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L’arte della contro-escalation

18 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Si comincia, finalmente, a parlare con qualche serietà di un percorso di raffreddamento delle tensioni fra Russia e Stati Uniti, che possa portare (almeno) a un cessate il fuoco, e possibilmente a passi ulteriori verso accordi di pace.

Sulle ragioni di questo, per ora timidissimo, cambiamento di clima, ci sono solo ipotesi. Le più plausibili mi paiono tre.

La prima è che gli attentati-incidenti-sabotaggi delle ultime settimane, chiunque ne sia l’autore, stiano convincendo un po’ tutti che la situazione può andare fuori controllo, a dispetto delle consultazioni continue (e riservate) fra russi e americani.

La seconda è che Biden si stia rendendo conto che arrivare alle elezioni di midterm con un’opinione pubblica spaventata dal rischio di un conflitto nucleare possa costargli caro.

La terza è che lo spettro di una recessione mondiale, provocata dalle conseguenze commerciali della rottura dell’ordine internazionale, stia inducendo i principali giocatori in campo (Cina e Usa in testa) a correre ai ripari.

Quale che sia l’origine dei nuovi segnali, la domanda è: ci sono possibilità realistiche che, alla fase di escalation finora in corso, succeda una fase di escalation inversa (o contro-escalation, o “de-escalation psicologica”)? Ci sono strumenti con i quali è possibile favorire un’inversione di fase efficace?

Non so che cosa ne pensino i veri esperti, ossia generali, strateghi, politici, studiosi di relazioni internazionali. Ma azzardo l’idea che qualcosa si possa imparare anche dagli esperti di “de-escalation” nel senso psicologico (non militare) dell’espressione, ossia psicologi, operatori sanitari, operatori sociali alle prese con interlocutori aggressivi. Se si passano in rassegna consigli e linee guida per gestire questo tipo di conflitti, si deve constatare che, fin qui, occidentali e russi hanno fatto esattamente quel che le tecniche di contro-escalation raccomandano di non fare: offese, delegittimazione dell’interlocutore, minacce, intimazioni, ingiunzioni, totale rifiuto di mettersi dal punto di vista dell’avversario.

Tutti questi comportamenti sono perfettamente comprensibili alla luce del fatto che la situazione non è simmetrica né oggettivamente (A è stato aggredito da B), né soggettivamente (A pensa di essere nel giusto). Ma occorre riflettere su un punto decisivo: anche nelle situazioni in cui si usano tecniche di contro-escalation la situazione non è mai simmetrica. L’infermiere del pronto soccorso che deve fronteggiare un paziente infuriato che agita un coltello, o l’agente di polizia che deve interagire con un rapinatore che minaccia con la pistola dodici ostaggi, non si trovano certo in una situazione simmetrica. Sanno perfettamente di avere ragione loro, non certo il paziente furioso o il rapinatore armato. Però si comportano come se la situazione fosse simmetrica, ossia come se anche il loro interlocutore fosse dotato di razionalità e di ragioni più o meno valide. Lo scopo della contro-escalation, infatti, non è affermare la propria ragione, ma evitare che il conflitto si trasformi in tragedia, con l’accoltellamento dell’infermiere o l’uccisione degli ostaggi.

Ed ecco il punto. La difficoltà del passaggio da una situazione di escalation a una di contro-escalation sta nel fatto che occorre rovesciare completamente il registro e gli obiettivi della comunicazione. E bisogna farlo in contraddizione con tutto ciò che si è fatto fino a quel momento. Un’operazione che è particolarmente dolorosa per la parte in causa che, obiettivamente, ha più ragione (o meno torto).

Ma perché è così difficile cambiare registro?

La ragione profonda della difficoltà è di tipo logico: la medesima azione cambia di significato (e di razionalità) a seconda che si sia in una fase di escalation o in una di contro-escalation.

Facciamo un esempio. Il recente gesto del ministro degli esteri Lavrov (aprire a colloqui di pace in margine al prossimo G-20) è un segnale di debolezza (Putin ha paura, eccetera) se lo collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di apertura (Putin è disposto a trattare) se lo leggiamo in una fase di contro-escalation. Reciprocamente, la conferma delle esercitazioni nucleari Nato della prossima settimana è un messaggio di forza (mostrare i muscoli) se la collochiamo in una fase di escalation, ma diventa un segnale di chiusura (noi non cambiamo) se la leggiamo in una fase di contro-escalation.

Se vuole entrare in una fase di contro-escalation, la politica deve riuscire a non giudicare i propri atti nel registro della fase precedente. Finché si continuerà a pensare che qualsiasi gesto di apertura equivale a “dare ragione a Putin”, nessun percorso di pace sarà possibile.

Ma perché la politica non riesce a passare dalla fase di escalation a quella di contro-escalation, gove?

Fondamentalmente, perché è scomparsa la realpolitik o, se preferite, si è persa la fondamentale lezione dei classici: la distinzione fra razionalità rispetto al valore e rispetto allo scopo (Max Weber), la separazione fra morale e politica (Machiavelli). La crisi ucraina è stata affrontata, finora, esclusivamente nel registro morale, con scarsissima attenzione alle cause della guerra e alle conseguenze delle azioni che si stavano e si stanno intraprendendo. E’ venuto il tempo, se vogliamo provare a entrare in una fase di raffreddamento, o contro-escalation, di rovesciare il registro, e tornare alla politica.

Luca Ricolfi

La (prevedibile) Caporetto di Putin e quella (inquietante) degli esperti

26 Settembre 2022 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

Con questo articolo vorrei provare a rispondere a due importanti questioni sollevate tempo fa da Luca Ricolfi sulla guerra in Ucraina (https://www.fondazionehume.it/politica/punire-o-fermare-putin/), che oggi sono, se possibile, ancor più attuali ed urgenti, visto ciò che sta succedendo sul campo e fuori.

Le domande poste da Ricolfi erano le seguenti:

1) se anche a questo proposito, come già era accaduto con il Covid, si sta verificando un fenomeno di intolleranza verso chi esprime posizioni non allineate con quelle del governo;

2) se bisogna «punire o fermare Putin».

Anticipo subito che la mia risposta alla prima domanda è “nì”, mentre la risposta alla seconda è “sì”, nel senso che Putin va punito, cioè sconfitto e non solo fermato. Per rispondere correttamente, però, bisogna prima porsi altre tre domande preliminari, che sono le seguenti:

1a) rispetto al primo problema, bisogna chiedersi se le due situazioni (virus e guerra) possono essere considerate equivalenti;

2a) rispetto al secondo problema, bisogna anzitutto chiedersi se l’Ucraina può conseguire una vittoria sulla Russia, altrimenti è chiaro che il problema non si pone;

2b) in secondo luogo, bisogna chiedersi se Putin può essere “solo fermato”, altrimenti, di nuovo, il problema non si pone.

Cominciamo dalla prima questione. E qui bisogna dire innanzitutto che le stesse ragioni per cui ho ripetutamente biasimato con parole durissime l’uso improprio di un “linguaggio di guerra” nella lotta al Covid impongono di riconoscere che le due situazioni non sono affatto equivalenti.

Infatti, debellare un virus è un problema scientifico, dove l’unità di intenti non serve a niente, se è fatta intorno a una strategia sbagliata. Di conseguenza, zittire chi dissente è non solo eticamente sbagliato, ma anche controproducente. In una guerra vera, invece (e noi siamo in guerra con la Russia, anche se “per procura”), la compattezza e la determinazione contano moltissimo.

