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Un dogma dei nostri tempi – Declino della violenza

23 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Come era prevedibile, dopo l’uccisone di Charlie Kirk le polemiche sul possesso delle armi, sull’uso della violenza, sull’istigazione all’odio sono riprese vigorose. Non c’è da stupirsene: quello dell’andamento della violenza, e in particolare degli omicidi, è da sempre un tema altamente infiammabile sul piano politico. I conservatori vedono in ogni episodio di violenza una convincente ragione per inasprire le misure repressive, mentre i progressisti – proprio perché ostili a quel tipo di misure – non si stancano di proclamare che la violenza è in declino da decenni, anzi da secoli, dunque l’allarme dei conservatori è ingiustificato.

La tesi del declino della violenza ha ricevuto un forte sostegno scientifico, una ventina di anni fa, dai lavori del criminologo Manuel Eisner sul crollo degli omicidi in Europa, dall’alto Medioevo ai giorni nostri. Ma l’apoteosi, anche mediatica, della tesi del declino della violenza è arrivata una decina di anni dopo, con un importane libro dello psicologo americano Steven Pinker (Il declino della violenza, Rizzoli). Un libro che, fin dalla copertina, esordisce dichiarando il suo intento: spiegare “perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia”.

Pubblicato nel 2011, il libro usciva alla fine di un periodo di forte declino degli omicidi, non solo negli Stati Uniti. Il cuore del saggio di Pinker, di conseguenza, non è se la violenza sia davvero ai minimi storici, ma perché lo sia.

Da allora sono passati una quindicina di anni e, nonostante alcune critiche riguardo alle fonti e ai calcoli statistici mosse da vari specialisti, la tesi del declino della violenza è tuttora dominante. L’idea di fondo è che il ricorso alla violenza sia un retaggio del passato, da cui la maggior parte dei paesi si starebbe liberando. Democratizzazione, modernizzazione, civilizzazione, invecchiamento della popolazione sono le grandi forze storiche che, inesorabilmente, sospingerebbero verso il basso il tasso di omicidio.

Curiosamente, sono ben pochi a chiedersi se il fenomeno che si intende spiegare – il declino della violenza – sia davvero in atto, e soprattutto se lo sia universalmente. In parte si capisce perché: gli anni del covid hanno complicato le cose, spesso deviando le traiettorie degli omicidi. Inoltre i dati sugli omicidi, come molte altre statistiche, escono con notevole ritardo, e non riguardano tutti i paesi.

Ora però c’è una novità: gli uffici statistici delle Nazioni Unite hanno recentemente rilasciato i dati del 2023 per buona parte dei paesi importanti. E i dati del 2023 permettono finalmente dei confronti per così dire “covid-free: il dato del 2023, primo anno sostanzialmente fuori dell’epidemia, può essere comparato al dato del 2019, ultimo anno senza covid.

Più esattamente, possiamo chiederci se è vero che gli omicidi (di maschi e di femmine) siano in discesa nella maggior parte dei paesi del mondo, o almeno nelle società avanzate (occidentali o occidentalizzate).

Ed ecco alcune sorprese. Nelle società meno sviluppate non succede granché: le uccisioni di maschi sono in leggera diminuzione, quelle delle femmine sono in lieve aumento. La novità è che prima, ossia nel quadriennio 2015-2019, erano entrambe in assai rapida diminuzione. In breve: in quelle società era in atto un processo di riduzione della violenza, che nell’ultimo quadriennio si è invece interrotto.

Ma la vera cattiva notizia, per la teoria del declino della violenza, viene dalle società avanzate. Qui, nel quadriennio 2019-2023, sono aumentati sensibilmente sia le uccisioni di uomini sia quelle di donne, cosa che non accadeva nel quadriennio precedente: anche in questo caso una preoccupante inversione di tendenza.

Si potrebbe supporre che il fenomeno sia per così dire localizzato: l’aumento degli omicidi potrebbe essere concentrato in alcuni specifici paesi, mentre in tutti gli altri proseguirebbe il processo di civilizzazione. E invece no, sfortunatamente: l’aumento degli omicidi coinvolge 3 società avanzate su 4 (e le cose non vanno molto meglio nelle società meno sviluppate). Negli Stati Uniti, in particolare, le uccisioni di maschi sono aumentate del 18% nel quadriennio 2019-2023, quelle di donne del 21.5%. E la tendenza alla crescita era già in atto nel quadriennio precedente (+4.2% e +7.6% rispettivamente).

E in Italia?

