nessuno ma ci si unisce in un embrassons-nous universale a testimoniare un patriottismo naturale, spontaneo e non prescritto dal potere. Sulle grandi avenue di New York e delle altre metropoli americane, nelle cittadine del Middle West e in quelli che un tempo erano i villaggi della frontiera, tutti gli americani si ritrovano a cantare in coro “O say, does that star-spangled banner yet wave/ Over the land of the free and the home of the brave” (Oh dimmi, sventola ancora quello stendardo stellato/ Sulla terra dei liberi e sulla casa dei coraggiosi).

‘The Star-Spangled Banner’ – a differenza di Bella ciao – è un simbolo di identità e di unione che va oltre le classi sociali, le razze, le etnie culturali. Non è un inno di battaglia ma un Te Deum laudamus come sono le note che esprimono lo ‘spirito comunitario’.
In Italia tutto ciò sarebbe impensabile. Da noi le feste civili o sono roba di guelfi o sono roba di ghibellini: a caratterizzarle sono i simboli belligeni non i ramoscelli d’ulivo dell’albero della pace. E lo stesso dicasi delle giornate della memoria: se si ricordano le foibe, le sinistre si mettono a lutto. Nessun gesto simbolico di riparazione da parte di quanti erano dalla parte di Tito. Indifferenti alla perdita delle nostre province orientali – del resto, nell’immediato secondo dopoguerra, l’unico film dedicato alla tragedia degli Italiani d’Istria è La città dolente di Mario Bonnard del 1949 – sindacalisti, militanti socialcomunisti e portuali, a Genova, non volevano far sbarcare i ‘fascisti’ istriani in fuga dal Paradiso comunista. Analogamente è impensabile che la magistratura chieda perdono agli italiani per le tante vittime innocenti finite nelle carceri statali. Si comprende bene l’indignazione di Gaia Tortora: non solo nessuno ha pagato per la morte del padre ma i magistrati responsabili della pazzesca sentenza che distrusse la vita di Enzo Tortora hanno fatto carriera come se non avessero commesso alcuna manchevolezza.

Se il giorno della memoria delle vittime dei tribunali si facesse davvero e vedesse la partecipazione di magistrati seri e responsabili (ce ne sono) pronti a salire sul palco ad abbracciare i parenti degli innocenti ingiustamente condannati, se dessero prova di civismo i più alti gradi del potere giudiziario facendo il classico ‘esame di coscienza’ e impegnandosi solennemente a una maggiore vigilanza sulle indagini e sulla raccolta delle prove a carico degli imputati, l’Italia potrebbe dimostrare al mondo di non essere inferiore alla Francia o agli Stati Uniti nel creare occasioni di incontro e di riconciliazione tra parti politiche e sociali un tempo in conflitto. Temo, però, che nel caso il progetto andasse in porto, e per di più se si scegliesse proprio la giornata dell’arresto di Enzo Tortora per ricordare le vittime dei tribunali, i giustizialisti rimarrebbero chiusi in casa, a guardare dalla finestra i cortei con risentimento ed astio. Gli ipergarantisti (ovvero gli anti-giustizialisti ideologici per i quali ogni sentenza di condanna è sospetta ed ogni prova portata dai PM è artefatta), dal canto loro, ne trarrebbero motivo per una nuova cruenta (almeno simbolicamente) prova di forza: sarebbero loro a sfilare sotto le finestre dei giudici e davanti alle corti di giustizia al grido Vergogna! Col risultato che il paese, ancora una volta, mostrerebbe che solo le guerre civili lo tengono in vita, gli procurano emozioni, procurano ai cittadini forti identità etico-sociali. Da noi la guerra civile non è una parentesi ma una pianta che va innaffiata ogni giorno: e guai ai tiepidi o ai ‘renitenti alla leva’!

A ben riflettere è, questa, una delle eredità più negative del fascismo: l’abito della mente e del cuore che porta a riguardare i “panciafichisti”, i pacifisti che non amano battersi e cercano l’accordo con quanti hanno interessi e valori diversi dai loro, come vigliacchi “che mai non fur vivi”. E’ non poco emblematico, d’altronde, che il termine inglese bargaining, che designa la quintessenza della democrazia liberale ovvero la disposizione a venire a patti con l’altro nel disarmo degli animi, in Italia venga tradotto come ‘compromesso’, parola che non ha nessuna valenza positiva e che, quando non è completamente negativa, rimane sempre associata a qualcosa di spiacevole – ad es., una ‘pace di compromesso’ non è una pace giusta e soddisfacente, ma una triste necessità alla quale è difficile sottrarsi, intervenendo cause di forza maggiore.