Inoltre, con il Covid sono stati sicuramente commessi errori molto gravi e a volte imperdonabili (sia da parte del governo che di chi dissentiva), che hanno causato molte morti che si potevano e si dovevano evitare. Però questo non è mai stato intenzionale: nessuno voleva che gli italiani morissero di Covid, mentre Putin vuole che gli ucraini muoiano, se non si sottomettono (e forse anche se lo fanno).

Per questi motivi, diversamente dal caso del Covid, non trovo scandaloso che ci sia un limite alle opinioni a cui è giusto dare spazio a livello di dibattito pubblico. Dopotutto, l’apologia del fascismo in Italia è proibita, per cui non capisco perché non dovrebbe essere proibita anche l’apologia del putinismo. Certo, questa materia è estremamente delicata e per un paese democratico è sempre meglio rischiare di sbagliare per eccesso che per difetto di liberalità.

Ricordiamoci però che la libertà di parola garantita dalla Costituzione implica solo che chiunque possa esprimere le proprie opinioni senza essere perseguito per esse, ma non che uno abbia anche il diritto di esprimerle in televisione. Quindi, mentre devono senz’altro avere spazio nel dibattito pubblico quelle critiche all’azione del governo che riguardano l’efficacia delle sue azioni, non trovo scandaloso che ne vengano invece escluse quelle che si traducono di fatto in una quantomeno parziale giustificazione delle azioni criminali di Putin.

Giusto per fare un esempio, sarebbe sbagliato che il professor Alessandro Orsini venisse licenziato dalla sua Università per le sue folli teorie anti-occidentali, ma non trovo scandaloso che il suo Osservatorio Internazionale sia stato chiuso, così come non troverei scandaloso che non venisse più invitato ai dibattiti televisivi e trovo assolutamente corretto che, se invitato, almeno non venga più pagato dalla televisione pubblica, cioè da tutti noi.

Inoltre, non mi sembra che sulla guerra ci sia lo stesso clima che c’era sul Covid: a nessuno è stato richiesto di esibire un Green Pass di fedeltà euroatlantica per poter lavorare o circolare; nessuno è stato pestato dalla polizia per aver manifestato contro la guerra; nessuno è stato pubblicamente insultato dal Presidente della Repubblica per aver esercitato il suo diritto costituzionale di dissentire; i social media non hanno messo in atto le stesse pericolosissime strategie di censura della fake news o presunte tali; e, in generale, l’argomento non è motivo di liti violente tra le persone comuni nella vita quotidiana.

Né col Covid sarebbe stato possibile (anzi, non sarebbe stato neppure concepibile) un caso come quello di Marc Innaro, che, soprattutto all’inizio del conflitto (ora sembra essersi un po’ calmato), invitava sempre a «considerare anche le ragioni della Russia», perfino quando erano palesemente balle cosmiche. E ciò non in qualità di opinionista in un talk show, ma mentre svolgeva il suo lavoro di cronista della RAI, cioè della televisione di uno Stato che (repetita juvant) con la Russia è di fatto in guerra ed è da essa considerato, non solo di fatto, ma anche ufficialmente, «paese ostile».

Addirittura, Innaro era arrivato al punto di mostrare le cartine con l’allargamento della NATO verso Est sostenendo che queste venivano nascoste dalla RAI, mentre era lui che teneva accuratamente nascosto il fatto che tale allargamento si è verificato tra il 1999 (quando Putin non era nemmeno Presidente) e il 2004, cioè 18 anni fa, a seguito di un preciso trattato (tuttora in vigore) tra la NATO stessa e la Russia, il che significa che il suddetto allargamento non ha nulla a che vedere con ciò che sta accadendo oggi.

Ora, se un cronista di un telegiornale della RAI si fosse azzardato, anche solo qualche mese fa, a dire che le strategie anti-Covid del governo hanno contribuito a causare la pandemia sarebbe stato immediatamente rimosso e forse anche denunciato, nonostante che ciò fosse la pura verità. Innaro invece, pur avendo detto (ripetutamente) che la politica della NATO (e quindi anche del nostro governo) ha contribuito a causare la guerra, è ancora al suo posto nonostante che ciò sia completamente falso. E quando per questo è stato (giustamente) criticato, diversi intellettuali lo hanno difeso gridando addirittura alla censura.

Infine, mentre sul Covid l’opposizione era quasi tutta di destra, sulla guerra c’è anche a sinistra, anche se non all’interno dell’establishment del suo principale partito di riferimento, il PD. È però molto significativo che il PD stesso giustifichi la sua ostilità a Putin definendolo “fascista”, affermazione semplicemente grottesca che ricorda i mitici servizi del TG3 che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» (su questo punto, però, andrebbe fatto un discorso più ampio, che mi riservo per un prossimo articolo).

È vero che questa maggiore dialettica dipende, paradossalmente, più da ragioni ideologiche che da una ritrovata apertura mentale (sul Covid la base della sinistra era più compatta perché è tendenzialmente scientista, mentre sulla guerra lo è meno perché il pacifismo è ancora molto forte), però c’è.

Non per nulla, da quando ha rotto col PD Conte ha cominciato un po’ alla volta a correggere il tiro, prima cautamente, poi in modo sempre più deciso (sì all’invio delle armi, no all’aumento delle spese militari; le sanzioni alla Russia restano, ma non devono comportare sacrifici per gli italiani; l’appoggio all’Ucraina non si discute, ma il governo deve impegnarsi per favorire un negoziato con la Russia; Putin è ingiustificabile, ma la colpa è anche di Zelensky…), cercando, a quanto pare con discreto successo, di rubargli questa parte di elettorato.

Dove invece c’è davvero un clima di forte intolleranza è sulla grande stampa, su cui si leggono spesso e volentieri attacchi violenti e sguaiati contro chi esprime posizioni critiche, che viene automaticamente bollato come filo-Putin anche se si limita ad esprimere dubbi sull’efficacia della linea scelta dal nostro governo e, in particolare, delle sanzioni. Peraltro, bisogna riconoscere che pure la stampa di opposizione quanto a faziosità non scherza e se si nota meno è solo perché è largamente minoritaria. In altre parole, si sta qui ripetendo lo stesso schema del Covid, con la “maggioranza Ursula” contro i “populisti” o, se si preferisce, le “persone civili” contro gli “impresentabili”.

Quindi, come avevo anticipato, la mia risposta alla prima questione sollevata da Ricolfi è “nì”, nel senso che vedo sicuramente un eccesso di intolleranza verso gli avversari abbastanza preoccupante (da entrambe le parti, anche se certamente assai di più da quella che difende l’establishment), ma non vedo invece, come sul Covid, un muro compatto di “pensiero unico” che non lascia nessuno spazio a chi la pensa diversamente.

In compenso, quello che non è cambiato per nulla rispetto al Covid è il comportamento degli esperti, non solo quelli presunti, ma anche quelli veri, che ancora una volta sembrano gravemente disconnessi dalla realtà. E ciò è tanto più preoccupante se si considera che si tratta di persone completamente diverse, che però si sono comportate più o meno allo stesso modo: sbagliando quasi tutte le previsioni e, quel che è più grave, senza mai riconoscere i propri errori.

A questa autentica ed estremamente preoccupante “Caporetto degli esperti”, che si verifica ormai regolarmente in relazione a pressoché qualsiasi problema, mi riprometto di dedicare una riflessione a parte appena possibile, anche perché ci sono già molti segni che sull’ecologia rischia di andare ancor peggio, con conseguenze ancor più gravi. Ora, però, concentriamoci sulla seconda domanda preliminare che ho posto: l’Ucraina può sconfiggere la Russia?