In Italia le uccisioni di uomini e donne risultano entrambe in lieve aumento nel quadriennio 2019-2023, ma il punto è che – diversamente che negli Stati Uniti – erano in forte diminuzione nel 2015-2019. Anche da noi, dunque, quel che si osserva è un cambiamento di regime fra il quadriennio pre-covid e il quadriennio successivo.

Forse non viviamo affatto nella “epoca più pacifica della storia”. Non solo per gli eccidi in Ucraina, Gaza, Sudan, Myanmar, ma perché – da qualche anno – aggressività e ricorso alla violenza  si stanno facendo strada anche nelle nostre civilissime democrazie.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 settembre 2025]

Orrori del Bene

17 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Hanno suscitato sconcerto, prima ancora che indignazione o rabbia, le parole con cui il matematico Piergiorgio Odifreddi è parso, se non giustificare, perlomeno sminuire la gravità del gesto con cui un estremista di sinistra americano (Tyler Robinson) ha ucciso Charlie Kirk, estremista di destra (e secondo alcuni potenziale futuro candidato alla Casa Bianca).

Le frasi incriminate di Odifreddi sono ben quattro. Nella prima, a una domanda di David Parenzo sull’uccisione di Kirk, rispondeva dicendo testualmente “Ma sparare a Martin Luther King e sparare a un rappresentante di Maga (il movimento trumpiano Make America Great Again) sono due cose molto diverse, perché Martin Luther King predicava la pace e invece Maga e Trump…” [la fine della frase è incomprensibile, perché sovrastata dalle proteste dei presenti]. Le altre tre frasi sono delle specie di proverbi o paragoni, volti a spiegare e giustificare l’affermazione principale. Il primo (pronunciato ancora in trasmissione) è “chi semina vento raccoglie tempesta”. Il secondo pseudo-proverbio compare in dichiarazioni successive, rilasciate all’Ansa: “Gesù diceva chi di spada ferisce di spada perisce”. Ma Odifreddi è uno scienziato, non credente, e per perfezionare il ragionamento sfodera il terzo pseudo-proverbio, decisamente più laico: “se non si vuole citare Gesù Cristo si può citare la legge della fisica per cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.

Infine, per completare il ragionamento, cerca di far intendere che anche la vittima – l’estremista di destra ucciso – ha le sue responsabilità, in quanto odiatore: “non è necessario sparare per incitare all’odio, le parole possono essere macigni”. Tutte varianti del mai abbastanza deprecato “se l’è cercata” usato per attenuare le responsabilità di violentatori e stupratori.

Qui sarebbe facile far notare a Odifreddi, che di professione fa il logico, quanto illogico sia il suo modo di ragionare: se Parenzo si è tanto inquietato è precisamente perché condivide l’affermazione di Odifreddi, e cioè che “le parole possono essere macigni” (o pietre, come recita il titolo di un celebre libro di Carlo Levi). E’ curioso che chi vede la pericolosità dell’incitamento all’odio, non veda la pericolosità di chi minimizza un assassinio solo perché la vittima è a sua volta un odiatore.

Ma il punto su cui vorrei attirare l’attenzione è di tipo storico-empirico. Quello che mi colpisce è l’asimmetria che, negli ultimi anni in Italia, si è venuta instaurando nelle manifestazioni di esaltazione della violenza. Mentre in passato il ricorso alla violenza era praticato e teorizzato sia dall’estrema sinistra (Brigate Rosse e altri gruppi) sia dall’estrema destra (Nar e altri gruppi), oggi a praticare o celebrare la violenza sono quasi esclusivamente persone e gruppi di sinistra, o genericamente anti-fascisti. Negli ultimi anni, ad esempio, è diventato normale manifestare con le immagini di Giorgia Meloni (e di altri politici di destra) a testa in giù. Ènormale che dibattiti, presentazioni di libri, lezioni vengano impedite con la forza perché fra gli interventi previsti ci sono quelli di ebrei, o di persone di destra. È normale che, se la destra scende in piazza, antagonisti e centri sociali organizzino un contro-corteo, per impedire che il corteo sbagliato possa svolgersi in pace. Ènormale vedere studenti che scandiscono il vecchio slogan “uccidere un fascista non è reato”, preceduto da un raccapricciante “il maresciallo Tito ce l’ha insegnato…” (con le foibe?), o “la lotta partigiana ce l’ha insegnato…”, o addirittura dal grottesco “la nonna partigiana ce l’ha insegnato”. È normale che alla costruzione della linea dell’alta velocità in Val di Susa ci si opponga con la guerriglia contro le forze dell’ordine. Normale, infine, è che tutto questo susciti comprensione, prudente silenzio, minimizzazione, talora persino compiacimento in una parte parte dell’establishment progressista.

