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Maurizio Caverzan intervista Luca Ricolfi per Panorama

Professore, leggendo il suo libro si ha l’impressione che il vizio della sinistra ufficiale stia nell’ambizione originale del partito democratico di «rappresentare la parte migliore dell’Italia». È corretto?

Sì, anche se non è l’unico vizio. C’è anche, fin dai tempi del partito comunista, la incapacità di analizzare la realtà in modo scientifico, e quindi spregiudicato. Di qui la tendenza a chiedersi, di qualsiasi proposizione empirica, non se è vera o falsa, ma se è utile o dannosa alla causa. La conseguenza è stata una sorta di cecità progressiva, nel doppio senso della parola: crescente e progressista. Con un esito finale: la totale incapacità di guardare la realtà con lenti non ideologiche.

Questo complesso di superiorità ha reso più difficile per la sinistra rappresentare i ceti popolari. Cosa nasconde la convinzione che la destra parli alla pancia del Paese?

Nasconde uno strano modo di pensare: se abbiamo ragione, e il popolo non ci capisce, allora vuol dire che il popolo non usa la ragione.

Spesso i politici progressisti denunciano con disprezzo la crescita del populismo. Come va interpretato l’uso di questo termine?

Le rispondo con la definizione della parola ‘populista’ proposta da Jean Michel Naulot: “POPULISTA: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”. Una definizione interessante anche perché risale al 1996, quando pochi vedevano il problema del divorzio fra la sinistra ufficiale e i ceti popolari.

La sinistra ufficiale si accorgeva dello scambio delle basi sociali in atto fra i due schieramenti? Ha scelto consapevolmente l’establishment?

Alcuni studiosi avevano segnalato il problema fin dai primi anni ’90, quando in fabbrica fece la sua prima comparsa la doppia tessera: operai iscritti alla Cgil & militanti della Lega. Poi ci sono stati diversi studi che hanno mostrato che la base del Pci-Pds-Ds stava diventando sempre più borghese. Infine, le analisi dei flussi elettorali hanno evidenziato il paradosso della Ztl che vota a sinistra e delle periferie che votano a destra.

Ma la sinistra ufficiale ha preferito non vedere. Sapevano, ma non volevano prendere atto. Sempre per quel motivo che dicevo poco fa: l’incapacità di guardare la realtà con un atteggiamento scientifico, ossia il primato dell’utile sul vero.

Il fatto che Giorgia Meloni nel primo discorso in Parlamento si sia presentata come underdog che rappresenta gli sfavoriti è la certificazione di questo scambio?

In un certo senso sì, anche se il termine underdog, di solito, designa gli sfavoriti in una competizione elettorale, cosa che il partito di Giorgia Meloni e il suo partito sono stati in passato, ma certo non nell’ultimo anno. Io piuttosto noterei una cosa: la novità di Giorgia Meloni non è solo che è la prima donna premier, ma che è il primo premier di umili origini. Tutti i premier della seconda Repubblica, oltre ad essere maschi, erano di origine sociale elevata, talora elevatissima o nobiliare. Per trovare un premier di origini sociali modeste dobbiamo risalire al 1988, quando venne eletto Ciriaco De Mita, nato in un piccolo comune montano dell’avellinese (Nusco), con un padre sarto e portalettere, e una madre casalinga.

Credo che il carisma di Giorgia Meloni – oltre che alla sua bravura, alla sua integrità e alla sua passione – sia dovuto all’ampiezza dei segmenti sociali per i quali può risultare naturale specchiarsi in lei

Quali segmenti ha in mente?

Le donne, ovviamente, ma anche gli strati popolari, ossia le persone che non possono contare su una famiglia di origine ricca, benestante, protettiva.

Persa la rappresentanza dei ceti deboli, la sinistra si è concentrata sui diritti civili e le minoranze Lgbt che coinvolgono i ceti medio alti. Perché, contemporaneamente, è così intransigente nella difesa degli immigrati?

Proprio perché ha abbandonato i ceti popolari. La difesa degli immigrati è una sorta di polizza di assicurazione contro la perdita della propria identità. Grazie agli immigrati, la sinistra può ancora pensare sé stessa come paladina degli ultimi. E grazie alla difesa delle rivendicazioni LGBT+ può pensarsi come campionessa di inclusione.

