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Dimenticare i problemi strutturali

17 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Per anni ho ritagliato gli articoli di giornale più interessanti in materia economico-sociale, distribuendoli in centinaia di cartelline a seconda del periodo e dell’argomento. Nei giorni scorsi, finalmente, mi sono deciso a fare pulizia: ho buttato quasi tutto. Non alla cieca, però: prima di buttare, ogni tanto davo una sbirciata. Così, per curiosità.

Ebbene, è stata un’esperienza sorprendente, e molto istruttiva. La cosa che più mi è saltata all’occhio è la differenza fra ciò di cui si parla oggi e ciò di cui si parlava 10, 15, 20 anni fa. La metterei così: allora il dibattito pubblico era governato da lunghe, lunghissime, insistenti discussioni sui grandi problemi strutturali dell’Italia e sui modi di affrontarli, oggi quasi tutto lo spazio è occupato da questioni contingenti e molto delimitate, nonché dalle opposte prese di posizione delle forze politiche.

Di che cosa si parlava allora?

Un elenco minimale include: spesa pubblica, spending review, sprechi, riforma federalista, pressione fiscale, debito pubblico, efficienza della giustizia, riforma della scuola, riforma dell’università, meritocrazia, spread, globalizzazione, crescita, produttività, mercato del lavoro, crisi del sistema pensionistico. Gli interventi su questi temi erano quotidiani, le posizioni contrastanti ma ben delineate. Oggi non è che non se ne parli mai, qualche articolo prima o poi compare, ma manca la convinzione condivisa che certi nodi siano ineludibili, e che sia urgente discuterne per fermare il declino dell’Italia.

Oggi a me pare che l’unico nodo strutturale in grado di attirare un’attenzione mediatico-politica costante sia quello del calo demografico: ci sposiamo di meno, facciamo meno figli, siamo preoccupati per le conseguenze economiche e sociali di questo “inverno demografico”.

Ma tutto il resto? Possibile che nessuna delle questioni che un tempo ci appassionavano (e su cui spesso ci dilaniavamo) sia ancora importante?

Per certe questioni la nostra attuale disattenzione è comprensibile. Nel caso del debito pubblico, ad esempio, è il buon andamento dello spread che ci induce a non vedere il problema. Nel caso del federalismo, sono stati 25 anni di chiacchiere impotenti che hanno fatto evaporare il tema (ma non il problema degli squilibri territoriali, da cui il sogno federalista aveva preso le mosse).

Per tutto il resto, però, la nostra disattenzione non è giustificata. Possiamo dire che la spesa pubblica è finalmente efficiente, o che la sanità nel Mezzogiorno ha prestazioni comparabili a quelle del Nord? Evidentemente no.

Possiamo dire che il merito è adeguatamente premiato, come prevede l’articolo 34 della Costituzione (“i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”)? Evidentemente no.

Possiamo dire di aver disboscato la selva di adempimenti, lacci e lacciuoli che frenano l’economia? Evidentemente no.

Possiamo dire che la giustizia civile è diventata più veloce, e quella penale commette meno errori? Evidentemente no.

Possiamo dire che la lotta all’evasione ha permesso di ridurre la pressione fiscale e abbassare le aliquote per chi paga le tasse? Evidentemente no.

Possiamo dire che, finalmente, la produttività è tornata a crescere, con benefici per le imprese (più investimenti) e per i lavoratori (più potere di acquisto)? Evidentemente no.

Possiamo dire che finalmente i nostri giovani si sono rimboccati le maniche, e non siamo più il paese dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano)? Ancora una volta, evidentemente no. Dove tutti i nostri “evidentemente” non rimandano a percezioni ma a dati statistici, che implacabilmente testimoniano il perdurare dei nostri maggiori problemi strutturali.