Si può obiettare, ovviamente, che in questi anni gesti violenti non sono mancati nemmeno a destra (su tutti l’assalto di Forza Nuova alla Cgil), ma l’obiezione non coglie il punto: sono la frequenza e l’ampiezza del sostegno alla violenza ad essere incomparabilmente superiori a sinistra.

Perché?

Io temo che dietro questa asimmetria dei comportamenti, in realtà, lavori una asimmetria più profonda, che si situa su un piano psicologico e morale. Destra e sinistra sono entrambe portatici di visioni del mondo, mentalità, percezioni tra loro differenti. Con una differenza cruciale, però: mentre il tipico militante conservatore è consapevole della parzialità del proprio punto di vista (anche perché glielo ricordano quotidianamente), quello progressista è sinceramente convinto della superiorità e giustezza dei suoi principi, che percepisce come valori universali e dunque non negoziabili. E come tali degni di essere imposti a tutti, con le buone o con le cattive. Di qui l’attrazione fatale per il mezzo di coercizione fondamentale, sempre disponibile a chiunque: l’esercizio della violenza. Un’attrazione che è tipica di tutti i fondamentalismi e che, non a caso, fuori del perimetro della sinistra si manifesta nel modo più sistematico nelle violenze dei fanatici religiosi contrari all’aborto. Anche qui, in nome di un valore universale non negoziabile: il diritto alla vita del nascituro.

Orrori del Bene.

[articolo uscito sulla Ragione il 16 settembre 2025]

A proposito dell’inizio dell’anno scolastico – Ciao maschio

15 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Niente telefonini a scuola, anche nei licei. Chi fa scena muta all’esame di maturità sarà bocciato. Il voto in condotta peserà di più. Chi verrà sospeso per più di due giorni non potrà cavarsela stando a casa, ma dovrà svolgere attività di “cittadinanza solidale” presso strutture convenzionate. Quanto ai programmi, ci sono dei cambiamenti ma decorreranno solo 2026-27.

Queste le principali novità dell’anno scolastico che sta iniziando. Novità che, a ben vedere, sono semplicemente una rivincita del senso comune. Tardiva ma necessaria, al limite dell’ovvietà. La domanda, semmai, è come sia stato possibile, per anni, consentire l’uso dei cellulari nella scuola secondaria superiore, o elargire promozioni a dispetto di gravi violazioni di elementari norme di comportamento.

Bene, siamo tornati alla normalità. Ma di che cosa è fatta la normalità della scuola italiana?

Di tante cose. Alcune note, se non conclamate: il divario nord-sud nei livelli di apprendimento, la difficile integrazione degli studenti stranieri, il bassissimo numero di laureati. Altre eternamente discusse, ma senza pervenire a una diagnosi condivisa: disagio giovanile, bullismo, baby gang, studenti che aggrediscono gli insegnanti, genitori che difendono i figli a oltranza. C’è una cosa, però, che stranamente non entra mai nel dibattitto sulla scuola: lo svantaggio sistematico di un particolare gruppo sociale.

C’è un determinato gruppo sociale (dirò fra poco quale) che, da oltre 30 anni, si laurea molto di meno del resto della popolazione. Che, in terza media, ha voti più bassi in tutte le materie. Che, negli ultimi anni, ha beneficiato meno dell’aumento occupazionale. Insomma: un disastro su tutta la linea.

Chi sono costoro?

Un piccolo gruppo di emarginati, svantaggiati, disabili? O di stranieri, immigrati, provenienti da qualche paese lontano? O sono gli abitanti di una regione o provincia italiana particolarmente povera?

Niente di tutto questo. Il gruppo di cui mai si parla mettendone in rilievo lo svantaggio sono i giovani maschi. È dal 1991 che si laureano meno delle ragazze: oggi il divario è salito al 50% (per ogni 15 ragazze che si laureano vi sono solo 10 laureati maschi). Nella scuola media inferiore, già al terzo anno le ragazze hanno voti migliori dei ragazzi, in tutte le materie, compresa la matematica. E le differenze si riproducono sul mercato del lavoro: nell’ultimo triennio il tasso di occupazione dei maschi è aumentato meno del 6%, quello delle donne di oltre il 12%, più del doppio.