La mia risposta è: assolutamente sì (a patto, ovviamente, che l’Occidente continui ad aiutarla). E, se mi è permessa l’immodestia, pur senza essere un esperto di cose militari questo l’avevo già scritto in un mio articolo (https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/) apparso su questo sito il 15 marzo, cioè appena tre settimane dopo l’inizio della guerra, quando tutti (ma proprio tutti), pur sorpresi dalla “inattesa” (in realtà prevedibilissima) resistenza ucraina, discutevano solo su quanto ciò avrebbe ritardato la “inevitabile” vittoria russa.

Nell’articolo in questione, invece, io sostenevo che con la creazione di una no fly zone, come richiesto da Zelensky, l’Ucraina avrebbe potuto vincere e avevo anche spiegato per filo e per segno il perché. E i fatti mi stanno dando ragione, anche se alla fine la no fly zone, non è stata istituita formalmente, ma è stata ugualmente creata di fatto.

Come avevo scritto, infatti, «la no fly zone potrebbe essere istituita senza bisogno di entrare fisicamente in Ucraina, giacché la NATO ha la capacità tecnologica di abbattere gli aerei russi con missili a guida elettronica posizionati all’esterno del territorio ucraino (nella seconda guerra contro Saddam i bombardamenti preliminari sono stati effettuati in gran parte con missili di questo tipo, lanciati da navi posizionate a centinaia di chilometri di distanza, e, a dispetto delle facili ironie sui missili “intelligenti”, hanno quasi sempre fatto centro)».

L’unica differenza rispetto allo scenario che avevo delineato è che anziché lanciare noi questo tipo di missili li abbiamo passati agli ucraini perché lo facessero loro. E l’unico motivo per cui avevo suggerito di prendere in seria considerazione di farlo noi era che in quel momento sembrava difficile riuscire a recapitare in tempo questo tipo di armi. Ma per fortuna gli ucraini sono riusciti a resistere fino al loro arrivo e ciò ha rovesciato le sorti della guerra.

La questione, infatti, è estremamente semplice: le guerre moderne si vincono con la tecnologia, mentre la Russia è rimasta ancora agli anni Settanta, sia per la qualità degli armamenti che per la dottrina militare, che è tuttora basata sulla forza del numero (soprattutto dei carri armati) e sull’attacco in massa. E ciò non per caso, ma perché la Russia non è guidata da un “fascista”, come sostengono ipocritamente gli ex comunisti (neanche tanto ex) di casa nostra per giustificare il loro voltafaccia nei confronti del loro alleato storico (e intanto, già che ci sono, dare una bottarella ai loro avversari politici), ma da un ex ufficiale del KGB, che si è formato (cioè ha subito il lavaggio del cervello: perché questo è ciò che succedeva) negli anni Settanta ed è rimasto mentalmente “bloccato” in quegli schemi di comportamento.

Ora, l’attacco in massa è efficace a parità di mezzi. Ma se l’altra parte ha mezzi tecnologicamente superiori, capaci di colpire a grande distanza con estrema precisione, le enormi masse di uomini, di mezzi e, soprattutto, di depositi per i rifornimenti si trasformano di colpo in enormi bersagli, facilissimi da colpire. E questo è esattamente ciò che è successo da quando agli ucraini sono arrivati i micidiali missili americani Himars, più o meno all’inizio di luglio.

In quel momento la Russia ha perso la guerra. Eppure, nessuno è sembrato accorgersene. E, a quanto pare, quasi nessuno continua ad accorgersene neanche adesso. Infatti, in questi mesi i vari esperti hanno continuato a esprimere dubbi o addirittura a ironizzare sul contrattacco annunciato da Zelensky, che sembrava non partire mai, senza rendersi conto che gli ucraini stavano semplicemente facendo all’esercito russo quello che gli americani avevano fatto all’esercito di Saddam Hussein (che tra l’altro utilizzava armamenti sovietici, molto simili a quelli usati dai russi in Ucraina): hanno distrutto sistematicamente per settimane la logistica russa alle spalle delle loro linee con attacchi missilistici ad alta precisione fino a quando le truppe al fronte sono rimaste senza viveri e senza munizioni; e quando ciò è accaduto sono avanzate rapidamente, senza neanche bisogno di combattere, semplicemente perché il nemico non era più in grado di farlo.

Il crollo improvviso e rapidissimo del fronte russo dopo una fase di apparente stallo di quasi due mesi, che tanto ha sorpreso i nostri esperti nonostante fosse un film già visto e rivisto (le due Guerre del Golfo e l’intervento in Serbia), non è quindi per nulla affatto sorprendente, ma è semplicemente la logica conseguenza delle strategie di guerra scelte dalle due parti. Eppure, tutti hanno continuato a discettare come se niente fosse, avanzando le ipotesi più fantasiose sul perché e il percome i russi siano scappati da un giorno all’altro, senza combattere e abbandonando perfino le armi. Forse i nostri esperti militari hanno bisogno che qualcuno gli spieghi che senza munizioni le armi non servono a molto…

Eppure, non era tanto difficile capirlo, tanto più che tutto era stato spiegato per filo e per segno già il 18 luglio da Yulia Latynina in un articolo di un’intera pagina pubblicato su La Stampa, in cui tra l’altro aveva scritto esplicitamente che «l’esercito ucraino non avanzerà prima di aver distrutto tutti i magazzini». Addirittura, non era difficile neppure stimare quando sarebbe successo. Dopo aver letto l’articolo e facendo un calcolo a spanne sul ritmo a cui procedeva la distruzione della logistica russa, basandomi semplicemente sulle notizie dei telegiornali, ne avevo dedotto che l’attacco di terra ucraino sarebbe partito entro settembre e in poche settimane avrebbe ricacciato i russi da tutti i territori occupati dall’inizio della guerra. Sul primo punto ci ho azzeccato in pieno, sul secondo vedremo, ma, almeno per ora, mi sembra che le cose vadano in quella direzione.

Una volta di più, come già ho fatto ripetutamente con il Covid, vorrei sottolineare che non mi sto attribuendo per questo particolari meriti o una particolare intelligenza, perché si tratta di stime davvero molto facili, che chiunque abbia un minimo di capacità di ragionamento e una appena decente cultura generale dovrebbe essere in grado di fare. La vera questione, perciò, non è come è possibile che ci sia riuscito io, bensì come è possibile che non ci siano riusciti gli esperti. Ed è una questione così seria che, come ho già detto, ci tornerò in un articolo a parte.

Qui, invece, vorrei notare come la valutazione errata di questo punto fondamentale se ne porti dietro a cascata molti altri, il più importante dei quali è la valutazione dell’operato di Zelensky, che troppi ancora accusano, più o meno esplicitamente, di essere almeno in parte corresponsabile di ciò che sta accadendo per via della sua determinazione a cercare una vittoria ritenuta (erroneamente) impossibile.

Anche su questo sito Cofrancesco sostiene da tempo che quando opporre resistenza comporta devastazioni troppo gravi è meglio non farlo, accettando temporaneamente l’occupazione nemica e confidando che, come tutte le cose umane, prima o poi avrà termine. E di per sé è un ragionamento sensato, tanto che questa scelta è stata fatta diverse volte nella storia: per restare ai paesi dell’area sovietica, non solo dalla Cecoslovacchia di fronte all’invasione sovietica, come da lui ricordato, ma anche dalla Polonia di fronte al golpe di Jaruzelsky. Tuttavia, qui la situazione è ben diversa, giacché a rischiare la distruzione totale non è l’Ucraina, bensì l’esercito russo.