Ma, si potrebbe obiettare, negli ultimi cinque anni (con Draghi e Meloni) abbiamo avuto uno straordinario aumento dell’occupazione: circa 2 milioni di posti di lavoro in più. È vero, tuttavia il problema è che gli aumenti occupazionali non si sono accompagnati a incrementi del Pil abbastanza sostenuti da far crescere la produttività, che ha continuato a ristagnare come fa da circa un trentennio. Quanto agli aumenti occupazionali, sono dovuti più alla permanenza al lavoro di adulti e anziani che non all’immissione di nuove leve. Anzi, diversi indizi suggeriscono che, anche negli ultimi anni, si è rafforzata la tendenza di parti del sistema-Italia a vivere di rendita, o meglio e più precisamente, a “vivere senza lavorare”, come testimoniano tanti fenomeni apparentemente scollegati: lo sfruttamento intensivo delle abitazioni (esplosione degli Airbnb), le donazioni patrimoniali (un flusso annuo di denaro pari a 10 Finanziarie), l’attrattiva delle carriere da influencer, l’aumento del gioco d’azzardo e del trading on line. Tutte attività che assicurano (o promettono di assicurare) un reddito senza la fatica e l’impegno di un vero lavoro.

Colpa della politica? Colpa di questo governo? Colpa di quelli che l’hanno preceduto?

Difficile distribuire meriti e colpe, ma il fatto che dei problemi strutturali del paese si parli poco, comunque molto di meno di dieci o venti anni fa, suggerisce un’ipotesi amara: forse non sono solo i politici, ossessionati dalla ricerca del consenso immediato, ma siamo noi stessi – in quanto cittadini, studiosi, operatori dell’informazione – che ci siamo distratti. Poco per volta la fiducia nella possibilità di cambiare le cose ha lasciato il posto a una visione più scettica e disincantata, per cui le cose non vanno così male da esortarci all’azione, e il costo di affrontare i problemi ci appare superiore ai benefici che potremmo attenderci da riforme radicali.

O non è così?

[articolo uscito sul Messaggero il 15 novembre 2025]

La politica è donna?

12 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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A destra non c’è partita: nessun politico maschio ha un carisma anche lontanamente comparabile a quello di Giorgia Meloni. Ma a sinistra, come stanno le cose? Apparentemente la situazione è più equilibrata: Elly Schlein ha fatto fuori Bonaccini con le primarie, ma tutto il resto del centro-sinistra è dominato dai maschi: maschio è il capo dei cinque stelle, Giuseppe Conte; maschio è il leader dei Verdi Angelo Bonelli; maschio è il leader di sinistra italiana Nicola Fratoianni; maschi sono i leader del Terzo Polo Matteo Renzi e Carlo Calenda. Maschi, infine, sono quasi tutti i “grandi vecchi” – Franceschini, Bettini, Prodi, Bersani, Veltroni – che da dentro o da fuori ancora influenzano la vita del Partito Democratico.

Tutto questo fino a poco fa. Ora però il vento sta cambiando. Nel giro di pochissimo tempo la palude progressista è stata investita da un triplice ciclone femminile. A livello europeo, Pina PiciernoP, eletta nelle liste del Pd e vicepresidente del Parlamento Europeo, si è distinta – nell’ambito della sinistra italiana – come una delle voci più chiare e risolute nel sostegno all’Ucraina, in sintonia con il gruppo dei socialisti europei ma in aperto dissenso con le direttive del Partito Democratico. È uno dei rari casi in cui una donna di sinistra si contrappone duramente e a viso aperto ai vertici del suo partito.

In Italia, invece, a sfidare l’establishment progressista hanno provveduto altre due giovani donne, Silvia Salis e Chiara Appendino. Eletta sindaco di Genova con il sostegno di Elly Schlein, Silvia Salis non ha atteso molto prima di lanciare – sia pure in modo alquanto obliquo – il suo guanto di sfida alla segretaria del Pd come candidata premier della coalizione di sinistra. Quanto a Chiara Appendino, è di pochi giorni fa una sua lettera a Libero in cui sferra un durissimo attacco a tutta la sinistra per la sua incapacità di affrontare il problema della sicurezza.