Perché tutto questo?

È abbastanza semplice: i ragazzi studiano di meno delle ragazze, e proprio perché studiano di meno accumulano difficoltà crescenti nel percorso scolastico. Non studiare alle elementari non ha effetti immediati, tutti vengono promossi a prescindere. Ma man mano che si va avanti i deficit di preparazione costano sempre più cari: per quanto permissivo e di manica larga sia il sistema dell’istruzione, gli è impossibile promuovere tutti dalla licenza elementare alla laurea. È come in una corsa ad ostacoli: per chi studia poco gli ostacoli diventano sempre più alti man mano che si procede nei vari gradi (o “scalini”) del percorso di studi. Il risultato è una selezione spietata dei giovani maschi, che pagano il deficit di preparazione uscendo anzitempo dal percorso degli studi. Non a caso, nel confronto europeo, l’Italia non è messa affatto male se si comparano i tassi di conseguimento della laurea delle ragazze, ma occupa una posizione sconfortante se si comparano quelli dei ragazzi: le ragazze laureate sono il 37%, vicine all’obiettivo europeo del 45% entro il 2030, i ragazzi sono fermi al 24%, poco più della metà dell’obiettivo europeo.

Se questo è quel che raccontano i dati, ci si potrebbe chiedere perché se ne parla così poco. Qualsiasi gruppo sociale che presentasse numeri come quelli dei giovani maschi diventerebbe immediatamente oggetto di attenzione, di pensosi dibattiti, di proposte e iniziative per colmare il divario. Per i maschi invece no, questa attenzione non c’è quasi mai.

La ragione è semplice, e la dice molto lunga sul tipo di cultura in cui siamo immersi: dei maschi non si parla perché sono sì un gruppo svantaggiato, ma lo sono per responsabilità propria. Non possono rivendicare lo status di vittima. Non c’è una condizione sociale, un trauma, una tara psicologica o mentale che ne giustifichi il ritardo nella corsa della vita.

Di qui il silenzio. Un silenzio che, per una volta, si potrebbe provare a interrompere. Almeno nei giorni in cui per tutti, giovani ragazzi e ragazze, comincia l’avventura degli studi.

[articolo uscito sul Messaggero il 14 settembre 2025]

Strabismo umanitario – Bambini di serie A e di serie B

11 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Un marziano che fosse atterrato in Europa nel 2022, e per tre anni avesse seguito le vicende belliche della Terra solo dai giornali e dalle tv, oggi avrebbe maturato alcune curiose convinzioni.

Primo, nel mondo ci sono 2 guerre, una in Ucraina, l’altra a Gaza. Secondo, l’aggressione di Israele contro i palestinesi è molto più grave di quella di Putin verso gli ucraini. Terzo, la Palestina è popolata da bambini, l’Ucraina da adulti.

La prima convinzione è falsa, i conflitti sanguinosi in corso sono decine (fra 50 e 100 a seconda delle definizioni e delle fonti). Sulla seconda convinzione (gravità delle due aggressioni) sospendo il giudizio, perché è una questione di punti di vista politico-ideologici. Quanto alla terza convinzione, è quantomeno esagerata: i bambini (minori sotto i 6 anni) ci sono da entrambe le parti, anche se a Gaza rappresentano una quota maggiore della popolazione (circa il 18% contro il 6% dell’Ucraina). In termini assoluti i bambini sotto le bombe sono tra 300 e 400 mila a Gaza, circa 2.2 milioni (cioè sette volte di più) in Ucraina.

Da che cosa possano essere state generate queste convinzioni è evidente: i media sono sensibili agli umori dell’opinione pubblica, e l’opinione pubblica è indignata per lo sterminio in corso a Gaza. In questa indignazione, tuttavia, c’è qualcosa che non torna. La maggior parte delle persone che si dicono indignate affermano di esserlo innanzitutto per ragioni umanitarie, ossia al di là di ogni ideologia e convinzione politica: quel che Israele sta facendo è intollerabile, e va assolutamente fermato. Chi non si indigna, non firma appelli, non scende in piazza è complice. Di qui l’invito alla mobilitazione generale per salvare i bambini di Gaza.

Ed ecco quel che non torna: se le ragioni della protesta sono puramente umanitarie, ovvero scevre da scelte ideologiche e preconcetti politici, allora ci aspetteremmo che l’indignazione non fosse concentrata su un unico conflitto. Che qualche voce si levasse a difesa dei bambini non dico in tutti, ma quantomeno nei teatri di guerra più drammatici.