Inoltre, non va mai dimenticato che la decisione su come reagire a un’aggressione spetta solo e soltanto all’aggredito. Consigliare agli ucraini di non combattere è lecito, se si è convinti che sia la cosa migliore per loro (un po’ meno se lo si fa perché convinti che sia la cosa migliore per noi…). Pretendere che lo facciano e biasimarli se, come è accaduto, decidono diversamente, scegliendo di resistere anche a costo di morire, sarebbe invece inaccettabile.

Ancor più sbagliata è l’idea per cui sarebbe Zelensky a imporre una linea estremista al suo popolo, che ultimamente nasce dal pregiudizio, di derivazione marxista, per cui sono sempre sono le élites a volere le guerre e non i popoli (quanto profondamente il marxismo abbia influenzato il pensiero occidentale, compreso quello degli anticomunisti dichiarati, è un altro tema a cui prima o poi dedicherò un articolo a sé). È vero invece esattamente il contrario: è il popolo che ha scelto di combattere, come ci hanno dimostrato i molti ucraini che vivevano al sicuro in Italia, spesso con tutta la famiglia, eppure hanno scelto di tornare in patria a combattere, pur non essendo obbligati a farlo e non essendo certo stati plagiati dalla propaganda del governo, dato che qui avevano modo di ascoltare tutte le campane.

Così stando le cose, Zelensky non avrebbe comunque potuto scegliere di arrendersi, neanche se fosse stato convinto che era la cosa giusta, perché se l’avesse fatto sarebbe stato immediatamente destituito e allora sì che molto probabilmente sarebbe arrivato al suo posto qualche estremista. Perciò dovremmo essergli grati per avere invece scelto (giustamente e coraggiosamente) di restare a guidare la lotta contro l’invasore, come il popolo che aveva giurato di servire gli chiedeva, e per averlo fatto non solo con grande abilità, ma anche con grande equilibrio (a meno che non si consideri sintomo di estremismo il semplice fatto di voler vincere la guerra, come pensa per esempio Giuseppe Conte).

E così siamo finalmente arrivati alla seconda questione sollevata da Ricolfi: posto che, come spero di aver dimostrato (e come comunque i fatti si stanno incaricando di dimostrare molto meglio di me), la vittoria dell’Ucraina è possibile, essa è anche auspicabile oppure i costi e i rischi che comporta rendono preferibile fermarsi a un certo punto, almeno per noi europei?

Ricolfi propende chiaramente per la seconda risposta, ma ciò, come lui stesso dice, dipende in gran parte dal fatto che è convinto che la guerra rischia di durare per anni, con conseguenze economiche pesantissime per l’Europa. A me invece questo è sempre sembrato altamente improbabile e più ancora adesso, visto come si stanno mettendo le cose sul campo.

Inoltre, se i russi verranno cacciati rapidamente dai territori occupati, anche l’altro aspetto che preoccupa Ricolfi, cioè il rischio di un incidente nucleare, è destinato a scomparire, perché le centrali non si troveranno più in zona di guerra. Senza contare, poi, che in realtà nessun incidente nucleare potrebbe avere conseguenze fuori dall’Ucraina, così come non ne ha avute la fantomatica nube radioattiva di Cernobyl, checché ne dicano gli antinuclearisti militanti, che sono i primi colpevoli della nostra disastrosa dipendenza dal gas russo (ma anche su questo dovrò tornare in un articolo a parte, perché il nucleare, sia militare che civile, è uno degli argomenti su cui la disconnessione tra ragione e realtà è massima).

Certo, andare a riprendersi anche la Crimea, come Zelensky ha detto chiaramente di voler fare («Tutto questo è cominciato in Crimea e finirà in Crimea»), potrebbe essere una faccenda più seria. Ma forse anche no. Forse è arrivato il momento di prendere atto che Zelensky non è affatto un demagogo che fa proclami campati in aria e che tutte (ma proprio tutte) le cose che ha detto finora erano una fedele descrizione della realtà e tutte (ma proprio tutte) le previsioni che ha fatto finora si sono realizzate (certo, anche perché ben supportato dall’intelligence americana). Ciò non significa, ovviamente, che sia infallibile, però bisognerebbe almeno cominciare a considerare seriamente l’eventualità che se dice che riprendersi la Crimea è possibile, forse è possibile davvero.

In ogni caso, la valutazione sul da farsi dipende in modo cruciale dalla terza e ultima questione preliminare che ho posto, ovvero: Putin può essere “solo” fermato?

La mia riposta è no. Come ho già detto nel mio precedente articolo, mi sembra abbastanza evidente che Putin è pazzo, se non del tutto, almeno all’87% o giù di lì. Ma anche chi non condivida questo giudizio ha comunque l’onere di spiegare perché ci si dovrebbe fidare di uno che in tutta la sua vita non ha mai accettato di fare compromessi con nessuno e le poche volte che ha stretto qualche accordo l’ha fatto solo per prendere tempo e l’ha violato non appena ha potuto.

Anche nell’improbabile eventualità che Putin accettasse di negoziare, quindi, non si avrebbe una vera pace, ma solo una tregua, che sarebbe ancor più pericolosa della guerra, perché gli darebbe modo di riorganizzarsi per poi ricominciare tutto come prima, anzi, peggio di prima. E che questa non sia solo una mia opinione lo dimostra il fatto che Putin ha già annunziato un enorme aumento delle spese militari, fino al 40% del bilancio dello Stato russo.

Che poi questo sarà quasi certamente impraticabile, perché devasterebbe il paese e non basterebbe in ogni caso a ricuperare il ritardo tecnologico rispetto all’Occidente, che non è solo una questione di soldi, è vero, ma è un altro discorso. Per quanto irragionevole e velleitaria, la direzione di marcia scelta dal leader russo (o neo-sovietico, come sarebbe più esatto dire) è chiarissima e dimostra una volta di più la psicopatologia paranoide di cui è vittima.

La verità è che questa guerra si può concludere in un solo modo: con la caduta di Putin, che di fatto vuol dire con la sua morte, perché lui non accetterà mai di lasciare il potere spontaneamente, né i suoi, una volta deciso di sbarazzarsene, glielo chiederebbero con le buone.

Naturalmente può darsi che ciò si riveli impossibile (anche se, come spiegherò fra poco, vi sono diverse buone ragioni per crederci) e che alla fine ci vediamo costretti ad accettare una soluzione meno soddisfacente. Ma sarebbe, appunto, una soluzione meno soddisfacente.

Quindi, se la domanda è, per usare le parole di Ricolfi nell’articolo citato, «che cosa significhi vincere», cioè qual è la soluzione più soddisfacente, la caduta di Putin mi sembra l’unica risposta possibile, sia per noi che per gli Stati Uniti (e, ovviamene, l’Ucraina). Anzi, per noi ancor più che per gli Stati Uniti: perché se è vero che l’Europa subisce più degli USA le conseguenze negative della guerra, è altrettanto vero che subirebbe ancor di più le conseguenze negative della “falsa pace” con una Russia ancora putiniana, che costituirebbe un fattore di instabilità permanente a tutti i livelli a poche centinaia di chilometri dai nostri confini.

E quindi sì: Putin deve essere “punito” e non “solo fermato”, cioè deve essere militarmente umiliato e non “semplicemente” sconfitto, anzitutto perché, come ho appena cercato di spiegare, la seconda opzione non è realistica e poi perché solo così si può sperare di provocarne la caduta.

Su questo punto, però, grava un ultimo equivoco, che va dissipato. Quando si fa questo genere di discorsi, infatti, salta regolarmente fuori lo spettro della Repubblica di Weimar, che favorì l’ascesa al potere di Hitler, per cui si conclude che non bisogna mai umiliare il nemico sconfitto, ma bisogna sempre lasciargli una via di uscita onorevole. Ma, a parte il fatto che ciò funziona solo con chi è disposto ad approfittare di tale via di uscita (e Putin non lo è), in tal modo si confondono due questioni profondamente diverse fra loro.