Le buone ragioni politiche delle due “ragazze terribili” sono più che comprensibili. A favore della renziana Silvia Salis gioca il fatto che, con una candidata premier sbilanciata a sinistra come Elly Schlein, le probabilità di battere Giorgia Meloni sono minime. E tuttavia colpisce la sua improvvisa, repentina popolarità, ovvero il fatto che a lei – con pochissima esperienza politica, e un passato di campionessa di lancio del martello – sia riuscito in pochi giorni quello che da oltre un anno non sta riuscendo a nessuno dei maschi, da Manfredi a Onorato, da Ruffini a Prodi, che vengono ripetutamente indicati come possibili federatori di un centro sinistra ampio e inclusivo. È come se l’essere donna, giovane, sportiva e di bell’aspetto fosse diventato sufficiente a bruciare tutte le tappe di una normale carriera politica.

Il caso di Appendino è diverso, perché il suo curriculum politico è molto più ricco, a partire dalla guida della città di Torino (dal 2016 al 2021), prima donna sindaco nella storia della città. Però anche qui colpisce il modo repentino con cui ha saputo mettere nell’angolo Giuseppe Conte, finora leader indiscusso del movimento Cinque Stelle. Le è bastato dimettersi da vicepresidente del movimento, e subito dopo mettere il dito nella piaga del centro-sinistra, accusato di avere rimosso il tema della sicurezza. Un problema che cova da tempo sotto le ceneri nel M5S, ma che Conte era riuscito abilmente a tenere nascosto persino in occasione dell’incontro-intervista di un anno fa con Sahra Wagenknecht, leader di un partito (la BSW) di sinistra ma chiaramente anti-migranti.

Non sappiamo se, alla fine, il triplice assalto di Picierno, Salis, Appendino all’establishment progressista sarà coronato da successo, e quale potrà essere alla fine il ruolo di Schlein. Ma se l’assalto dovesse riuscire, le prossime elezioni ci riserverebbero uno spettacolo inedito: lo scontro tutto al femminile fra una donna al comando – Giorgia Meloni – e un manipolo di donne che aspirano a prenderne il posto. Una novità assoluta in Italia, e forse non solo in Italia.

[articolo uscito sulla Ragione l’11 novembre 2025]

Dopo la mossa di Chiara Appendino – Sinistra e sicurezza

10 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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“Da troppo tempo la sinistra ha paura di occuparsi di sicurezza, come se parlarne fosse di destra. È stato un errore enorme”.

La diagnosi non è nuova. Fra i sociologi non siamo in tantissimi a pensarla così, ma lo ripetiamo da almeno vent’anni, con una montagna di numeri. Dunque perché insistere con questo mantra?

Per una ragione fondamentale: questa volta a parlare così non siamo noi, studiosi di criminalità e di politica attoniti per la cecità della sinistra, ma è nientemeno che Chiara Appendino, esponente di punta del Movimento Cinque Stelle. In una lettera inviata a Libero non solo dice l’indicibile, ma rivendica di avere agito concretamente, quando era sindaca di Torino, per combattere contro degrado, campi rom, occupazioni abusive, anarchici dinamitardi. Anziché scaricare sul Ministero dell’Interno ogni responsabilità, la deputata Cinque Stelle richiama tutti i livelli di governo – comprese le amministrazioni locali – alle loro responsabilità e al dovere di collaborare per combattere il degrado, visto come brodo di coltura del crimine (una teoria con basi scientifiche piuttosto solide).

Dunque tutto bene. Finalmente a sinistra c’è qualcuno di (politicamente) autorevole, che prova a far aprire gli occhi alla sinistra. Nella lettera, tuttavia, Appendino non spiega come mai la sinistra stessa non abbia mai voluto prendere sul serio il tema della sicurezza. Il punto è importante, perché dalla risposta a questa domanda deriva la risposta alla domanda che segue subito dopo: riuscirà mai la sinistra a correggere questo suo errore “enorme”?

