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Società

Un dogma dei nostri tempi – Declino della violenza

23 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Come era prevedibile, dopo l’uccisone di Charlie Kirk le polemiche sul possesso delle armi, sull’uso della violenza, sull’istigazione all’odio sono riprese vigorose. Non c’è da stupirsene: quello dell’andamento della violenza, e in particolare degli omicidi, è da sempre un tema altamente infiammabile sul piano politico. I conservatori vedono in ogni episodio di violenza una convincente ragione per inasprire le misure repressive, mentre i progressisti – proprio perché ostili a quel tipo di misure – non si stancano di proclamare che la violenza è in declino da decenni, anzi da secoli, dunque l’allarme dei conservatori è ingiustificato.

La tesi del declino della violenza ha ricevuto un forte sostegno scientifico, una ventina di anni fa, dai lavori del criminologo Manuel Eisner sul crollo degli omicidi in Europa, dall’alto Medioevo ai giorni nostri. Ma l’apoteosi, anche mediatica, della tesi del declino della violenza è arrivata una decina di anni dopo, con un importane libro dello psicologo americano Steven Pinker (Il declino della violenza, Rizzoli). Un libro che, fin dalla copertina, esordisce dichiarando il suo intento: spiegare “perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”.

Pubblicato nel 2011, il libro usciva alla fine di un periodo di forte declino degli omicidi, non solo negli Stati Uniti. Il cuore del saggio di Pinker, di conseguenza, non è se la violenza sia davvero ai minimi storici, ma perché lo sia.

Da allora sono passati una quindicina di anni e, nonostante alcune critiche riguardo alle fonti e ai calcoli statistici mosse da vari specialisti, la tesi del declino della violenza è tuttora dominante. L’idea di fondo è che il ricorso alla violenza sia un retaggio del passato, da cui la maggior parte dei paesi si starebbe liberando. Democratizzazione, modernizzazione, civilizzazione, invecchiamento della popolazione sono le grandi forze storiche che, inesorabilmente, sospingerebbero verso il basso il tasso di omicidio.

Curiosamente, sono ben pochi a chiedersi se il fenomeno che si intende spiegare – il declino della violenza – sia davvero in atto, e soprattutto se lo sia universalmente. In parte si capisce perché: gli anni del covid hanno complicato le cose, spesso deviando le traiettorie degli omicidi. Inoltre i dati sugli omicidi, come molte altre statistiche, escono con notevole ritardo, e non riguardano tutti i paesi.

Ora però c’è una novità: gli uffici statistici delle Nazioni Unite hanno recentemente rilasciato i dati del 2023 per buona parte dei paesi importanti. E i dati del 2023 permettono finalmente dei confronti per così dire “covid-free: il dato del 2023, primo anno sostanzialmente fuori dell’epidemia, può essere comparato al dato del 2019, ultimo anno senza covid.

Più esattamente, possiamo chiederci se è vero che gli omicidi (di maschi e di femmine) siano in discesa nella maggior parte dei paesi del mondo, o almeno nelle società avanzate (occidentali o occidentalizzate).

Ed ecco alcune sorprese. Nelle società meno sviluppate non succede granché: le uccisioni di maschi sono in leggera diminuzione, quelle delle femmine sono in lieve aumento. La novità è che prima, ossia nel quadriennio 2015-2019, erano entrambe in assai rapida diminuzione. In breve: in quelle società era in atto un processo di riduzione della violenza, che nell’ultimo quadriennio si è invece interrotto.

Ma la vera cattiva notizia, per la teoria del declino della violenza, viene dalle società avanzate. Qui, nel quadriennio 2019-2023, sono aumentati sensibilmente sia le uccisioni di uomini sia quelle di donne, cosa che non accadeva nel quadriennio precedente: anche in questo caso una preoccupante inversione di tendenza.

Si potrebbe supporre che il fenomeno sia per così dire localizzato: l’aumento degli omicidi potrebbe essere concentrato in alcuni specifici paesi, mentre in tutti gli altri proseguirebbe il processo di civilizzazione. E invece no, sfortunatamente: l’aumento degli omicidi coinvolge 3 società avanzate su 4 (e le cose non vanno molto meglio nelle società meno sviluppate). Negli Stati Uniti, in particolare, le uccisioni di maschi sono aumentate del 18% nel quadriennio 2019-2023, quelle di donne del 21.5%. E la tendenza alla crescita era già in atto nel quadriennio precedente (+4.2% e +7.6% rispettivamente).