Perché la sinistra liberal appare come una forza tendenzialmente individualista, mentre la destra mantiene una tiepida dimensione comunitaria?

Perché la sinistra liberal, ovvero la sinistra ufficiale, crede che l’aumento senza limiti dei diritti individuali sia l’essenza del progresso, mentre la destra (e una parte del mondo femminile) vede il lato oscuro del progresso, a partire dalla distruzione dei legami comunitari e familiari.

Perché oggi la sinistra ufficiale parla più di inclusione che di eguaglianza? E questo che conseguenze ha nel dibattito pubblico?

Lo spiegò Alessandro Pizzorno una trentina di anni fa: parlare di inclusione rende più facile conferire un valore morale alla scelta di essere di sinistra, e assegnare un disvalore all’essere di destra: noi buoni vogliamo includere, voi cattivi volete escludere…

Il giudizio di Enrico Letta sul risultato elettorale del Pd è che «non è riuscito a connettersi con chi non ce la fa». A suo giudizio, quanto tempo gli servirà per tornare a farlo?

Non è un problema di connessione con chi non ce la fa, è un problema di comprensione della realtà.

Prima che completi il processo di revisione, può perdere ancora consensi? E a vantaggio del Terzo polo o del M5s?

I consensi li sta già perdendo. Secondo i dati che ho potuto analizzare, l’emorragia è bilaterale, ma un po’ più grave verso i Cinque Stelle che verso il Terzo polo.

Il catechismo politicamente corretto e la cancellazione della cultura rendono la nostra società più illiberale?

Sì, nella nostra società vengono predicate tolleranza e inclusione, ma il dissenso verso il politicamente corretto non è tollerato.

Fino agli anni Settanta gli intellettuali erano compatti contro la censura e per la libertà di espressione. Come mai oggi sono in gran parte schierati a difesa dell’establishment?

Perché ne fanno parte, specie nelle istituzioni culturali e nel mondo dei media. Difendendo l’establishment difendono sé stessi.

In Italia la battaglia sul politicamente corretto si è applicata sul ddl Zan: perché nonostante il parere contrario di eminenti giuristi, di movimenti femministi e di intellettuali di area progressista il Pd ne ha fatto un simbolo intoccabile?

Per il solito motivo, l’incapacità di accettare la realtà quando la realtà va contro l’utile di partito. In questo caso: l’incapacità di ammettere il fatto che il ddl Zan limita la libertà di espressione.

Perché il dibattito sulle desinenze è divenuto così importante? 

Perché l’agenda dei media è fatta da persone che non devono fare i conti con le asprezze della vita.

Perché l’introduzione del merito tra le competenze del nuovo ministero della Pubblica istruzione ha destato scandalo?

Un po’ per il mero fatto che ne ha parlato la destra, un po’ perché nella mentalità della sinistra c’è l’idea che premiare il merito di qualcuno significa umiliare il non-merito di qualcun altro. E’ questa mentalità che, negli ultimi 50 anni, ha distrutto la scuola e l’università.

Nel Novecento cultura e istruzione erano considerate a sinistra uno strumento di elevazione sociale, oggi non è più così?

No, la trasmissione del patrimonio culturale, cara a Gramsci e a Togliatti, non interessa più.

Sta passando a destra anche l’idea di emancipazione dei deboli attraverso la cultura?

Più che a destra, sta passando nel partito di Giorgia Meloni, secondo cui “eguaglianza e merito sono fratelli”.

In questo contesto, che cosa può significare la nascita del primo governo di destra in Italia?

La fine dell’egemonia culturale assoluta della sinistra.

Se dovesse dare un solo consiglio non richiesto alla premier cosa le suggerirebbe?

Dica che vuole, finalmente, che venga applicato l’articolo 34 della Costituzione, e vari un grande piano di borse di studio per “i capaci e meritevoli” privi di mezzi.

Come le idee di Sinistra sono migrate a Destra – Pietro Senaldi (Direttore di Libero) intervista Luca Ricolfi

14 Novembre 2022 - di fondazioneHume

PoliticaSpeciale

Il suo ultimo lavoro si intitola “La mutazione” e allude al passaggio a destra di alcuni valori cardine della sinistra. Ma prima dei partiti, non è cambiata la società italiana, e in che modo?