Una cosa, infatti, è dire che non si deve umiliare un popolo sconfitto: questo è senz’altro giusto e, se e quando la Russia sarà stata sconfitta e “deputinizzata”, bisognerà stare attenti a tenderle subito la mano per riportarla nell’orbita europea, a cui naturalmente appartiene, sia per cultura che per geografia (perché, anche se la maggior parte del territorio russo si trova in Asia, le città in cui vive la sua classe dirigente sono tutte in Europa e all’Europa, e non all’Asia, hanno sempre guardato).

Altra cosa, completamente diversa (e completamente sbagliata), è invece dire che non si deve umiliare un regime. La storia dimostra infatti che le sconfitte militari, specie se umilianti, sono quasi sempre fatali alle dittature: è stato così nella Seconda Guerra Mondiale, con il nazismo in Germania, il fascismo in Italia e la casta teocratico-militarista che governava il Giappone in nome dell’Imperatore-Dio; è stato così con il regime dei colonnelli in Grecia, caduto dopo l’invasione di Cipro da parte della Turchia; è stato così con la dittatura di Videla in Argentina, crollata dopo la disfatta nella guerra con l’Inghilterra per le Malvinas; e la disastrosa quanto inattesa sconfitta in Afghanistan ha certamente favorito la caduta del regime comunista sovietico. Oltre a questi esempi, va poi menzionata l’umiliante disfatta subita nella Guerra dei Sei giorni contro Israele, che non fece cadere i regimi di Egitto e Giordania, ma ne favorì la trasformazione in senso più moderato.

Anche l’altra tesi, molto popolare e strettamente collegata alla precedente, secondo cui così si finirebbe per spingere la Russia tra le braccia della Cina, se analizzata attentamente non sta in piedi.

Anzitutto, una tale alleanza ha dei limiti precisi e invalicabili, stabiliti dagli interessi economici e geopolitici cinesi, per cui non potrà mai andare oltre un certo punto, che verosimilmente è già stato raggiunto da tempo.

Come avevo scritto nel mio articolo precedente, infatti, la Cina, più che a sostenere la Russia, «semmai avrebbe interesse a lasciarci scannare tra di noi (ma neanche tanto, altrimenti poi a chi venderebbe le sue merci?)». E questo è esattamente ciò che è accaduto: la Cina ha dato a Putin un sostegno moderato (più a parole che a fatti, per la verità) finché c’è stata una ragionevole probabilità che potesse vincere in tempi brevi, perché ciò avrebbe indebolito l’Occidente senza compromettere troppo gli assetti globali. Non appena, però, è diventato evidente che ciò non era più possibile, Xi l’ha scaricato e ha cominciato a premere per l’immediata cessazione delle ostilità, così come l’India, che ragiona più o meno allo stesso modo perché ha più o meno gli stessi interessi.

Ma la Cina ha pure un altro problema, perché da tempo ha basato la sua politica estera sulla crescita del suo “soft power” nei paesi del Terzo Mondo, che la guerra, bloccando le esportazioni di grano dall’Ucraina, sta mettendo seriamente in crisi. Questo poteva essere ritenuto un prezzo accettabile da pagare per un breve periodo in cambio di un significativo indebolimento dell’Occidente, ma ciò che la Cina non può invece assolutamente permettersi è di apparire corresponsabile di un prolungamento della guerra a tempo indeterminato, che ridurrebbe alla fame molti paesi poveri che ha attirato o sta cercando di attirare nella sua orbita.

Inoltre, per poter aumentare gli scambi commerciali con chicchessia c’è un’indispensabile condizione preliminare – cioè produrre qualcosa di vendibile – che la Russia (materie prime a parte) da molto tempo non è in grado di soddisfare. E meno ancora dopo le sanzioni, che faranno male anche a noi (anche se il vero problema, quello del gas, ha ben poco a che fare con esse), ma alla Russia di più: infatti, hanno già causato una caduta del suo PIL superiore al 12% (giacché al -6% rilevato va sommato il mancato aumento di oltre il 6% atteso come “effetto rimbalzo” post-Covid).

Anche le esportazioni dalla Russia verso la Cina, ben lungi dall’aumentare, sono invece scese più o meno della stessa quantità. E teniamo presente che le entrate russe in questo periodo sono gonfiate artificialmente dall’assurda crescita del prezzo di gas e petrolio, che però è un fenomeno essenzialmente speculativo e quindi destinato prima o poi a finire, per cui in prospettiva il vero “rosso” del bilancio russo è ancor più grave, anche nei confronti della Cina.

D’altra parte, nei limiti appena descritti, entro i quali soltanto tale alleanza è possibile e oltre i quali non potrà in ogni caso andare, essa si è già verificata da tempo, addirittura prima dell’invasione dell’Ucraina, perché Putin sapeva perfettamente che ciò avrebbe segnato una rottura insanabile con l’Occidente. E non solo lo sapeva, ma lo voleva, giacché l’Occidente è sempre stato il suo primo e vero bersaglio, come si evince chiaramente dai suoi discorsi, in cui ha sempre messo al primo posto come motivazione dell’attacco che la Russia era stufa di essere considerata una potenza di serie B.

Di conseguenza, quello di cui dovremmo realmente preoccuparci non è come evitare che si crei un’alleanza tra Russia e Cina, ma piuttosto come spezzare quella, pur limitata, che già esiste: e l’unico modo è togliere di mezzo Putin, perché fino a quando ci sarà lui al potere, comunque vadano le cose, un riavvicinamento all’Occidente è impensabile.

Ora, se tutto quel che abbiamo detto fin qui è giusto, ne segue che la vera domanda non è tanto fino a dove deve arrivare la controffensiva ucraina, ma fino a quando. E la risposta non può essere che una: fino a quando Putin verrà abbattuto.

E questo momento potrebbe essere più vicino di quel che si crede. Negli ultimi giorni, infatti, Putin si è molto indebolito: ci sono chiari segni di disgregazione nell’esercito, composto in maggioranza da soldati di leva poco preparati e ancor meno motivati; la parola proibita “guerra” è stata pronunciata alla televisione, che pure è sotto il ferreo controllo del regime; diversi personaggi hanno richiesto pubblicamente le dimissioni di Putin; la “mobilitazione parziale” sta provocando rivolte e fughe di massa; il leader ceceno Kadyrov (praticamente una sua marionetta) ha criticato pubblicamente il modo in cui sono state gestite le operazioni militari e la mobilitazione; lo scellerato Patriarca Kirill ha pubblicamente pregato perché l’esercito russo non commetta più errori; e, soprattutto, il regime non riesce più a nascondere la verità alla popolazione.

Tutte queste cose erano inimmaginabili solo due settimane fa e l’esperienza insegna che in genere quando questi processi cominciano diventano rapidamente inarrestabili e finiscono con la caduta del regime. Ovviamente non possiamo averne la certezza, perché la storia non è un teorema di matematica, ma ci sono almeno ragionevoli speranze che lo stesso stia per accadere in Russia.

Anche la “mobilitazione parziale” proclamata da Putin non è una mossa strategica, ma solo il frutto dall’ostinazione di un uomo ormai completamente disconnesso dalla realtà. Non sono infatti i soldati che mancano al suo esercito, bensì i mezzi, che erano obsoleti già in partenza (anche se i nostri esperti militari per almeno due mesi sembravano non esserne consapevoli) e sono destinati a diventarlo sempre più, man mano che gli ucraini continueranno a ricevere armi tecnologicamente all’avanguardia e i russi a perdere le poche di cui disponevano. Richiamare i riservisti non cambierà quindi di una virgola i rapporti di forze al fronte, mentre rischia di cambiarli parecchio a Mosca.