Ebbene, forse la prima cosa da notare è che non è sempre stato così, e comunque non per tutta la sinistra. Di fronte al pericolo del terrorismo, il Partito Comunista di Enrico Berlinguer (e di Armando Cossutta!) aveva ben chiara l’importanza della sicurezza, e l’assoluta necessità di combattere contro coloro che la mettevano a repentaglio. A non capire il valore della sicurezza, in quegli anni, fu semmai la sinistra extraparlamentare, che detestava le divise, disprezzava la normalità “borghese”, e vedeva ogni forma di devianza come ribellione al “sistema”. Detto per inciso, è incredibile come questi schemi mentali sopravvivano ancora oggi, più di mezzo secolo dopo il Sessantotto, in parole come quelle di Michela Murgia (“io quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre”) o di Enrico Letta (“viva le devianze”).

La vera mutazione, quella che ha decretato il divorzio fra sinistra e sicurezza, si è prodotta nei decenni successivi alla morte di Berlinguer, con l’assottigliamento della classe operaia, la “cetomedizzazione” del maggiore partito della sinistra, l’arrivo dei migranti. Per un partito di ceti medi, urbanizzati e istruiti, culturalmente cosmopoliti, aperti alle opportunità della globalizzazione, la sicurezza non poteva essere una priorità. E questo non solo perché le vittime principali della criminalità non sono certo i ceti medi (ben più attrezzati a difendersi), ma perché stare dalla parte degli immigrati come delle altre minoranze più o meno oppresse era la condizione logica necessaria per alimentare e sostenere il complesso di superiorità morale della sinistra. A preoccuparsi delle paure e dei bisogni dei ceti popolari, fatti di lavoro dipendente e partite Iva, hanno provveduto sempre di più partiti nuovi, spregiativamente definiti “populisti”, ma più capaci di interpretare il disagio dei ceti popolari: prima la Lega (nata alla fine degli anni ’80), poi il Movimento Cinque Stelle (nato nel 2007), infine Fratelli d’Italia (fondato nel 2012). Di qui, non solo in Italia, un radicale smottamento e rimescolamento delle basi elettorali: i progressisti raccolgono consenso soprattutto dai ceti medi istruiti, i partiti di destra attirano una fetta consistente del voto popolare.

E i Cinque Stelle?

I Cinque Stelle hanno avuto il loro momento di massimo splendore quando non erano né di destra né di sinistra, e sull’immigrazione avevano una posizione interlocutoria, non schiacciata sul cattivismo di destra e sul buonismo di sinistra. Poi, per amore del potere, hanno compiuto la loro svolta a sinistra (governo Conte 2) e siglato un patto difficilmente reversibile con il Partito Democratico. Di qui le loro difficoltà attuali: l’alleanza con il Pd, che sul tema della sicurezza è muto, li penalizza anche elettoralmente, perché snobbare quel tema allontana il voto popolare, che altrimenti troverebbe nei Cinque Stelle uno dei suoi sbocchi naturali.

La mossa di Chiara Appendino è anche un tentativo di far uscire il movimento dall’angolo in cui Conte negli ultimi anni ha finito per relegarlo. Un ritorno a destra? Qualcuno proverà a metterla così, ma sarebbe uno sbaglio concettuale. Perché – ce lo hanno insegnato in tanti, da Isaiah Berlin a Norberto Bobbio – la “libertà dal timore” fa parte dei diritti fondamentali dell’uomo, esattamente come la “libertà dalla miseria”. È toccato a Chiara Appendino ricordarlo nella sua lettera a Libero (“la sicurezza non è né di destra né di sinistra: è un diritto dei cittadini”). Ora tocca a Elly Schlein decidere se raccogliere la sfida, o perseverare nell’arroccamento che, non da oggi, tiene i ceti popolari lontani dalla sinistra ufficiale.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 novembre 2025]

Perché Salvini e Schlein sono un problema – Smottamento al centro?

6 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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La teoria secondo cui le elezioni si vincono al centro, convincendo l’elettore moderato, da un bel po’ di anni (almeno una decina) non gode di grande credito fra scienziati politici e sondaggisti. E questo a dispetto dell’autorevolezza di coloro che per primi ebbero a proporla, l’economista Duncan Black (nel 1948) e il politologo Anthony Downs, il padre della cosiddetta “teoria economica della democrazia” (titolo del suo libro, uscito nel 1957). Da un bel po’ di anni si sente ripetere che, in realtà, il fattore decisivo per vincere è galvanizzare il proprio elettorato, e che questo richiede uno spostamento verso le posizioni estreme: i successi elettorali delle forze estremiste, populiste o anti-sistema ne sarebbero la prova.