Sì, dei cambiamenti del sistema-Italia ci sono stati, ma il più importante a me pare l’aumento del grado complessivo di incertezza, del senso generale di vulnerabilità, provocato da un complesso di fattori: a partire dal 2011, l’esplosione del problema migratorio in seguito alla morte di Geddafi; nel 2007-2013 la instabilità finanziaria; dopo la crisi finanziaria, l’irruzione sulla scena mondiale dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. La destra ha colto il cambiamento, cercando di dare risposte più o meno efficaci all’incertezza, la sinistra non ha minimamente capito che la globalizzazione, l’Europa, le istituzioni internazionali stavano diventando invise ai cittadini in difficoltà.

La sinistra è diventata un cartello di gestione del potere e questo l’ha allontanata dall’ascolto delle esigenze della popolazione: è stato un processo inconsapevole o nel tempo è diventata una strategia per conservare il potere, abbassando il livello di istruzione e quindi di consapevolezza generale per creare una massa manovrabile con qualche slogan politicamente corretto e quindi virtualmente incontestabile?

Direi che è stato un processo inconsapevole, guidato dalla naturale attrazione per il potere. Escluderei che dirigenti strutturalmente incapaci di accorgersi dei più elementari e vistosi cambiamenti della realtà possano aver consapevolmente perseguito forme di istupidimento delle masse.

Perché il merito fa così paura a sinistra, se è il solo modo di riattivare l’ascensore sociale e perché la sinistra non concepisce più la cultura come mezzo di elevazione sociale, concetto peraltro gramsciano?

Perché, grosso modo dal 1962 (anno della riforma della scuola media), e con particolare energia dal 1968, i dirigenti della sinistra si sono convinti che la partita della competizione sociale si giocasse tutta all’interno della scuola, e che la posta in gioco fossero i titoli di studio conseguiti. Di qui l’idea – imbarazzante per la sua stoltezza – che abbassando livello degli studi e asticella della promozione si sarebbe prodotta più eguaglianza.

Merito, sovranità alimentare, made in Italy, natalità: perché la sinistra ha criticato e scatenato battaglie ideologiche contro la promozione di queste parole? Sono concetti di destra, di sinistra o semplicemente di buon senso?

A me sembrano concetti di buon senso, che sono diventati improvvisamente radioattivi quando la destra li ha fatti propri. Nei loro confronti la sinistra reagisce pavlovianamente, come il toro davanti al drappo rosso.

Perché la libertà di pensiero è difesa dalla destra e non dalla sinistra, che pare ontologicamente allergica ad accogliere punti di vista differenti e votata a squalificare e degradare chi non si sottomette ai suoi diktat culturali e dal sapore propagandista?

La destra si è trovata, quasi per caso, a difendere la libertà di pensiero semplicemente perché la sinistra, con l’adesione acritica al politicamente corretto, ha progressivamente assunto tratti sempre più intolleranti. Un’intolleranza che, a sua volta, deriva dalla convinzione di incarnare la civiltà contro la barbarie, la ragione contro l’oscurantismo dei conservatori.

Il reddito di cittadinanza è diventata la linea del Piave della sinistra, solo che è una bandiera grillina. E’ il simbolo dell’abdicazione del Pd in favore di M5S del ruolo di difensore dei poveri?

Sì, ma non è l’unica abdicazione a favore dei Cinque Stelle. Oltre alla difesa dei poveri, i Cinque Stelle stanno sottraendo alla sinistra ufficiale la bandiera della pace, l’ecologia, l’arcipelago dei bonus più o meno assistenziali.

Qual è la dottrina delle tre società, che lei ha elaborato?