E in Italia?

In Italia le uccisioni di uomini e donne risultano entrambe in lieve aumento nel quadriennio 2019-2023, ma il punto è che – diversamente che negli Stati Uniti – erano in forte diminuzione nel 2015-2019. Anche da noi, dunque, quel che si osserva è un cambiamento di regime fra il quadriennio pre-covid e il quadriennio successivo.

Forse non viviamo affatto nella “epoca più pacifica della storia”. Non solo per gli eccidi in Ucraina, Gaza, Sudan, Myanmar, ma perché – da qualche anno – aggressività e ricorso alla violenza  si stanno facendo strada anche nelle nostre civilissime democrazie.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 settembre 2025]

Orrori del Bene

17 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno suscitato sconcerto, prima ancora che indignazione o rabbia, le parole con cui il matematico Piergiorgio Odifreddi è parso, se non giustificare, perlomeno sminuire la gravità del gesto con cui un estremista di sinistra americano (Tyler Robinson) ha ucciso Charlie Kirk, estremista di destra (e secondo alcuni potenziale futuro candidato alla Casa Bianca).

Le frasi incriminate di Odifreddi sono ben quattro. Nella prima, a una domanda di David Parenzo sull’uccisione di Kirk, rispondeva dicendo testualmente “Ma sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante di Maga (il movimento trumpiano Make America Great Again) sono due cose molto diverse, perché Martin Luther King predicava la pace e invece Maga e Trump…” [la fine della frase è incomprensibile, perché sovrastata dalle proteste dei presenti]. Le altre tre frasi sono delle specie di proverbi o paragoni, volti a spiegare e giustificare l’affermazione principale. Il primo (pronunciato ancora in trasmissione) è “chi semina vento raccoglie tempesta”. Il secondo pseudo-proverbio compare in dichiarazioni successive, rilasciate all’Ansa: “Gesù diceva chi di spada ferisce di spada perisce”. Ma Odifreddi è uno scienziato, non credente, e per perfezionare il ragionamento sfodera il terzo pseudo-proverbio, decisamente più laico: “se non si vuole citare Gesù Cristo si può citare la legge della fisica per cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.

Infine, per completare il ragionamento, cerca di far intendere che anche la vittima – l’estremista di destra ucciso – ha le sue responsabilità, in quanto odiatore: “non è necessario sparare per incitare all’odio, le parole possono essere macigni”. Tutte varianti del mai abbastanza deprecato “se l’è cercata” usato per attenuare le responsabilità di violentatori e stupratori.

Qui sarebbe facile far notare a Odifreddi, che di professione fa il logico, quanto illogico sia il suo modo di ragionare: se Parenzo si è tanto inquietato è precisamente perché condivide l’affermazione di Odifreddi, e cioè che “le parole possono essere macigni” (o pietre, come recita il titolo di un celebre libro di Carlo Levi). E’ curioso che chi vede la pericolosità dell’incitamento all’odio, non veda la pericolosità di chi minimizza un assassinio solo perché la vittima è a sua volta un odiatore.

Ma il punto su cui vorrei attirare l’attenzione è di tipo storico-empirico. Quello che mi colpisce è l’asimmetria che, negli ultimi anni in Italia, si è venuta instaurando nelle manifestazioni di esaltazione della violenza. Mentre in passato il ricorso alla violenza era praticato e teorizzato sia dall’estrema sinistra (Brigate Rosse e altri gruppi) sia dall’estrema destra (Nar e altri gruppi), oggi a praticare o celebrare la violenza sono quasi esclusivamente persone e gruppi di sinistra, o genericamente anti-fascisti. Negli ultimi anni, ad esempio, è diventato normale manifestare con le immagini di Giorgia Meloni (e di altri politici di destra) a testa in giù. Ènormale che dibattiti, presentazioni di libri, lezioni vengano impedite con la forza perché fra gli interventi previsti ci sono quelli di ebrei, o di persone di destra. È normale che, se la destra scende in piazza, antagonisti e centri sociali organizzino un contro-corteo, per impedire che il corteo sbagliato possa svolgersi in pace. Ènormale vedere studenti che scandiscono il vecchio slogan “uccidere un fascista non è reato”, preceduto da un raccapricciante “il maresciallo Tito ce l’ha insegnato…” (con le foibe?), o “la lotta partigiana ce l’ha insegnato…”, o addirittura dal grottesco “la nonna partigiana ce l’ha insegnato”. È normale che alla costruzione della linea dell’alta velocità in Val di Susa ci si opponga con la guerriglia contro le forze dell’ordine. Normale, infine, è che tutto questo susciti comprensione, prudente silenzio, minimizzazione, talora persino compiacimento in una parte parte dell’establishment progressista.