E in fondo anche Putin lo sa. I grotteschi “referendum” per l’annessione delle pseudo-repubbliche del Donbass hanno infatti un’unica funzione, peraltro esplicitamente dichiarata: quella di rendere credibile la minaccia di usare le armi nucleari, che cominciava ad essere un po’ usurata dopo tanti proclami al vento, dichiarando le località che ancora restano in mano alla Russia parte integrante del suo territorio. E ciò significa che Putin è consapevole (anche se non lo ammetterà mai, nemmeno con sé stesso) che ormai non è più in grado di difenderle con le armi convenzionali.

Questo spiega anche perché non abbia neppure tentato di simulare una consultazione regolare, come anche le più sgangherate dittature del Terzo Mondo hanno sempre fatto, mostrando anzi sfacciatamente la gente che votava di fronte alle telecamere della televisione russa anziché in cabina elettorale, con i funzionari russi che indicavano dove mettere la croce sulla scheda. È come se Putin ci stesse dicendo: «Vedete? Io faccio quello che voglio. Posso tranquillamente sbattervi in faccia che i referendum nel Donbass sono una farsa e ciononostante annettermelo lo stesso. Quindi prendetemi sul serio anche quando dico che sono pronto a usare l’atomica».

E questo ci porta all’ultima questione, la più grave di tutte: fino a che punto dobbiamo prenderlo sul serio e, di conseguenza, fino a che punto possiamo sfidarlo?

Certo, il rischio esiste e non va sottovalutato. Ma neanche sopravvalutato. Perché non è che Putin giri con i missili nucleari infilati nel taschino della giacca. Quella del “bottone dell’apocalisse” è solo una metafora, che confonde le idee anziché chiarirle. Nessuno, neanche Putin, ha il potere di scatenare da solo una guerra nucleare. Perché ciò accada è necessaria l’attivazione di una complessa catena di comando che richiede la collaborazione di diverse persone all’interno del governo e dell’esercito.

Ora, Putin è probabilmente abbastanza pazzo per farlo davvero, ma è difficile credere che lo siano anche tutti quelli che dovrebbero collaborare con lui, pur sapendo che ciò comporterebbe l’annientamento totale del loro paese, compresi loro stessi e le loro famiglie. E ciò vale a maggior ragione dopo aver visto con i loro occhi dove Putin li ha portati con la sua ottusa ostinazione e la sua totale inettitudine: forse qualcuno potrebbe essere disposto a sacrificare tutto per un capo che ammira, ma chi lo farebbe per uno che disprezza?

Più realistica è invece la possibilità di un uso limitato di armi nucleari tattiche, di minor potenza e gittata, destinate al solo campo di battaglia, tanto più che la dottrina militare sovietica, che fin qui Putin ha seguito pedissequamente in ogni dettaglio, l’ha sempre contemplata, e non solo in funzione difensiva, ma anche offensiva (benché, ancora una volta, molti esperti militari nostrani sembrino ignorarlo). Tuttavia, anche questa opzione, esaminata attentamente, appare difficilmente praticabile.

Anzitutto, infatti, la linea del fronte è ormai così vicina al confine che solo ordigni di potenza molto limitata (e quindi anche di limitata efficacia) potrebbero essere usati senza rischiare di causare un fall-out radioattivo sulle zone contese del Donbass o addirittura sullo stesso territorio russo. Se poi gli ucraini dovessero entrare in questi territori, le armi nucleari dovrebbero essere usate addirittura al loro interno, sterminando quelle stesse popolazioni russofone che si vorrebbero proteggere.

Inoltre, intorno alle armi nucleari c’è un tale clima di terrore, in parte giustificato e in parte irrazionale (ma mai come in questo caso sia benvenuta l’irrazionalità), che contro il loro uso si è creato un “tabù” quasi sacrale. Se la Russia dovesse infrangerlo, susciterebbe un tale orrore in tutto il mondo che praticamente nessun paese (tranne, forse, la Corea del Nord e la Siria) sarebbe più disposto ad averci a che fare. Putin pagherebbe quindi un prezzo altissimo in cambio di un vantaggio militare molto limitato e ciò rende anche questa opzione piuttosto improbabile.

Certo, avendo a che fare con uno psicopatico un minimo di rischio inevitabilmente rimane, ma ci sono due considerazioni finali che, come suol dirsi, tagliano la testa al toro.

In primo luogo, per quanto pericoloso possa essere tentare di abbattere Putin, lasciarlo al potere in questa situazione lo sarebbe ancor di più perché, come ho già detto prima, si tratterebbe solo di una tregua, che lui sfrutterebbe per riorganizzarsi e preparare un’altra guerra ancor peggiore. Qualsiasi altra opzione, infatti, equivarrebbe ad ammettere la sconfitta, cosa che Putin non può fare, anzitutto perché la cosa è per lui semplicemente inconcepibile e poi perché non gli verrebbe mai perdonata e porterebbe ben presto alla sua fine.

In secondo luogo, se l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin si dovesse concludere con la sua caduta, ciò rappresenterebbe un potente deterrente anche per le mire cinesi su Taiwan. Ma se invece riuscisse a ricavarne un qualsiasi vantaggio, anche minore di quello sperato, questo per la Cina si tradurrebbe in un incoraggiamento a seguire la sua stessa strada, con conseguenze che sarebbero ben più gravi per il mondo intero.

Non è certo un caso, del resto, che l’Operazione Speciale di Putin sia scattata appena sei mesi dopo la vergognosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan. Sia la storia dell’umanità che quella personale di ciascuno di noi insegnano infatti univocamente che dimostrare di aver paura dei prepotenti ha sempre e soltanto un unico effetto: quello di farli diventare ancor più prepotenti.

P.S. Da ultimo, mi si consenta una parola sulla morte di Darya Dugina, che in tanti hanno condannato, compreso il Papa e, su questo sito, Cofrancesco, due persone che stimo moltissimo, ma che stavolta non riesco davvero a capire.

Certo, è normale che istintivamente l’uccisione di una donna inerme nella sua automobile ci colpisca più di quella di un soldato armato di tutto punto al fronte. Ma se superiamo la reazione emotiva e proviamo a usare la ragione, allora vorrei proprio che qualcuno mi spiegasse perché sarebbe lecito uccidere i sodati russi, perlopiù poveri ragazzi di leva che fanno quel che fanno solo perché costretti, mentre non sarebbe lecito uccidere una delle persone che più si è spesa perché fossero mandati a forza in Ucraina ad ammazzare e a farsi ammazzare.

Ancor meno capisco come Cofrancesco possa parlare al proposito di «atto terroristico». Terrorismo sarebbe stato se la bomba avesse ucciso dei civili russi innocenti: e qui sono d’accordo con lui che un atto del genere non sarebbe giustificabile, anche se è quello che i russi fanno regolarmente tutti i giorni in Ucraina, perché non si può combattere il Male con il Male.

Ma Darya Dugina non era affatto innocente. Collaborava attivamente col padre, Alexander Dugin, uno dei più fanatici intellettuali ultranazionalisti, teorico della guerra totale tra Russia e Occidente, nel sostenere l’invasione dell’Ucraina, Inoltre, dirigeva in prima persona un sito che sfornava fake news a getto continuo per giustificarla, sia in patria che nei paesi occidentali. Le sue parole hanno causato più morti di qualsiasi fucile, cannone o missile russo.