La dottrina distingue fra tre segmenti sociali, distinti in base al rapporto con il mercato del lavoro. La prima società, o società delle garanzie, è costituita dai lavoratori dipendenti stabili delle imprese medie e grandi, per lo più tutelati dalle organizzazioni sindacali. La seconda società, o società del rischio, è costituita dai lavoratori più esposti alle turbolenze del mercato: partite Iva, piccoli imprenditori, dipendenti regolari delle piccole imprese, lavoratori a tempo determinato delle imprese medie e grandi. La terza società, o società degli esclusi, è costituita da tre gruppi principali, accomunati dalla loro marginalità: lavoratori in nero (compresi vari tipi di quasi-schiavi, che ho descritto ne La società signorile di massa), disoccupati veri e propri (alla ricerca di un lavoro), lavoratori potenziali scoraggiati (disponibili a a lavorare, ma non in cerca di lavoro).

E’ incredibile, ma ai tre tipi di società corrispondono nitidamente tre opzioni politiche: i garantiti guardano a sinistra, i membri della società del rischio a destra, gli esclusi al movimento Cinque Stelle.

Chi sono oggi i deboli che la sinistra non difende più, cosa vogliono e cosa si aspettano dalla politica?

I dati mostrano senza ombra di dubbio che i deboli sono sovrarappresentati nella società del rischio (che guarda a destra) e nella società degli esclusi (che guarda ai Cinque Stelle).

I progressisti si sono persi inseguendo il mito del progresso, e scambiandolo erroneamente con la globalizzazione, così come cent’anni fa la destra si perse dietro il mito dell’uomo forte?

Sì e no, per come la vedo io c’è una differenza: il mito del progresso è una forza verso qualcosa, tipo una società prospera e liberata, mentre il mito dell’uomo forte, almeno in Italia, si formò anche, se non soprattutto, come reazione ai processi di disgregazione del sistema sociale in atto dopo la fine della prima guerra mondiale.

Perché i ricchi e chi ha posizioni di rendita vota a sinistra?

Per due ragioni distinte. L’interesse, dal momento che la sinistra ha abbandonato la lotta di classe e si è fatta establishment, attentissima alle esigenze dei ceti alti. E l’autogratificazione, perché un ricco che vota a sinistra, difende i migranti, è sensibile alle istanze LGBT+, tende a sentirsi moralmente superiore, e al tempo stesso “lava” (a costo zero) la colpa di essere ricco.

Lei ha partecipato al convegno di Milano organizzato nella scorsa primavera dall’allora leader di Fdi. Qual è il modello sociale proposto dalla Meloni?

Per quel che riesco a capire è parecchio diverso da quello di Salvini e Berlusconi. Fratelli d’Italia non è un partito liberista, semmai è una evoluzione della destra sociale, con robuste tentazioni stataliste e welfariste. Sul piano giudiziario, poi, Fratelli d’Italia è meno garantista di Forza Italia, come del resto è emerso chiaramente con il decreto anti-rave. E poi c’è l’aspetto più interessante: la battaglia per il merito a scuola l’ha lanciata Fratelli d’Italia, mentre gli alleati sembrano avere una visione più aziendale del ruolo della scuola.

Se perfino la Meloni promuove concetti di sinistra, significa che la destra in Italia non esiste più, o che è rappresentata da Salvini e Berlusconi o da Calenda? Insomma, da zero a quattro, quante destre ci sono in Italia?

Direi quattro, cioè quelle che ha indicato lei, ma potrebbero ridursi presto a due soltanto: la destra sociale di Meloni, e la destra liberal-liberista di Salvini e Berlusconi, o dei leader che prenderanno il loro posto. Calenda e Renzi non li vedo benissimo, a meno che riescano a convincere il Pd ad assorbirli e a macronizzarsi.

E sempre da zero a quattro, considerate le mutazioni di Fdi, quante sinistre ci sono in Italia?

Apparentemente sei, ma in realtà solo due: la sinistra qualunquista dei Cinque Stelle, con cespugli annessi (Fratoianni e Bonelli) e la sinistra senza volto del Pd (anche lei con cespugli annessi: +Europa, qualche pezzo di “terzo polo”). La grande incognita è quale volto assumerà il Pd dopo il congresso, sempre che la lunga attesa non l’abbia nel frattempo fatto sparire.

C’è un idem sentire dell’elettore di destra, per esempio rappresentato dai valori dell’ordine, della sicurezza, della detassazione?