Ultimamente, almeno in Italia, sembra che il vento stia cambiando di nuovo. A farlo cambiare, però, non paiono essere gli insuccessi della sinistra estrema negli Stati Uniti (Bernie Sanders, Alexandra Ocasio Cortez) e nel Regno Unito (Geremy Corbyn), ma la banale constatazione che la linea estremista di Elly Schlein ha portato pochi voti, non mobilita affatto (vedi il flop del referendum della Cgil), e soprattutto rende impossibile la formazione di una coalizione larga, come quelle che per due volte portarono Prodi a Palazzo Chigi e permisero di sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il contributo decisivo alla crisi dell’estremismo di sinistra sta venendo, in questi giorni, dalle reazioni alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. La linea ufficiale del Pd è nettamente contraria (“la democrazia è in pericolo”, “Meloni vuole i pieni poteri”), ma deve fare i conti con il dissenso di parecchi esponenti tutt’altro che marginali del partito, o più in generale del campo progressista. Giusto per fare qualche nome, si sono espressi a favore della riforma, in ordine alfabetico: Goffredo Bettini, Emma Bonino, Carlo Calenda, Stefano Ceccanti, Paola Concia, Vincenzo De Luca, Antonio Di Pietro, Roberto Giachetti, Claudio Martelli, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Cesare Salvi. In breve: una parte della sinistra voterà sì al referendum, sfidando (e neutralizzando) il racconto estremista-apocalittico di Elly Schlein. Mi pare difficile, specie se dovesse vincere il sì, che il Pd possa andare alle elezioni amputando completamente le correnti riformiste-liberali-garantiste del fronte progressista.

Si potrebbe pensare che quello di non soccombere (elettoralmente) sotto il peso dell’estremismo sia soprattutto un problema della sinistra. Ma qualche indizio fa pensare che, sia pure in forme assai diverse, un problema simile sia destinato ad affliggere anche la destra. Dove il problema non è più il partito di Giorgia Meloni, il link ideologico con il Movimento Sociale Italiano, l’anti-europeismo, tutti test ampiamente superati, bensì il partito di Matteo Salvini. Un alleato sempre più anti-europeo, insofferente, aggressivo, sopra le righe. E ultimamente reso ancora meno governabile dall’innesto del generale Vannacci e delle sue truppe. Solo i commentatori più visceralmente ostili a Giorgia Meloni non si rendono conto che è la presenza della Lega, non di Fratelli d’Italia, che permette di dire che in Italia l’estrema destra è al governo.

Se la sinistra ha il problema di non cancellare la sua faccia riformista, la destra ha il problema speculare di attenuare almeno un po’ la sua faccia estremista. Un compito forse ancora più difficile, visto che Salvini – nonostante la sua incapacità di risollevare la Lega dalla stagnazione (o dal declino?) elettorale – appare inamovibile.

Ma lo è davvero?

Se lo è, non è per mancanza di valide alternative, ma perché né le vecchie glorie (Zaia, Fedriga, Giorgetti) né le nuove leve specie femminili (Ceccardi, Tovaglieri, Sardone) se la sentono di sfidare il capo.

Vedremo come andrà a finire. Se è vero, come sostengono alcuni politologi, che l’elettore sceglie la coalizione più rassicurante (o meno inquietante), le prossime elezioni potrebbe vincerle chi sarà più capace di frenare la deriva estremista che affligge entrambi gli schieramenti.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 novembre 2025]

A proposito di un’uscita di Elly Schlein – Democrazia a rischio?

4 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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«La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Così parlò Elly Schlein ad Amsterdam, al congresso dei Socialisti Europei. Le si potrebbe rispondere che è vero, la libertà di parola in Italia è a rischio, ma a metterla a rischio è l’estrema sinistra, come ha appena sperimentato sulla sua pelle Emanuele Fiano, ex deputato Pd cui è stato impedito di parlare all’Università di Ca’ Foscari “perché ebreo”. Era già successo ad altri ebrei, come David Parenzo e Maurizio Molinari (allora direttore di Repubblica), e a tanti altri con colpe meno gravi di quella di essere ebreo.