Ciò che faceva, anche se su scala più ridotta, era in buona sostanza ciò che Goebbels faceva per Hitler. E non credo proprio che né Cofrancesco né Papa Francesco avrebbero avuto nulla da ridire se qualcuno avesse messo una bomba sulla macchina di Goebbels (sempre poi che siano stati davvero gli ucraini, perché la versione russa fa acqua da tutte le parti; ma non è questo il punto).

Non si può mai essere contenti quando muore un essere umano. Ma, tra le tante morti assurde causate dalla sporca guerra di Putin, se ce n’è una che meno delle altre merita le nostre lacrime, ebbene, questa è proprio la morte di Darya Dugina.

 

Paolo Musso

La zuppa di Porro

12 Settembre 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPoliticaSocietà

Sulla guerra in Ucraina esiste una sola verità (e non è un bene)

Ormai sui giornali neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato

di Dino Cofrancesco

Un vecchio amico—forse uno dei migliori storici contemporaneisti della sua generazione—mi dice: “C’è un solo modo per porre fine alla guerra russo-ucrai-na, fare pressioni su Mosca e su Kiev, perché accettino l’annessione della Crimea (un errore di Kruscev, come riconosciuto da Gorbachev) e un referendum nelle regioni contese del Donbass, sotto il vigile controllo dell’Onu, per chiedere alle popolazioni se intendono far parte dell’Ucraina o della Federazione russa”.

“L’alternativa è la prosecuzione di una guerra che sprofonderà l’Europa—e soprattutto l’Italia—nella peggiore crisi economica della sua storia, cementerà l’alleanza tra Mosca e Pechino, alla quale si aggiungerà Nuova Delhi, farà dell’Asia un dominion cinese (tranne il Giappone e Taiwan, difficile da difendere da un’invasione decisa da Xi) e ridurrà l’Europa, de facto, a una colonia degli Stati Uniti, che sono quelli che—con buona pace di Federico Rampini, divenuto Texas Ranger—hanno meno da perdere dal conflitto in corso. Gli intellettuali con l’elmet-to—quelli che oggi sono con l’America, malata, di Biden e di Trump e che ieri erano avversari irriducibili dell’America, sana, di Eisenhower e di Kennedy—e i politici, moderati o di sinistra, arruolati tutti nei marine non si rendono conto che l’Ucraina potrebbe essere la nuova Serbia e, come l’antica, portare a una guerra mondiale che oggi, con l’arma atomica, rischierebbe di distruggere non solo la civiltà occidentale ma ogni forma di vita sulla terra”.

“Saggiamente Washington non intervenne nel 1956 quando l’Armata rossa (che ancora si chiama così) invase Budapest: quello sovietico era l’esercito più potente del mondo e gli ungheresi vennero lasciati al loro destino per non precipitare l’Europa e il mondo nel caos. Oggi quasi sessant’anni dopo, non solo si è deciso l’intervento—questa volta per interposta persona—dinanzi a una Russia militarmente indebolita (secondo la massima: colpire il nemico quando è più debole) ma, contravvenendo a tutti gli impegni e le garanzie date a Mosca alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, la Nato si è estesa in Europa orientale fino a lambire i confini russi. Se qualcosa di analogo fosse capitato a Stati Uniti e Canada—ad es. missili con testate nucleari in un’America centrale e meridionale colonizzate da russi e cinesi—la reazione sarebbe non meno dura di quella mostrata da Kennedy all’epoca dei missili a Cuba. Si sarebbe detto che un conto sono i missili che minacciano una democrazia, un altro conto sono quelli che minacciano un regime dittatoriale”.

“Tra l’altro va rilevato per inciso che la pace, anche quella imposta dal vincitore, nella società moderna post-totalitaria, non è sempre quella dei romani (“desertum fecerunt et pacem appellaverunt”): sia pure in condizioni difficili, è possibile salva-guardare qualcosa, come dimostrò l’accorto Janos Kadar, l’uomo imposto da Mosca alla guida del governo ungherese, che mise mano a riforme di qualche peso.

 Insomma finché c’è vita, c’è speranza e un’Ucraina dai confini più ridotti può continuare il suo processo di occidentalizzazione. Peraltro se i miliardi di dollari e di euro, destinati agli armamenti, venissero distribuiti alla popolazione civile di un paese, senza più Crimea e (forse) Donbass, gli ucraini avrebbero un tenore di vita superiore a quello svedese e finlandese”.

Confesso che non sono stato in grado di replicare alle considerazioni del mio amico. Le mie frequentazioni giornalistiche (da ’Atlantico’, l’organo del fondamentalismo occidentalista, al ‘Giornale’) sono tutte su una lunghezza d’onde diversa, se non op-posta e questo mi porta per lo meno a pormi la domanda scettica: “Dopo aver ascol-tato le argomentazioni degli uni e degli altri, que sais je veramente?”. Debbo anche dire che non pochi conoscenti e colleghi, in camera caritatis, esprimono opinioni ancora più radicali di quelle su riportate ma se ne guardano bene dal metterle per iscritto: rischierebbero di passare per amici di quell’autentico scoundrel di Putin e qualche volta—com’è capitato a me per aver consigliato a un’amica slavista il libro di Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Rubbettino 2015—di perdere un’amicizia ventennale.

Sospendo, comunque, il mio giudizio sulla contesa politica e ideologica che sta dividendo l’Italia in campi avversi. Sarà la storia a decidere i torti e le ragioni. Le opinioni sono opinioni e tutte da prendere in considerazione ma una cosa, tuttavia, è certa e inconfutabile come un ‘giudizio di fatto’: quanti sono contrari alle sanzioni contro la Russia non hanno, per così dire, ’buona stampa’. Nel migliore dei casi ven-gono accusati di ignoranza (colpevole) di quanto sta avvenendo in Ucraina; nel peg-giore, passano per incalliti cinici, indifferenti ai valori alti dell’Occidente e preoccupati solo del rincaro del gas e della vita quotidiana in genere. Che migliaia di aziende chiudano i battenti, che si vada incontro a uno dei peggiori inverni della nostra storia, che in Ucraina continuino a morire ammazzati migliaia di militari russi e di militari e civili ucraini, sono preoccupazioni da panciafichisti, da “sciaurati che mai non fur vivi’. Nessun sospetto che, come capita sempre nel nostro malinconico mondo sublunare, possano esserci ‘valori’ da una parte e dall’altra, che l’etica dei principi (per cui la sovranità di uno Stato deve essere salvaguardata a costo di andare incontro a distruzioni irreparabili di vite e di beni) sia etica al pari dell’etica della responsabilità e che al ‘propter vitam, vivendi perdere causas’ si può sempre contrapporre l’osservazione che sotto terra non ci sono più buoni e cattivi, giusti o ingiusti.

Se si guardano i notiziari televisivi e si leggono i grandi giornali (i ’giornaloni’), a parte forse ‘Limes’, ci si rende conto che neppure il principio di far sentire ‘le due campane’ viene rispettato e che le rare volte che si citano fonti russe lo si fa per confermare la loro spudorata inattendibilità. Paradossalmente è nei periodici nordamericani che si possono trovare informazioni alternative (e certo non per questo veritiere). Gli articoli di grandi scienziati politici come John J. Mearsheimer , però, non vengono tradotti in italiano ed è una rivista catacombale come ‘Nuovo Arengario’ a segnalare il saggio di Ramon Marks No Matter Who Wins Ukrai-ne, America Has Already LostThere are multiple tough strategic realities for the United States to absorb. (‘The National Interest’ 21 August 2022).