Forse un idem sentire c’è, ma credo che il cocktail sia più complesso e sfuggente. Fra gli ingredienti che lo definiscono includerei il pragmatismo, l’ostilità verso le discussioni astratte, l’insofferenza per le ossessioni del politicamente coretto, l’anti-intellettualismo, la diffidenza verso il progresso, l’ostilità alle procedure e alla burocazia. Insomma, una sorta di neo-tradizionalismo, che poggia sulla netta sensazione che la freccia del tempo non punti sempre nella direzione giusta.

Il concetti di difesa della nazione e dei suoi interessi e di patriottismo reggono in un Paese di anarchici qual è l’Italia?

Forse sì, perché il patriottismo oggi richiesto è veramente minimale, e un problema di difesa dell’interesse nazionale esiste effettivamente.

La sfida della Meloni in Europa ha possibilità di successo e in che modo differisce da quelle di Berlusconi e di Salvini, che si scontrarono con la Ue, che ne determinò l’inizio dei rispettivi tramonti?

Sono i tempi, più che i leader, ad essere cambiati. L’Europa ha dato così cattiva prova di sé nella gestione della crisi energetica, che l’idea di una ortodossia europea da onorare e rispettare ha perso gran parte dell’antica autorevolezza. Credo che, se ci sarà un tramonto della stella di Giorgia Meloni, sarà il risultato di vicende domestiche. Tipo estenuanti trattative e bracci di ferro con Salvini e Berlusconi sulla politica economica, errori nei tempi e nei modi di varare le misure più identitarie.

A quali misure pensa, in particolare?

Essenzialmente tre: diritti civili, specie in materia di aborto; gestione dei migranti; merito e riforma della scuola.

Che giudizio dà della prima missione della Meloni in Europa?

Immagino si sia trattato, più che altro, una utile e doverosa visita di cortesia. E’ a partire dalla seconda che, forse, potremo farci un’idea.

Quali possono essere gli argomenti divisivi all’interno di questo governo e secondo lei durerà?

Credo che gli argomenti divisivi saranno quelli economici: entità dello scostamento di bilancio, tempi di realizzazione del programma fiscale, superamento della legge Fornero, ponte sullo stretto di Messina.

Quanto alla durata, non ne ho la minima idea. Però non mi stupirei che, a un certo punto, Meloni si convinca di poter andare al voto e vincere da sola.

Lei ha affermato che questo governo rappresenta una svolta storica non perché Meloni è una donna ma perché è una persona eccezionale, diversa da tutti gli altri politici.  In che senso?

Nel senso che ha due caratteristiche che mancano agli altri leader, di destra e di sinistra: primo, crede fortemente nelle sue idee; secondo, è disposta a rischiare per non tradirle.

Resta da vedere se saprà essere all’altezza anche come premier, il silenzio sulle bollette e il pasticciatissimo decreto anti-rave non fanno ben sperare.

La crisi della sinistra non è dovuta all’incapacità di produrre leader? Il centrodestra ne ha tre, che pur con tutti i difetti, lo sono. La sinistra ha prodotto solo Renzi, che non è di sinistra: come mai, carenza di qualità o questioni ambientali e culturali che impediscono la nascita di un leader?

Domanda difficile. Forse il problema è l’eccesso di colonnelli. Sembra che nel Pd viga una sorta di principio di limitazione del potere, per cui si cerca di evitare che qualcuno ne assuma troppo. Se qualcuno ci prova, come ha fatto Renzi, il corpaccione del partito reagisce espellendo l’intruso. E’ come se il Pd fosse governato da un consesso di oligarchi, che temono l’emergere di un monarca.

Le prime mosse del governo Meloni – dal tetto al contante all’anticipazione di un mese del rientro al lavoro dei medici no vax fino al decreto anti-rave party – sono state molto contestate perché ritenute provocatorie o di marginale importanza: condivide la critica, perché Meloni ha deciso di partire da lì e quanto piacciono o non piacciono queste iniziative agli elettori?

Condivido la critica. Si poteva partire in modo più prudente, senza attirarsi le critiche tutt’altro che immotivate dei media ostili. Però non penso che le critiche dell’establishment politico-cultural-mediatico possano cambiare il giudizio (positivo) degli elettori di destra, poco inclini ad attardarsi sulle sottigliezze.