Si può obiettare, ovviamente, che in questi anni gesti violenti non sono mancati nemmeno a destra (su tutti l’assalto di Forza Nuova alla Cgil), ma l’obiezione non coglie il punto: sono la frequenza e l’ampiezza del sostegno alla violenza ad essere incomparabilmente superiori a sinistra.

Perché?

Io temo che dietro questa asimmetria dei comportamenti, in realtà, lavori una asimmetria più profonda, che si situa su un piano psicologico e morale. Destra e sinistra sono entrambe portatici di visioni del mondo, mentalità, percezioni tra loro differenti. Con una differenza cruciale, però: mentre il tipico militante conservatore è consapevole della parzialità del proprio punto di vista (anche perché glielo ricordano quotidianamente), quello progressista è sinceramente convinto della superiorità e giustezza dei suoi principi, che percepisce come valori universali e dunque non negoziabili. E come tali degni di essere imposti a tutti, con le buone o con le cattive. Di qui l’attrazione fatale per il mezzo di coercizione fondamentale, sempre disponibile a chiunque: l’esercizio della violenza. Un’attrazione che è tipica di tutti i fondamentalismi e che, non a caso, fuori del perimetro della sinistra si manifesta nel modo più sistematico nelle violenze dei fanatici religiosi contrari all’aborto. Anche qui, in nome di un valore universale non negoziabile: il diritto alla vita del nascituro.

Orrori del Bene.

[articolo uscito sulla Ragione il 16 settembre 2025]

A proposito dell’inizio dell’anno scolastico – Ciao maschio

15 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Niente telefonini a scuola, anche nei licei. Chi fa scena muta all’esame di maturità sarà bocciato. Il voto in condotta peserà di più. Chi verrà sospeso per più di due giorni non potrà cavarsela stando a casa, ma dovrà svolgere attività di “cittadinanza solidale” presso strutture convenzionate. Quanto ai programmi, ci sono dei cambiamenti ma decorreranno solo 2026-27.

Queste le principali novità dell’anno scolastico che sta iniziando. Novità che, a ben vedere, sono semplicemente una rivincita del senso comune. Tardiva ma necessaria, al limite dell’ovvietà. La domanda, semmai, è come sia stato possibile, per anni, consentire l’uso dei cellulari nella scuola secondaria superiore, o elargire promozioni a dispetto di gravi violazioni di elementari norme di comportamento.

Bene, siamo tornati alla normalità. Ma di che cosa è fatta la normalità della scuola italiana?

Di tante cose. Alcune note, se non conclamate: il divario nord-sud nei livelli di apprendimento, la difficile integrazione degli studenti stranieri, il bassissimo numero di laureati. Altre eternamente discusse, ma senza pervenire a una diagnosi condivisa: disagio giovanile, bullismo, baby gang, studenti che aggrediscono gli insegnanti, genitori che difendono i figli a oltranza. C’è una cosa, però, che stranamente non entra mai nel dibattitto sulla scuola: lo svantaggio sistematico di un particolare gruppo sociale.

C’è un determinato gruppo sociale (dirò fra poco quale) che, da oltre 30 anni, si laurea molto di meno del resto della popolazione. Che, in terza media, ha voti più bassi in tutte le materie. Che, negli ultimi anni, ha beneficiato meno dell’aumento occupazionale. Insomma: un disastro su tutta la linea.

Chi sono costoro?

Un piccolo gruppo di emarginati, svantaggiati, disabili? O di stranieri, immigrati, provenienti da qualche paese lontano? O sono gli abitanti di una regione o provincia italiana particolarmente povera?

