Campo largo, mission impossible?

Il sogno di costruire a sinistra un “campo largo”, che vada dai liberal-riformisti (tipo Calenda) all’estrema sinistra (tipo Fratoianni), ha subito un duro colpo con il recente spettacolo di confusione, divisioni e ripicche andato in scena in Basilicata in vista delle imminenti elezioni regionali.

Qualcuno ha provato a dire che “solo uniti si vince”, sorvolando sul fatto che in Sardegna il centro-sinistra aveva vinto nonostante fosse diviso, e in Abruzzo aveva perso nonostante fosse unito. A quanto pare, il puzzle non possiede una soluzione semplice.

Ma ne possiede una?

Solo il tempo fornirà la risposta, ma forse un ripasso della storia della seconda Repubblica qualcosa ce lo può insegnare.

Intanto non è vero, come talora si sente dire, che le forze di centro-destra sono sempre state unite, e quelle di centro-sinistra quasi sempre divise. Il primo governo di centro-destra, guidato da Berlusconi, cadde per mano della Lega di Bossi; le elezioni del 1996 furono perse dal centro-destra perché al Lega andò al voto da sola; e alla caduta di Berlusconi nel 2011diede un contributo non secondario la sanguinosa frattura fra Berlusconi e Fini.

Quanto al centro-sinistra, i ricorrenti litigi non impedirono a Prodi di sconfiggere Berlusconi due volte (nel 1996 e nel 2006); le bizze di Bertinotti nel 1997-98 – pur costando la presidenza del consiglio a Prodi – non impedirono al centro-sinistra di governare indisturbato per cinque anni, dal 1996 al 2001.

Dunque, se stiamo alla storia degli ultimi 30 anni, non c’è eterna granitica compattezza a destra, né ineluttabile divisione a sinistra. La partita è aperta.

Che la partita sia aperta, tuttavia, non significa che la situazione sia simmetrica. Nonostante i precedenti speculari che abbiamo richiamato, ci sono almeno due ragioni di fondo che rendono più difficile unificare la sinistra che unificare la destra. La prima è che le differenze entro il campo di centro-destra sono di natura pragmatica (e quindi ricomponibili), mentre quelle entro il centro-sinistra sono di tipo valoriale (e quindi difficilmente ricomponibili). I politici di sinistra hanno perfettamente ragione quando osservano che anche a destra ci sono divisioni importanti sulla guerra, sulla politica fiscale, sull’immigrazione, ma si illudono se pensano che siano divisioni comparabili a quelle interne alla sinistra. Che sono invece basate su questioni di principio, in quanto tali percepite come non negoziabili, per non dire identitarie.

Faccio un esempio per rendere l’idea: anche a destra ci sono differenze importanti  sull’immigrazione, con Salvini che punta sulla chiusura dei porti, e Meloni sul blocco delle partenze, ma sono differenze che impallidiscono a fronte di quelle che separano Renzi e Minniti da Bonelli e Fratoianni. Queste ultime sono percepite come enormi e inconciliabili perché, complice l’atavico complesso di superiorità della sinistra, le si tratta come contrapposizioni morali, anziché come scelte fra opzioni politiche tutte legittime. Il fatto è che, su molti temi non secondari – l’immigrazione, il precariato, la guerra – le differenze di opinione a destra restano semplici differenze di opinione, a sinistra diventano irriducibili differenze etiche (detto per inciso: è per questo che Renzi e Calenda sono indigeribili per la sinistra, ma compatibili con la destra).

C’è anche una seconda ragione, però, che rende ardua – a sinistra – la costruzione di un campo largo vincente. Una ragione che definirei “idraulica”, in quanto ha a che fare con la dinamica dei flussi di voto. In breve: se il campo largo si presenta con un profilo riformista, una parte dell’elettorato Cinque Stelle non va a votare, ma se il profilo è massimalista (come attualmente) una parte dell’elettorato riformista si rifugia a destra.

Detto in altre parole: a destra la circolazione dei voti resta all’interno del perimetro della coalizione, a sinistra coinvolge anche i flussi verso astensione e coalizione avversa.