La destra produce il primo premier italiano, le donne del Pd protestano contro il loro partito sostenendo di essere discriminate dai colleghi capi maschi. Tra i valori trasmigrati da sinistra a destra c’è anche la promozione della donna, oppure questo è sempre stato un valore trasversale, se non addirittura di destra, visto che in tutto il mondo le donne capo arrivano da destra?

Non credo che la promozione della donna sia una nuova bandiera della destra, semplicemente non è mai stata una pratica di sinistra. Quel che colpisce, a sinistra, è la dissociazione fra la teoria e la pratica. I miei compagni sessantottini trasformavano le donne in “angeli del ciclostile”, i loro discendenti  maschi – da Renzi a Letta – praticano la cooptazione. D’altro canto, vien da dire: ma che dovrebbero fare, se le donne di sinistra sono acquiescenti? Dopotutto la Meloni il suo posto se lo è conquistato combattendo, non certo per gentile concessione dei maschi di destra.

Da innamorato deluso della sinistra e da eminente sociologo e politologo, che via si sente di indicare al Pd, che tra cinque mesi celebrerà un congresso fondamentale per le proprie sorti?

Io penso che fra cinque mesi, quando si degneranno di tenere un congresso, i buoi saranno già scappati nella stalla dei cinque Stelle. A quel punto al Pd resteranno solo due strade: o calendo-renzizzarsi, con grande smacco; o diventare esplicitamente quel che già è: un partito radicale di massa, che si occupa solo di diritti civili e immigrazione, ed è sinceramente convinto di rappresentare “la parte migliore del Paese”.

Perché l’argomento dell’antifascismo e della difesa strenua della Costituzione, cavalcato dalla sinistra, non ha fatto breccia nell’elettorato e perché la sinistra continua a cavalcarlo, se è sterile?

La sinistra cavalca l’anti-fascismo semplicemente perché i suoi dirigenti, rifiutando per decenni il dialogo con la parte avversa, hanno perso ogni capacità di comprendere i vissuti profondi della società italiana. Quanto agli elettori, secondo me l’argomento anti-fascista non funziona per due ragioni distinte. La prima è che la gente non ha perso del tutto il senso dell’umorismo, e trova ridicolo evocare il pericolo fascista.

Ma c’è forse anche una seconda ragione, più profonda. Contrariamente a quel che paiono pensare gli scrittori di libri antifascisti sul fascismo, l’ambivalenza degli italiani verso il fascismo non dipende da una segreta simpatia per il Ventennio, o da una incompiuta maturazione democratica, ma da una sorta di imbarazzo per la nostra storia. Quella pagina della storia d’Italia non è onorevole, e non bastano le gesta dei partigiani ad assolvere la maggioranza, che prima seguì il Duce, e solo alla fine passò dalla parte giusta. E’ possibile che una parte degli italiani, più o meno confusamente, quell’imbarazzo lo senta ancora.

Il Pd come non-luogo della politica

19 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Mi sono chiesto spesso, negli ultimi anni, perché l’azione e i discorsi del Pd, così impegnati verso i diritti civili e “le grandi battaglie di civiltà”, lo fossero assai meno verso i diritti sociali, a prescindere da chi fosse alla guida del partito e da quale fosse la situazione economico-sociale del Paese.

Le risposte che mi davo giravano per lo più intorno a due nodi, il primo di natura politica, il secondo di natura sociologica: la difficoltà di affrontare la questione sociale stando al governo (nodo politico), e il fatto che, fin dalla sua nascita, il Pd era soprattutto il partito dei “ceti medi riflessivi”, ben poco radicato negli strati popolari e nelle periferie (nodo sociologico).

Oggi, di fronte allo smarrimento post-elettorale del partito e alla sua faticosissima, disperata, ricerca di una identità, mi è improvvisamente chiaro il vero motivo del primato dei diritti civili. Puntare (quasi) tutte le carte sui diritti civili è stato il mezzo che ha permesso ai dirigenti del Pd di procrastinare le scelte cruciali e più divisive che, inevitabilmente, sono quelle economico-sociali, non certo quelle sull’immigrazione, le coppie di fatto, i diritti LGBT+.