Rubrica A4 – Destra e cultura

18 Novembre 2024 - di Dino Cofrancesco

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Mi ha davvero sconcertato vedere su  Blob (Rai 3) la sparata di Giorgia Meloni contro l’egemonia culturale della sinistra che imperversa in tutti i campi del sapere, dell’editoria, delle arti, dell’intrattenimento televisivo, dello spettacolo (cine, teatro). E’ indubitabile quanto afferma la premier ma non si capisce né l’indignazione (i fatti sono quelli che sono e ,se sono quello che sono, è colpa anche di chi ha lasciato crescere l’erba cattiva dell’”impegno intellettuale”) né, tanto meno, i possibili rimedi. Si vuole forse sostituire (o affiancare) ad ogni responsabile di sinistra di un qualsiasi settore culturale un esponente della destra? Maurizio Gasparri (tra l’altro di Forza Italia, una formazione politica di centro liberale non di destra), ha detto:” Noi di destra rispetto alla sinistra abbiamo meno professori. E dunque meno scemi in giro”. Se fosse vero dovremmo reclutare, attraverso i concorsi di ogni tipo, nuovi professori (e avere più scemi in giro) in modo da dotarli di un potere culturale oggi in mano, oggettivamente, alla sinistra? Un tempo i concorsi universitari, nella rosa dei vincitori, almeno in certe materie (prevalentemente quelle storiche, filosofiche, giuridiche ed economiche) dovevano tener conto delle quote: un tanto ai cattolici, un tanto ai laici. Dovremmo pensare a diverse quote per il reclutamento degli intellettuali in posizione chiave: un 70% alla destra un 30% alla sinistra (tenendo conto che quest’ultima è sovrarappresentata?)

Ho sempre ritenuto che, con la sinistra schleiniana che ci ritroviamo, la destra al governo sia il meno peggio che potesse capitare all’Italia ma non chiudo gli occhi dinanzi alla inadeguatezza della sua classe dirigente, del tutto priva di un senso alto, quasi gramsciano, della cultura e della sua importanza. Nei rapporti con gli assessorati del centro-destra, si collezionano solo esperienze frustranti di ottusa insensibilità agli aspetti simbolici della politica. A Genova, dove vivo e lavoro da una vita, è quasi impossibile  parlare con le autorità cittadine e regionali (di centro-destra)  per proporre loro, ad esempio, di dedicare luoghi pubblici al più grande sociologo ed economista europeo, tra 800 e 900, Vilfredo Pareto, di antica famiglia genovese;  al più prestigioso giornalista del suo tempo, Giovanni Ansaldo, venuto al mondo all’ombra della Lanterna;  a un regista, come Pietro Germi, di umili origini, uno dei protagonisti della più grande stagione del cinema italiano (tra l’altro, venne ostracizzato dai suoi colleghi in quanto ‘socialdemocratico’, cioè socialfascista). Per gli amministratori della destra, i convegni culturali—come il Festival della Politica di Santa Margherita Ligure organizzato dall’Associazione Isaiah Berlin e ,quindi, all’insegna del più autentico  pluralismo—non sono poi così importanti.. A essere lautamente finanziati, ma dalle sinistre e dai loro ricchissimi sponsor, sono, invece,  convegni e festival in linea con il pensiero unico.  Persino a Santa Margherita Ligure dove trascorreva diversi mesi dell’anno Isaiah Berlin, forse il più prestigioso filosofo liberale del suo tempo—è stata una battaglia perduta quella di intitolargli una piazza, un  giardino, un istituto scolastico etc.

 A destra non c’è cultura? Sicuramente, non nei partiti e movimenti politici oggi al governo—ove si eccettuino ministri come Carlo Nordio, Giuseppe Valditara e altri pochi. Ma ce n’è abbastanza se si pensa alle produzioni intellettuali della destra. Dal compianto Augusto Del Noce al geniale Marcello Veneziani, sono non pochi i saggisti, gli articolisti, i filosofi, gli storici di quest’area culturale. Non ne faceva parte, tanto per fare qualche nome, Vittorio Mathieu, forse il più prestigioso studioso di Kant del suo tempo, autore, oltreché di poderosi volumi di storia della filosofia, di saggi divenuti classici sulla rivoluzione, sulla libertà, sul diritto di punire etc.? Un governo di destra  responsabile e competente dovrebbe, innanzitutto, preoccuparsi di sostenere le fondazioni intitolate alle grandi icone del pensiero liberale e liberalconservatore, pronto a finanziarne i convegni, i seminari di studio, i corsi di lezioni. A figure dimenticate, perché lontanissime dalla cultura dominante—per fare qualche nome, Panfilo Gentile, Mario Vinciguerra, Randolfo Pacciardi, Giacomo Noventa—dovrebbero venire intitolate bose di studio, premi per la migliore tesi di laurea, ‘dignità di stampa’ etc. Non si combatte l’intelligentsia che da decenni spadroneggia in Italia con patetici annunci di guerra—destinati a irritare anche quanti non simpatizzano con le nuove sinistre (e spesso rimpiangono le sinistre d’antan ancora marxiste e, pertanto, dotate di senso della realtà).Quando, in sostanza, si dice:  “ora è la volta nostra”, non si sospetta che, in realtà, è “la volta di sempre” e che agli italiani si presenta un vestito rivoltato ma che , in quanto tale, è sempre lo stesso vestito. E’ l’eterna tentazione del Minculpop che da destra era passata sinistra e che ora qualcuno vorrebbe, incautamente, riportare a destra.

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