Perché funziona così?

Un po’ perché il maggior partito della sinistra non ha mai compiuto una vera scelta fra riformismo e massimalismo. Ma un po’, anche, per una ragione per così dire antropologica: dall’avvento di Berlusconi in poi, la tendenza a porre le questioni politiche in termini etici si è profondamente radicata nella psicologia dell’elettorato progressista. Il problema è che, alla lunga, l’eticizzazione del conflitto politico finisce per ritorcersi contro chi la promuove.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 marzo 2024]




Squadrismo e dissenso – Sulla contestazione a Donatella Di Cesare

La recente vicenda in cui è incappata la filosofa Donatella Di Cesare è interessante e istruttiva. Ricapitoliamo i fatti.

Il 4 marzo scorso, all’età di 75 anni, viene a mancare Barbara Balzerani, brigatista rossa, unica donna nel commando che rapisce Aldo Moro. Arrestata nel 1985, era rimasta in carcere per più di 20 anni, e nel 2011 era tornata in libertà, dopo 5 anni di libertà condizionale.

Appresa la notizia, la prof.ssa Di Cesare, che insegna Filosofia teoretica alla Sapienza, posta il seguente pensiero:

La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna.

Come era facilmente prevedibile, si scatena una bagarre mediatica. La professoressa rimuove il post, e spiega che lo ha rimosso in quanto accortasi che “non solo veniva frainteso, ma veniva anche utilizzato per scatenare una polemica”.

A quel punto le autorità accademiche minacciano sanzioni, e qualche giorno dopo una sua lezione viene interrotta da alcuni giovani di Forza Italia, che mostrano dei cartelli con le foto di alcune vittime delle Brigate Rosse. La professoressa, che comunque riesce a terminare la lezione, accusa i giovani di Forza Italia di aver messo in atto una “violenta azione di squadrismo”, e lamenta che non le viene consentito di svolgere il suo insegnamento.

Perché la vicenda è istruttiva?

Fondamentalmente, perché in essa si presentano in modo paradigmatico un po’ tutti i problemi – e gli interrogativi – della libertà di espressione.

Primo problema, può un docente (ma vale a maggior ragione per chi fa altri mestieri) essere sanzionato dall’Università per le idee che esprime al di fuori del ruolo che ricopre? Il post della Di Cesare era su una piattaforma social, non su una slide di Power Point mostrata agli studenti durante una lezione.

A quel che si apprende, “la Sapienza ha avviato un iter di cui è stato informato il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini”. Se stiamo ai precedenti, l’università potrebbe sanzionare la docente, come ha già fatto l’università di Milano con il prof. Marco Bassani, colpevole di aver condiviso sui social una vignetta ritenuta offensiva su Kamala Harris, vice presidente USA.

Secondo problema, qual è il confine fra la libertà di espressione, e il diritto di manifestare il dissenso?

Difficile non rilevare il doppio standard con cui la questione viene affrontata, specie a sinistra. Da un lato, una breve, silenziosa, interruzione di una lezione come quella attuata dai giovani di Forza Italia, viene classificata come squadrismo, dall’altro azioni effettivamente squadristiche vengono derubricate a legittime manifestazioni del dissenso nei casi, sempre più numerosi, in cui a un relatore viene impedito fisicamente di parlare. Penso a quel che è successo nei giorni scorsi al giornalista David Parenzo, o al direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ma anche ai numerosi casi del passato, in cui – spesso in nome dell’antifascismo – è stata negata la parola a personaggi sgraditi ai collettivi studenteschi.

Terzo problema, quali sono – in una democrazia liberale – le idee che è inammissibile manifestare, e a chi tocca sanzionare chi le manifesta?