Non che siano mancati tentativi di effettuarle, quelle scelte in materia economico-sociale. La stessa nascita del Pd è stata, per tanti versi, un tentativo di farle, quelle benedette scelte. E di farle in una direzione riformista, moderna, blairiana, non ostile al mercato. Il problema è che l’anno in cui il Pd è nato, il 2007, è esattamente il momento a partire dal quale, con lo scoppio della crisi economico-finanziaria, le ragioni di quelle scelte riformiste e pro-mercato sono divenute improvvisamente più deboli, o comunque meno difendibili. La doppia recessione, la distruzione di posti di lavoro, la comparsa prepotente dei “perdenti della globalizzazione” hanno reso molto più difficile proseguire sulla linea tracciata da Veltroni e dagli economisti riformisti, innamorati della “terza via”. Renzi ci ha provato, ed è finito fuori gioco (era il 2016). Ma i suoi successori non hanno trovato la convinzione e la forza per cambiare la rotta. Bersani, per cambiarla, quella rotta, non ha trovato di meglio che uscire dal Pd e fondare un nuovo partito (Articolo 1). E Renzi, a sua volta, ne ha dovuto fondare un altro (Italia viva) per risuscitare le idee riformiste del tempo che fu. A quanto pare, il Pd resta il partito che non si può cambiare, né in un senso né nell’altro. Una sorta di non-luogo della politica, in cui per affermare un pensiero chiaro si deve uscire e fondare un altro partito.

Questo, temo, sia il problema del Partito democratico oggi. Un problema che il risultato elettorale ha reso non più nascondibile. Qualcuno, come Calenda, pensa che tutto si riduca a una scelta secca fra liberaldemocrazia e socialdemocrazia, o fra riformismo e massimalismo: o venite con noi del Terzo polo, o vi consegnate fra le braccia dei Cinque Stelle. Può darsi che, alla fine, la scelta sia proprio questa e che, anche in Italia, si finisca per assistere all’epilogo francese: scomparsa della sinistra ufficiale, nascita di una forza liberaldemocratica (alla Macron) e di una sinistra populista (alla Mélenchon).

Ma non sarebbe una grande soluzione. La realtà è che la globalizzazione prima, la deglobalizzazione poi, hanno reso obsolete sia le ricette della “terza via” di Giddens e Blair, sia le ricette stataliste e pro-tasse della sinistra radicale. L’incertezza, l’insicurezza, la precarietà diffusa hanno fatto montare, in questi anni, una domanda di protezione che mai, in passato, aveva raggiunto queste dimensioni e questa drammaticità. E che, mai come oggi, tocca non solo la sfera strettamente economica, ma anche quella sociale, dove la richiesta di sicurezza entra in conflitto con gli imperativi dell’accoglienza dei migranti. È anche per questo che, un po’ ovunque, la destra avanza e raccoglie il consenso dei ceti popolari.

A questa sfida le forze politiche di sinistra, nessuna esclusa, non hanno finora saputo opporre soluzioni convincenti. Questo è il problema. E non riguarda solo il Pd.

Luca Ricolfi

Le tre sinistre

23 Settembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi

Le tre sinistre

9 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Nei giorni scorsi, quando sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica, e all’economia pianificata, come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda risponde: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, a sinistra. Il maggiore partito della sinistra, il Partito democratico, tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate”, cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

L’alleanza con +Europa di Emma Bonino, e la contemporanea rottura con Renzi e Calenda, fanno pensare che, per il Pd, l’esito più probabile sia l’accentuazione dei suoi caratteri di partito radicale di massa. Anche perché le altre due caselle – partito socialdemocratico e partito liberaldemocratico – sono già, più o meno confusamente, presidiate da quel che resta dei Cinque Stelle di Conte, e da quel che sarà del Terzo polo di Renzi e Calenda.

Sotto questo profilo, l’appuntamento del 25 settembre potrebbe essere davvero cruciale per il futuro della sinistra. Sarà la prima volta, infatti, in cui toccherà agli elettori – e non alle correnti del Pd – pronunciarsi sulle tre alternative politiche che dividono la sinistra da quando Achille Occhetto decise di archiviare il comunismo: partito radicale di massa, partito socialdemocratico, partito liberaldemocratico?

Al popolo di sinistra l’ardua sentenza.

Luca Ricolf

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