Se davvero la preoccupazione è per il destino dei bambini, come mai i bambini ucraini uccisi dai russi non suscitano la medesima indignazione dei bambini palestinesi uccisi dagli israeliani? Come mai del dramma dei 20 mila bambini ucraini rapiti e deportati dai russi parla quasi esclusivamente la Chiesa cattolica?

Ma soprattutto: perché mai delle migliaia di bambini uccisi, violati, affamati, malati nell’inferno del Sudan (guerra civile + epidemia di colera) non parla quasi nessuno? E dei massacri che da 4 anni si susseguono in Myanmar? Più di 50 mila morti e 3 milioni di sfollati sono ancora troppo pochi per suscitare un cenno di attenzione nel mondo civile?

Eppure non stiamo parlando di qualche conflitto minore, di qualche guerra locale fra tribù: stiamo parlando di drammi che, per le loro dimensioni, eguagliano e spesso superano il dramma di Gaza.

Dunque torniamo alla domanda: perché solo determinati bambini infiammano gli animi? Perché ci sono bambini di serie A (Gaza), di serie B (Ucraina), di serie C (tutti gli altri)?

Credo che la risposta sia: perché l’indignazione si presenta con le vesti del senso di umanità, ma con l’umanità ha ben poco a che fare. La vera base dell’indignazione a senso unico è l’ideologia, che induce a usare le tragedie del mondo non per cambiarlo in meglio, ma per promuovere la causa politica di cui si è prigionieri (in questo caso l’antiamericanismo e l’antioccidentalismo). Per questo scopo i bambini palestinesi sono perfetti, quelli degli altri teatri di guerra no, o molto di meno.

Ma come si fa – qualcuno potrebbe obiettare – a occuparsi di tutto? Non è naturale seguire le questioni più vicine e trascurare i drammi lontani?

Ebbene, questa è una scusa che non regge. Perché ci sono i contro-esempi, che dimostrano che non è ineluttabile essere faziosi e provinciali. Se si prova a dare uno sguardo ai grandi conflitti e alle catastrofi umanitarie che scuotono il mondo, non è difficile scoprire che, in molte delle realtà snobbate dai nostri media e dagli indignati anti-israeliani, prestano la loro opera coraggiose organizzazioni internazionali (spesso non governative), queste sì davvero umanitarie – cioè universalistiche – come Medici senza frontiere, Emergency, Amnesty International, Unicef, solo per ricordarne alcune. Manifestare e firmare appelli è troppo comodo. Chi ha davvero a cuore la sorte dei bambini e i loro diritti farebbe meglio a dare un sostegno concreto a chi è pronto a operare in qualsiasi teatro di guerra, senza farsi accecare dall’ideologia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 settembre 2025]

Parole in (troppa) libertà – La lezione di Simone Weil

7 Settembre 2025 - di Luca Ricolfi

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È giusto, per amore di una buona causa (o di una causa che si ritiene buona), deformare sistematicamente la realtà?

Non è la prima volta che me lo chiedo, ma mai come negli ultimi anni mi è parsa una domanda pertinente. Certo, molto dipende dalle categorie di persone cui ci rivolgiamo. Nei confronti dei politici la domanda è fuori luogo: deformare la realtà per sostenere la propria causa fa parte dei ferri del mestiere. Nessuno, realisticamente, si sognerebbe di pretendere che un politico rinunci a quei ferri, tutt’al più si auspica che non ne abusi.

All’estremo opposto della scala si situano gli scienziati: da loro si esige che non deformino la realtà, perché è precisamente quello il loro mestiere: se l’ingegnere deforma la realtà il ponte crolla, ma se a deformare è il sociologo o lo psicologo? Qui le cose cominciano a complicarsi, perché non ci sono ponti che crollano, o computer che non funzionano, ma solo discussioni infinite fra addetti ai lavori, nessuno dei quali è abbastanza autorevole da squalificare chi deforma sistematicamente la realtà. E purtroppo molti cosiddetti scienziati sociali non si accontentano di studiare (e spiegare) come la realtà funziona, ma sono inclini a ritoccarne più o meno pesantemente la rappresentazione, nella presunzione che così facendo possano facilitare la causa in cui credono. Tipico esempio: gonfiare le cifre dei mali che si vogliono combattere, nella speranza di “sensibilizzare” pubblico e istituzioni (e magari attrarre finanziamenti).