Niente di tutto questo. Il gruppo di cui mai si parla mettendone in rilievo lo svantaggio sono i giovani maschi. È dal 1991 che si laureano meno delle ragazze: oggi il divario è salito al 50% (per ogni 15 ragazze che si laureano vi sono solo 10 laureati maschi). Nella scuola media inferiore, già al terzo anno le ragazze hanno voti migliori dei ragazzi, in tutte le materie, compresa la matematica. E le differenze si riproducono sul mercato del lavoro: nell’ultimo triennio il tasso di occupazione dei maschi è aumentato meno del 6%, quello delle donne di oltre il 12%, più del doppio.

Perché tutto questo?

È abbastanza semplice: i ragazzi studiano di meno delle ragazze, e proprio perché studiano di meno accumulano difficoltà crescenti nel percorso scolastico. Non studiare alle elementari non ha effetti immediati, tutti vengono promossi a prescindere. Ma man mano che si va avanti i deficit di preparazione costano sempre più cari: per quanto permissivo e di manica larga sia il sistema dell’istruzione, gli è impossibile promuovere tutti dalla licenza elementare alla laurea. È come in una corsa ad ostacoli: per chi studia poco gli ostacoli diventano sempre più alti man mano che si procede nei vari gradi (o “scalini”) del percorso di studi. Il risultato è una selezione spietata dei giovani maschi, che pagano il deficit di preparazione uscendo anzitempo dal percorso degli studi. Non a caso, nel confronto europeo, l’Italia non è messa affatto male se si comparano i tassi di conseguimento della laurea delle ragazze, ma occupa una posizione sconfortante se si comparano quelli dei ragazzi: le ragazze laureate sono il 37%, vicine all’obiettivo europeo del 45% entro il 2030, i ragazzi sono fermi al 24%, poco più della metà dell’obiettivo europeo.

Se questo è quel che raccontano i dati, ci si potrebbe chiedere perché se ne parla così poco. Qualsiasi gruppo sociale che presentasse numeri come quelli dei giovani maschi diventerebbe immediatamente oggetto di attenzione, di pensosi dibattiti, di proposte e iniziative per colmare il divario. Per i maschi invece no, questa attenzione non c’è quasi mai.

La ragione è semplice, e la dice molto lunga sul tipo di cultura in cui siamo immersi: dei maschi non si parla perché sono sì un gruppo svantaggiato, ma lo sono per responsabilità propria. Non possono rivendicare lo status di vittima. Non c’è una condizione sociale, un trauma, una tara psicologica o mentale che ne giustifichi il ritardo nella corsa della vita.

Di qui il silenzio. Un silenzio che, per una volta, si potrebbe provare a interrompere. Almeno nei giorni in cui per tutti, giovani ragazzi e ragazze, comincia l’avventura degli studi.

[articolo uscito sul Messaggero il 14 settembre 2025]

Genocidio e pulizia etnica

15 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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L’orrore suscitato dalle rovine di Gaza, che fanno pensare a Hiroshima e a Nagasaki, ha indotto politici, studiosi, cittadini comuni ad accusare il governo Netanyahu di genocidio. Capisco chi ritiene il premier israeliano un’criminale di guerra’ ma l’uso del termine ‘genocidio’ mi sembra del tutto inappropriato. La violenza cieca ed efferata nei confronti di chi occupa un territorio che l’aggressore considera destinatogli da Dio o dalla Storia o dal Progresso, è un fenomeno costante nella storia: si pensi solo alle stragi di indiani compiute in America o al massacro degli armeni per mano turca (e non furono i ministri retrogradi e reazionari  della Sublime Porta a farlo ma i Giovani Turchi del partito Unione e Progresso!) In questi e in altri casi, l’imperativo è <non vogliamo gente estranea a casa nostra!>. Nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville, inorridito dal trattamento riservato, nei civilissimi States, a indiani e ‘negri’, scriveva: «Non si direbbe, nel vedere ciò che avviene nel mondo, che l’europeo è per gli uomini delle altre razze quello che l’uomo stesso è per gli animali? ». Per i pionieri, in realtà, le immense praterie del Nord America, piene di laghi, di fiumi, di pascoli erano la Terra Promessa che Iddio aveva assegnato alla razza bianca anglosassone, in considerazione delle sue eccelse virtù, e non a caso il Vecchio Testamento ricorreva così frequentemente nei loro nomi e nei loro riti religiosi. Forse si dimentica che le giustificazioni ideologiche del colonialismo sono la missione religiosa e il dovere di espandere i lumi e la scienza in tutti gli angoli del mondo. Contro il richiamo ai lumi e all’esportazione della civiltà un repubblicano, come Georges Clemenceau, ammoniva, nel Discorso alla Camera del 30 luglio 1885, «Guardate la storia della conquista di questi popoli che chiamate barbari e vedrete la violenza, tutti i crimini scatenati, l’oppressione, il sangue che scorre a torrenti, i deboli oppressi, tiranneggiati dal vincitore! Questa è la storia della vostra civiltà! […] Quanti crimini atroci, spaventosi sono stati commessi in nome della giustizia e della civiltà ».