C’è però anche un altro modo, più utile, di ragionare sull’infelice uscita della segretaria del Pd, ed è di chiederci che cosa deve succedere per parlare seriamente di un deterioramento della democrazia. O, più precisamente, che nozione di democrazia hanno in mente quanti la vedono “a rischio”.

La mia impressione è che il concetto di democrazia che hanno in mente quanti la vedono in pericolo soffra di due gravi distorsioni. La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale. Quando da tali obiettivi ci si allontana perché le elezioni vengono vinte da una coalizione di destra, anziché prendere atto che l’esecutivo ha cambiato colore politico (e quindi sono al governo idee opposte) si denuncia, perlopiù in modo pensoso e corrucciato, che è in atto un deterioramento della qualità della democrazia. Ma è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro. Faccio un esempio, spesso evocato dal sociologo progressista Zygmunt Bauman: il conflitto fra libertà e sicurezza. Quando si introducono nuovi reati o nuove pene per contrastare comportamenti anti-sociali, è indubbio che si sta privilegiando la sicurezza a scapito della libertà. Ma dire che si sta mettendo a rischio la democrazia, o che se ne sta deteriorando la qualità, è un errore concettuale, perché nulla autorizza a dire che certe combinazioni di sicurezza e libertà sono più democratiche di altre. Si può dire che sono più o meno libertarie, più o meno garantiste, più o meno autoritarie, ma non più o meno democratiche. Questa, detta per inciso, è una delle differenze cruciali fra destra e sinistra oggi in Italia. La destra, di norma, critica le politiche di sinistra per i loro contenuti, non perché metterebbero a rischio la democrazia. La sinistra, al contrario, critica le politiche di destra perché (quasi) tutto quel che fa la destra le pare un attentato alla convivenza democratica.

E qui arriviamo al secondo tipo di distorsione che affligge chi evoca continuamente pericoli per la democrazia: la credenza che una delle due parti politiche – la destra – non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia precisamente perché non pienamente democratica. Qui si va davvero al nocciolo del problema: democrazia è innanzitutto l’accettazione del pluralismo, come ci ha insegnato Isaiah Berlin. Dove pluralismo significa che alcuni conflitti fra valori possono essere insuperabili, e nessuno può pretendere che i propri siano intrinsecamente superiori a quelli dell’avversario politico.

Anche in questo caso abbiamo un’asimmetria. Nessuno, dopo la svolta della Bolognina compiuta da Achille Occhetto nel 1991, contesta più il diritto degli eredi del Partito comunista di andare al potere. Ma ancora molti contestano il medesimo diritto agli eredi del Movimento sociale italiano, a dispetto della svolta di Fiuggi, voluta da Gianfranco Fini nel 1995, e della ulteriore rifondazione del partito compiuta da Giorgia Meloni (insieme a Crosetto e La Russa) nel 2012. La continua richiesta di credenziali antifasciste, e l’ossessivo allarme per la “democrazia a rischio”, segnalano esattamente questo: l’incompiutezza del cammino che, dopo la stagione del terrorismo e delle ideologie, avrebbe dovuto condurre l’Italia a essere una democrazia normale, in cui destra e sinistra si combattono sui programmi, non sul diritto a governare e sulle credenziali democratiche.

In questo senso do un po’ di ragione a Elly Schlein. Sì, effettivamente in Italia la democrazia corre qualche rischio, ma non nel senso che qualcuno voglia o possa sovvertirne le istituzioni, bensì nel senso più sottile, ma non meno inquietante, che non tutti gli attori in campo hanno ancora raggiunto la piena “maturità democratica”, ovvero la piena accettazione della legittimità dell’avversario politico e – forse ancora più importante – del diritto di espressione di tutte le opinioni, purché non violente. Su questo, dopo il caso dell’on. Fiano, silenziato da sinistra perché ebreo, urge davvero una riflessione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2° novembre 2025]

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