Personalmente, stento ad accettare che la censura possa toccare opinioni che non configurano reati. Ma trovo semplicemente raccapricciante che un’università, una istituzione culturale, un’impresa possiedano o si auto-attribuiscano il diritto di comminare sanzioni sindacando la legittimità delle opinioni espresse da loro funzionari o dipendenti. Eppure, è questo che sta succedendo sempre di più, specialmente negli Stati Uniti, dove può capitare che una piattaforma di pagamenti come PayPal multi i suoi utenti, o ne congeli i fondi, solo perché hanno espresso opinioni che non collimano con i codici etici della piattaforma.

Tornando alla vicenda Di Cesare, credo che chi ama la libertà non possa in alcun modo auspicare sanzioni per il suo melanconico post. Semmai, dovrebbe invitarla a ripristinarlo. Perché anche il suo ragionamento, è istruttivo. Esso illustra infatti nel modo più vivido la tragedia del comunismo, e di una parte non trascurabile della generazione del ’68. Che si è perduta proprio perché è caduta nell’errore che Donatella Di Cesare reitera nel suo post, ossia credere che le idee possano essere distinte dalle “vie”, cioè dai mezzi, attraverso i quali si cerca di realizzarle.

(uscito su La Ragione il 19 marzo 2024)




Dal femminismo al neo-razzismo

Il femminismo è morto, come ha sostenuto qualche giorno fa la storica Lucetta Scaraffia? O invece è più vivo che mai, come le è stato prontamente ribattuto?

Probabilmente sono vere entrambe le cose: il femminismo è vivo, ma ha ben poco a che fare con quello storico.

Ma in che cosa il nuovo femminismo si allontana da quello storico?

Secondo la scrittrice Elena Loewental, gli episodi di intolleranza che si sono verificati nella settimana scorsa sono intrisi di “un oscurantismo conservatore tremendamente retrogrado”, e la vera cifra delle nuove femministe sarebbe l’antisemitismo.

Io capisco pienamente lo sconcerto di Elena Loewenthal, come ebrea che difende le ragioni di Israele, come donna che non può accettare il silenzio delle femministe sulle violenze e gli stupri di Hamas verso le donne israeliane, come scrittrice che inorridisce di fronte all’intolleranza di chi – nella settimana dell’8 marzo – ha provato a impedire con la forza dibattiti e presentazioni di libri non graditi.

E tuttavia c’è qualcosa che vorrei aggiungere a questa diagnosi. Certo, nel femminismo di oggi c’è anche dell’antisemitismo. Il punto, però, è che c’è molto di più. Il femminismo di oggi si distingue da quello di ieri perché ne ha smarrito il tratto essenziale e fondativo, ossia l’universalismo.

Che cos’è l’universalismo?

È l’affermazione che “le donne sono tutte sorelle nell’oppressione, senza distinguere fra origine etnica, appartenenza politica, classe sociale”, come ricorda Lucetta Scaraffia. Nel femminismo storico convivevano idee molto diverse su emancipazione, liberazione, differenza, lotta di classe, ma l’universalismo non era in discussione. A una femminista storica non sarebbe mai venuto in mente che potesse esistere una gerarchia fra vittime di serie A, serie B, serie C, e di conseguenza un differente diritto alla protezione, alla tutela, all’attenzione politica e mediatica. E, ancora meno, sarebbe venuto in mente che in questa grottesca graduatoria potessero avere un ruolo caratteri ascritti come razza, etnia, nazionalità, o che qualcosa potessero centrare le scelte politiche delle donne, o dei governi sotto i quali vivono.

Eppure è questo che sta succedendo, non solo dopo il 7 ottobre. Ci sono donne sbagliate, che non meritano né di essere difese né di essere ricordate. Sono sbagliate le donne israeliane stuprate, perché non piace il loro governo, e perché non sono parte di un popolo oppresso (ma “solo” di un popolo minacciato). Sono sbagliate le donne israeliane del passato, come la socialista Golda Meir, di cui – qualche giorno fa a Firenze – si è impedito di presentare la biografia, scritta dalla giornalista Elisabetta Fiorito.