 Lo ‘spirito di conquista e di usurpazione’ non è iscritto solo nel dna della destra (il monarchico Charles Maurras non era affatto favorevole alle conquiste coloniali) ma nasce da un progetto imperiale che lo stato nazionale nell’età dell’anarchia internazionale – gli ultimi decenni dell’Ottocento che vedono il dissolvimento dell’equilibrio europeo creato a Vienna dal Principe di Metternich – coltiva ma non produce. È il bisogno di spazio vitale, al di là delle motivazioni ideali, che porta ad allargare a dismisura i confini della comunità politica fino a snaturarla (giacché ne mette in crisi l’omogeneità culturale), al di là delle motivazioni ideali: si vuole ampliare la vecchia casa in modo da renderla più ricca economicamente e più sicura militarmente.

E tuttavia nell’agire dei governi manca la pretesa di agire, o di legiferare, per il genere umano. È qui la differenza cruciale tra la pulizia etnica e il genocidio. In quest’ultimo, definito nella ‘Enciclopedia Britannica’ come «deliberata e sistematica distruzione di un popolo per le sue caratteristiche etniche, nazionali, religiose o razziali», troviamo qualcosa di inedito: non il nazionalismo dilatato ma una sorta di universalismo nero che induce certi regimi politici a investirsi del compito di ripulire l’umanità da una razza infetta e inquinante. Per i pionieri del Far West, per gli israeliani, per i turchi, i pellirosse, i palestinesi e gli armeni non erano germi patogeni, destinati a infettare la razza umana ma minoranze detestate, in quanto suscettibili di ‘rovinare la festa’ ovvero l’idillio e l’omogeneità comunitaria. «Le comunità politiche evolute, come le antiche città-stato o i moderni stati-nazione—scriveva Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo— insistono così spesso sul­l’omogeneità etnica perché tendono a eliminare nella misura del possibile le differenze naturali, sempre presenti, che suscitano odio, diffidenza e discriminazione».

Con il nazismo si entrava in un altro ordine di idee: non si trattava più di eliminare una minoranza incomoda e indesiderata, ma di una gigantesca opera di bonifica planetaria che avrebbe segnato nella storia del genere umano una svolta epocale. Per i nazisti gli ebrei erano batteri pestilenziali da eliminare in tutte le regioni della Terra in cui avevano messo radici. Qui non si trattava più di razze inferiori o superiori: il pioniere non riteneva indiani e ‘negri’ appartenenti, come lui, al genere umano ma, se li incontrava al di là del Rio Grande, gli erano del tutto indifferenti. Se gli Israeliani invadessero il Libano non chiederebbero certo alla polizia e alle amministrazioni comunali l’elenco dei palestinesi per deportarli a Gaza e ivi seppellirli sotto i bombardamenti. Al contrario, quando i nazisti invasero la Polonia e si insediarono nelle due France, quella occupata e quella di Vichy, non riconobbero nessuna autorità allo stato nazionale: per loro, funzionari del Genere Umano (Ariano, s’intende), passaporti e cittadinanza erano irrilevanti e pertanto delle deportazioni nei Lager non dovevano render conto a nessun governo amico, alleato, nemico che fosse.

È questo che sconvolge in episodi tragici come il rastrellamento del ghetto di Roma: il fatto che le SS non si limitano ad allontanare gli ‘indesiderabili’, a costringerli a emigrare altrove ma che lo facciano in nome di un’Autorità Mondiale che impone lo sterminio delle razze impure.

La ‘pulizia etnica’ sicuramente si lega a pregiudizi e a gerarchie razziali ma, a motivare il ‘genocidio’ è il fatto che gli ebrei non  erano considerati esseri inferiori come gli slavi o come i cani bastardi rispetto ai cani di razza: erano pantegane che apportavano la peste e minacciavano di distruggere l’umanità. Di qui la missione di liberarne il mondo, ispirata a un’ideologia –universalistica appunto – che non riconosceva  frontiere e stati nazionali.