Il caso più imbarazzante, però, è quello del mondo dell’informazione. Qui la pretesa di parlare della realtà (tipica degli studiosi) troppo spesso si combina con la più o meno dichiarata fede in una causa, una visione del mondo, una missione (come è tipico dei politici e dei predicatori). Così è sempre stato, ma non ricordo un periodo in cui questa attitudine – parlare della realtà deformandola a sostegno di una causa (spesso nobile) – sia stata pervasiva come in questi tempi. Oggi si ascoltano quasi soltanto discorsi enfatici e schierati, in cui non solo è assente qualsiasi dubbio, non solo si stabiliscono nessi di causa-effetto arbitrari, ma la stessa descrizione dei fatti è guidata dall’ideologia, o più genericamente dall’obiettivo, di rafforzare una causa che si ritiene sacrosanta.

Obnubilati dalle nostre passioni politiche, non siamo nemmeno più capaci di usare le parole appropriate per descrivere le cose. Il segno forse più inequivocabile di questa degradazione delle nostre capacità linguistiche è l’abuso dell’iperbole. Che certo talora è relativamente innocuo, come nell’impiego dell’espressione “senza precedenti” per qualsiasi cosa che sembri un po’ nuova, o dell’aggettivo “esponenziale” per dire che un fenomeno cresce rapidamente (mentre in matematica significa tutt’altro). Ma in altri casi l’abuso delle parole è un grave attentato alla verità, che ci impedisce di dare una descrizione fedele della realtà, presupposto indispensabile per cambiarla.

L’esempio più clamoroso (e attuale) di questo intorbidamento della lingua è l’uso del sostantivo ‘genocidio’ per descrivere i crimini di guerra di Israele. Basta leggere attentamente e per intero la definizione ONU del 1948 per accorgersi che, nel caso della guerra a Gaza, mancano i presupposti. La definizione ONU, infatti, richiede che siano presenti due elementi, entrambi indispensabili per integrare il crimine di genocidio: un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e la volontà di distruggerlo “in quanto tale”. Nel caso della guerra in corso a Gaza i due elementi sussistono ma in forma scissa, ossia con due diversi referenti. Israele ha sì l’intenzione di distruggere in toto Hamas, ma Hamas non è un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. I Palestinesi, d’altro canto, sono effettivamente un “gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, ma verso di esso manca “l’intenzione di distruggerlo in quanto tale”.

Ma ci sono anche altri abusi linguistici. Ad esempio l’impiego di termini come patriarcato (anche quando c’è solo maschilismo), mattanza (per il fenomeno dei femminicidi), o deportazione (per le espulsioni di stranieri autori di crimini, o presenti illegalmente in un paese).

In tutti questi casi lo scopo è chiaro: enfatizzare, drammatizzare, amplificare un fenomeno che consideriamo negativo, senza alcuna preoccupazione di analizzarlo, descriverlo, comprenderne la genesi. Eppure, dovremmo aver imparato la lezione di Simone Weil, che ammoniva: “là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero”.

E dove c’è un grave errore di pensiero si rischia di non vedere una parte importante della realtà, e quindi di non riuscire a cambiarla davvero. Credere o far credere che il governo di Israele voglia davvero lo sterminio dei Palestinesi in quanto gruppo etnico non aiuta certo a individuare le vere (e gravi) responsabilità di Israele, e meno che mai a fare passi avanti nella costruzione di uno Stato palestinese. Vedere ovunque in Europa e in America progetti di deportazione anziché piani di rimpatrio dei migranti irregolari conduce a una totale incomprensione dei movimenti di destra, e verosimilmente a una iper-radicalizzazione del conflitto politico, da cui difficilmente potranno trarre giovamento i migranti. Per non parlare dell’equivoco del patriarcato, un concetto cui si ricorre quasi sempre a sproposito, ignorando il suo esatto significato in campo sociologico e antropologico: patriarcato significa potere del capofamiglia sui matrimoni dei figli, sottomissione o segregazione dei membri femminili della famiglia, diritto successorio patrilineare (privilegi del primogenito). Tutte cose che in Italia sussistono sì, ma quasi esclusivamente nelle enclave arcaiche (tipicamente islamiche), dove le figlie vivono sorvegliate, non sono libere di vestire all’occidentale né di scegliere con chi fidanzarsi e sposarsi. Smettere di parlare di patriarcato quando non c’è, aiuterebbe a riconoscerlo – e combatterlo – dove c’è davvero. La tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere con il fidanzato, non ci ha insegnato niente?

[articolo uscito sul Messaggero il 6 settembre 2025]

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