Ma sono sbagliate anche le donne islamiche in Italia, se a commettere violenza su di loro, o a ucciderle, è a sua volta un maschio islamico. Ha dovuto ricordarlo qualche anno fa, con imbarazzo e dispetto, Ritanna Armeni (femminista storica, tra le fondatrici del Manifesto), quando si è resa conto che, sulla tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere all’occidentale, il mondo femminista e progressista aveva preferito girarsi dall’altra parte, per una aberrante forma di rispetto della cultura islamica. E ancora più sbagliate sono le suore africane violentate da religiosi in Africa, dimenticate dalle femministe forse proprio perché suore, come ipotizza Scaraffia nel suo intervento sulla fine del femminismo.

Ma le vere donne sbagliate, sbagliatissime, sono le donne bianche in quanto tali, colpevoli (anche se italiane) di discendere da “colonialisti bianchi”. Lo ha raccontato e spiegato benissimo Federico Rampini con la storia di Lorena Tomasin (nome di fantasia), 42-enne veneta da 15 anni negli Stati Uniti, iscritta a un Master della Columbia University, cui viene chiesto di “scusarsi con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori”, o di partecipare a corsi di rieducazione e contrizione, sempre per la colpa di essere bianche. Una deriva che Pascal Bruckner aveva indovinato già trent’anni fa nel suo libro Il singhiozzo dell’uomo bianco, ma che solo nell’ultimo decennio, con la svolta woke dei democratici, ha preso pienamente forma negli Stati Uniti, e ora plana anche sui nostri lidi.

E allora veniamo al punto: qual è la marca distintiva di questi femminismi?

Per metterla a fuoco, ripercorriamo un episodio dell’8 marzo. Bandiere in piazza, tanti slogan pro-Palestina, nessun riferimento alle donne israeliane stuprate dai miliziani di Hamas. Una ragazza italiana (di sinistra) si presenta in piazza con un cartello provocatorio che dice: Non una parola sugli stupri di HAMAS: le donne israeliane “se la sono cercata”?

Reazione: cacciata dal corteo, anche per “proteggerla” da possibili atti di violenza, nessuna voce a sua difesa da parte delle femministe in piazza.

Qual è dunque il nucleo del femminismo attuale? A me sembra che sia una forma di neo-razzismo, di cui l’antisemitismo è solo un aspetto, anche se forse il più detestabile. Il razzismo classico era basato sulla distinzione fra i bianchi e gli altri, il neo-razzismo è molto più ambizioso: pretende di stabilire una precisa gerarchia fra le molteplici condizioni delle donne, e di farlo in base a caratteri ascritti o non modificabili. E nemmeno di fronte a una tragedia come quella del 7 ottobre trova una parola di pietà, se non di solidarietà e di condivisione, per le donne israeliane uccise, né per quelle ancora prigioniere dei loro carnefici.

Quindi sì, il femminismo classico è morto, e il neo-razzismo che ne ha preso il posto è un “oscurantismo retrogrado”, che ha in odio la libertà di parola e non disdegna metodi squadristici, nelle piazze, dentro le università, nelle librerie. Possibile che né il mondo progressista, né i suoi partiti-guida, avvertano il pericolo?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 marzo 2024]




Gaza, fake numbers?

C’è una cosa che, con il passare dei mesi, sempre più mi stupisce riguardo alla guerra di Gaza (ma anche alla guerra in Ucraina): il disinteresse della maggior parte della stampa, e ancor più delle tv, per i numeri della guerra. Sembra che le uniche cose importanti siano le dichiarazioni dei protagonisti (cioè la propaganda), le indiscrezioni (per lo più inattendibili), e i reportage su quel che accade a una delle due parti in conflitto (i Palestinesi). Come se lo scopo fosse solo di eccitare gli animi di chi parteggia per una delle due parti, e muovere a pietà la maggioranza dei cittadini-telespettatori.

Ma siamo sicuri che informare significhi solo questo? Siamo sicuri che non significhi anche raccontare che cosa veramente succede sul campo, e a che punto è la guerra rispetto agli obiettivi delle due parti in conflitto?

Faccio due esempi.