 È un fatto nuovo e terrificante, che spiega perché gli ebrei non si sentano minoranze perseguitate come le altre. L’antisemitismo, non lo si ribadirà mai abbastanza,  è un unicum nella storia, giacché non si limita a colpire una razza o una religione, con cui non si vogliono avere rapporti di alcun genere – v. l’odio per africani, asiatici, islamici: ‘se ne tornino a casa’, ‘non li vogliamo in mezzo a noi’, ‘non sono ospiti graditi’ – ma vuole tagliare per sempre un ramo della pianta uomo Questo spiega l’attaccamento degli ebrei israeliani alla Terra promessa  e la spietatezza nella guerra contro chi vorrebbe condannarli a una nuova diaspora.

 Occorre considerare che la diaspora nell’800 non faceva aderire tutti gli ebrei al progetto di un focolare nazionale in cui vivere finalmente al riparo dai pogrom. Nelle società più evolute dell’Occidente – e soprattutto in quelle anglosassoni – i figli di Israele avevano trovato possibilità concrete di elevarsi socialmente, di porsi alla guida di banche e di imprese industriali, di tenere cattedre universitarie, di dirigere giornali e case editrici. Molti si erano integrati a tal punto da aver quasi dimenticato le loro origini ebraiche – penso a sociologi come Raymond Aron, a storici come Marc Bloch – sicché il ritorno alla terra degli avi non era in cima ai loro pensieri. Fu la terribile esperienza dei Lager a riattualizzare drammaticamente il tema dell’Aliyá, del Ritorno.

Va detto che neppure i palestinesi pensano al genocidio del popolo ebraico: anch’essi, come i loro nemici mortali, vogliono la ‘pulizia etnica’ ovvero ributtare in mare gli intrusi israeliani. La situazione in Terra Santa è drammatica, per non dire tragica, ma tirare in ballo il genocidio non aiuta né a risolverla né a fare chiarezza.

Se gli intellettuali remano contro

11 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Il nostro paese, in anni come questi di grande incertezza e di ‘perdita del centro’—non solo a livello internazionale—è sempre più caratterizzato da una forte delegittimazione degli avversari politici visti come pericoli per la democrazia. All’origine del mancato riconoscimento (e rispetto) reciproco dei protagonisti della politica italiana sta, a mio avviso, un debole senso dell’identità nazionale. Dove il patriottismo è forte e istintivo, le opposizioni cercano di conquistare il centro (ci si identifica, infatti,  con il ‘punto medio’ che riflette il modo di sentire della nazione). Dove il patriottismo è molto debole, la, battaglia di civiltà contro la barbarie. Il nesso nazione/ democrazia non è stato quasi mai al centro delle riflessioni degli studiosi della democrazia ma è di fondamentale importanza. In Italia, si può dire, non c’è scienziato politico al quale venga  in mente che tra i prerequisiti funzionali della democrazia liberale c’è una comunità che ne garantisce il buon funzionamento :a farlo rilevare si rischia essere etichettati a destra, una qualifica che si ritiene offensiva (chissà perché). Il richiamo alla comunità non si colloca sul piano destra/sinistra – che è il piano dei progetti politici, delle forme di governo, delle istituzioni – ma su quello del terreno storico su cui si erigono quelle istituzioni e quelle forme di governo. Gli intellettuali, che molto possono per creare un sentimento di comune identità e appartenenza, invece di assumersi il ruolo dei pompieri, che cercano di spegnere le fiamme delle passioni politiche, sembrano aver scelto la parte degli incendiari, fornitori di droghe ideologiche alle classi politiche. Da giovane restavo colpito dal realismo e dal buon senso di certi funzionari del PCI così lontani dal fanatismo e dalla cecità degli intellettuali ‘impegnati’, miei colleghi delle Facoltà umanistiche. Nulla è mutato da allora, a riconferma della estraneità della cultura politica italiana allo spirito del pluralismo. Pluralismo significa ritenere chi è in disaccordo con noi non un reprobo bensì un ‘compatriota’ che persegue il bene comune con strategie forse sbagliate ma che non per questo sono farina del diavolo.

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche. Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 settembre 2025]

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