Primo esempio. Le cifre riportate dai media sono quasi sempre, e quasi esclusivamente, quelle fornite dai terroristi, rivestite di autorevolezza attribuendone l’origine al “ministero della Sanità” di Hamas. Su queste cifre (30 mila morti dall’inizio della guerra), e sulla loro disaggregazione in donne, bambini, anziani eccetera, non vi è il minimo controllo critico.

Naturalmente, di fronte alla richiesta di cifre vere sul numero di civili palestinesi uccisi, si può obiettare che 10, 20 o 30 mila sono sempre tantissimi, troppi, e quindi è inutile cercare di verificare (ma che cosa penseremmo se, dopo un grave incidente di lavoro in un cantiere, ci dicessero che sono morti 10-30 operai, e che è inutile sottilizzare sul numero esatto?).

Secondo esempio. Israele afferma di voler smantellare Hamas. Ma, se è così, non sarebbe essenziale avere qualche informazione sulle forze in campo, e sui risultati militari della guerra in corso? Quanti sono i miliziani di Hamas, e quanti ne sono stati uccisi finora? Quanti soldati ha Israele dentro Gaza, e quanti ne ha già persi?

A leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv, sembra che i morti – oltre ad essere tantissimi – siano tutti civili, quasi che l’obiettivo dell’esercito israeliano sia lo sterminio della popolazione di Gaza e non l’eliminazione della rete terroristica di Hamas. Nessuno stupore che, con un’informazione così, attivisti e cantanti si sentano autorizzati a chiedere di “fermare il genocidio”, e un sondaggio di Renato Mannheimer riveli che oltre il 60% dell’opinione pubblica chiede a Israele di ritirarsi senza porre condizioni sul rilascio degli ostaggi.

In realtà, la vera domanda è un’altra: il compito dell’informazione è solo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’entità e la gravità della tragedia in atto (nel qual caso basterebbe dire: decine di migliaia di morti), o è anche quello di fornire un quadro preciso dei fatti, come succede quando c’è un disastro in un cantiere, o un naufragio in mare, e si cerca di capire non solo quanti hanno perso la vita ma anche come sono andate le cose?

È proprio perché queste perplessità mi inseguono da un bel po’, che ho appreso con sollievo che, almeno nel mondo anglosassone, c’è anche chi le domande-base se le fa. Un rapporto dello statistico Abraham Wyner, della Università della Pennsylvania, ha sottoposto a una analisi statistica i dati giornalieri dei morti di Hamas, disaggregati fra bambini, donne e maschi. Ho letto il suo report, e concordo sulle conclusioni, anche se non su tutti i dettagli: ci sono troppe anomalie matematico-statistiche nell’andamento giornaliero per non pensare che le cifre siano altamente inquinate.

Ma la conclusione più importante non è la stima del numero di civili morti (compresa fra 10 e 20 mila), ma la risposta alla domanda che facevo all’inizio, ossia quanti sono i miliziani di Hamas già eliminati sul totale dei miliziani. Mettendo insieme notizie di Hamas e di Israele sul numero di miliziani uccisi, si può azzardare che tale numero sia vicino a 10 mila, su un totale di 30 mila combattenti. Questo significa che, dopo soli 4 mesi, Israele – cha finora ha perso circa 600 soldati – è grosso modo a 1/3 della missione che si è prefissa, ossia molto avanti. Il che, forse, ci permette di capire meglio perché il suo esercito non si vuole fermare: un cessate il fuoco comprometterebbe un obiettivo che, ormai, appare a portata di mano. Ma anche di capire che, verosimilmente, la guerra potrebbe durare ancora qualche mese, non anni come quella in Ucraina.

Forse, più che illuderci su un imminente cessate il fuoco, varrebbe la pena cominciare a pensare anche al dopo. La popolazione civile di Gaza non ha solo bisogno di aiuti umanitari e sostegno morale, ma di piani realistici e generosi per quando – finalmente – tornerà la pace, e la vita riprenderà a scorrere sulla “Striscia”.

 

[uscito sul quotidiano La Ragione il 12 marzo 2024]




In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.