Questa squalifica di chi non la pensa come noi è, forse, la peggiore eredità delle due culture totalitarie che tanto hanno inciso sul nostro sentire collettivo, il fascismo e il comunismo. Siamo il paese del ‘pensiero unico’: la verità sta solo da una parte—ieri il fascismo, il comunismo, oggi l’oltranzismo atlantista, il liberalismo mercatista, la santificazione (o per lo meno la giustificazione) degli Stati Uniti, qualsiasi cosa facciano. Forse aveva ragione, ahimè, il mio non amato Gobetti quando diceva che gli italiani non hanno spina dorsale morale.

La guerra, la pace, i valori. La lezione ignorata di Isaiah Berlin

12 Luglio 2022 - di Dino Cofrancesco

Speciale

I. La guerra in Ucraina non segna soltanto una svolta nei rapporti internazionali tra le potenze che tengono nelle loro mani i destini del mondo ma comporta una profonda rinnovata riflessione sulle grandi questioni che da secoli travagliano l’umanità, soprattutto occidentale. A leggere i giornali e a seguire i talkshow televisivi (che non sempre meritano il disprezzo di cui sono oggetto), si ha l’impressione di un enorme rimescolamento delle carte: amici, conoscenti, colleghi, intellettuali, giornalisti, politici che da tempo immemorabile si riconoscono nei valori della destra o della sinistra si ritrovano dalla stessa parte dei loro antichi avversari. Le appartenenze ideologiche diventano magmatiche e ogni giorno nascono raggruppamenti trasversali inediti. Vecchi atlantisti ritengono che la Casa Bianca e Joe Biden abbiano scatenato una guerra per procura contro la Federazione Russa al fine di ridurla a ‘potenza regionale’ non più in grado di nuocere; mentre un esponente della sinistra più radicale, come Pancho Pardi, sul ‘Manifesto’ dell’8 giugno u.s., critica aspramente Emmanuel Macron (e un po’ anche Enrico Letta), in un articolo che già nel titolo è un atto di accusa, Per non umiliare Putin, si consiglia all’Ucraina la resa. Come scriveva E.M. Cioran nel suo breviario spirituale, L’inconveniente di essere nati (1973), “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste”. Nel fervore dello scontro tra atlantisti nuovi e stagionati e quanti vengono accusati di comprendere le buone ragioni di Putin, avanzare dubbi e perplessità sulla guerra russo-ucraina diventa un peccato contro lo spirito. Un noto politico democristiano, intervenendo a ‘Stasera Italia’, ha sostenuto che non si può consentire a chi nega la verità di esporre le sue tesi (chiaro riferimento al Prof. Alessandro Orsini). Giustamente Augusto Minzolini sul ‘Giornale’ del 7 giugno u.s. – L’arma del silenzio – ha ribattuto ai censori, paladini del Vero, del Bello e del Buono: “chi è forte dei propri argomenti non dovrebbe temere quelli degli avversari”. Eppure nel mondo capovolto in cui viviamo, sembra che l’arma del ‘silenzio’ cioè il tentativo di stendere una cappa sul dissenso, sia diventata la ’scorciatoia’ preferita pure in Occidente. Si tratta, però di una scorciatoia ‘pericolosa’ perché racchiude in sé un germe autoritario che è incompatibile con ogni democrazia degna di questo nome; ma, nel contempo, seducente perché è molto meno faticosa del confronto. Il sottoscritto, ad esempio ha sempre pensato che si debba stare dalla parte dell’Ucraina, che sia doveroso assicurarle le armi di cui ha bisogno per difendersi, che la precondizione di ogni mediazione debba essere il ‘sì’ di Kiev. Detto questo, la ‘caccia’ ai putiniani e le liste di proscrizione nei confronti di dubbiosi e ‘pseudo pacifisti’ sono atteggiamenti ridicoli, che offrono a Mosca una patina di vittimismo.

Sennonché il problema non è solo quello della tolleranza delle opinioni politiche che non condividiamo ma è, soprattutto, quello della disponibilità ad ammettere che in quelle opinioni potrebbero esserci valori che non sono i nostri ma che, non pertanto, sono meno degni di rispetto e di considerazione. In non pochi interventi di storici e di analisti politici che onorano le patrie lettere è proprio il dubbio scettico – il momento più alto della saggezza dell’Occidente – che è venuto meno. Ben pochi hanno preso sul serio il pluralismo (non taroccato e non retorico) che costituisce la quintessenza del liberalismo di Isaiah Berlin. Rispondendo a Guy Sorman, – v. I veri pensatori del nostro tempo, Ventotto incontri con i protagonisti del pensiero contemporaneo (Ed. Tea, Milano 1989 p. 287) – il filosofo politico oxoniense, andando ben oltre il mero principio del rispetto che si deve agli altri e riprendendo un tema milliano (abbiamo bisogno di chi non la pensa come noi giacché è la dialettica delle opinioni che porta alla verità) rilevava ironicamente che: “essere liberale non significa soltanto accettare le opinioni divergenti, ma ammettere che forse hanno ragione gli avversari”. I nostri liberali italiani, sembra, “non appreser ben quell’arte”: col tempo, senza rendersene conto, dopo aver abbandonato la chiestacomunista, ricadono nei peccati di gioventù – il bisogno di certezze assolute, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, di rimanere fedeli al dovere della professione intellettuale che è quello di trasformare un fatto in un problema. Un maestro del ‘sospetto’ come il ricordato Cioran, diceva che “nei confronti di un qualunque atto della vita, lo spirito fa la parte del guastafeste” e che “penser, c’est saper, se saper” ed è per questo che si preferisce l’azione al pensiero, giacché “agire comporta meno rischi, perché l’azione riempie il divario tra le cose e noi, mentre il pensare lo allarga pericolosamente”.

Confesso di essere sconcertato dalla ‘trahison des clercs’ che constato ogni giorno. Amici e colleghi che considero degni di stima e che, talora, mi hanno dato insegnamenti preziosi di tipo storico e metodologico, intervenendo sul conflitto in Ucraina, non si limitano a esternare, a buon diritto, le loro opinioni su una tragedia epocale ma si rifiutano di prendere in considerazione quanti la pensano diversamente da loro, squalificandoli moralmente e intellettualmente. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi al rifiuto di accettare il fatto che “il mondo è pieno di dei” e alla pretesa che solo i nostri sono veri dei mentre gli altri sono demoni.

Uno studioso che stimo molto, Giovanni Belardelli, – uno dei più importanti studiosi di Giuseppe Mazzini e della cultura fascista – anche se non usa il termine, non ha esitato, in sostanza, a riguardare come ‘panciafichisti’ – cioè quanti serbano la pancia per i fichi, ovvero evitano vilmente il pericolo, tenendo alla propria pelle: la parola fu coniata polemicamente nel 1914 per indicare coloro che allo scoppio della prima guerra mondiale erano contrarî all’intervento italiano nel conflitto – i (presunti) putiniani d’Italia. Nell’articolo Gli eroici ucraini hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. È per questo che, ahinoi, in tanti non li sopportano più (‘Il Foglio’ 21 maggio), ha rilevato: “Ciò che tanti hanno difficoltà ad accettare, fino al punto di prendere le parti del dittatore del Cremlino, è la fine di un’illusione, il dissolversi di una storia che ci raccontavamo da decenni e in cui avevamo finito col credere. L’idea che, nonostante grandi e pic­coli sconvolgimenti mondiali, i cittadini delle democrazie europee avrebbero potuto continuare a vivere per sempre in un continente caratterizzato dalla pace, avrebbero continuato a godersi un benessere pressoché unico – nonostante qualche recente battuta d’arresto – nell’intera storia umana. La resistenza degli ucraini ha insomma distrutto il sogno dì una nuova belle époque che era iniziata nel 1945 ma, a differenza di quella sprofondata a Sarajevo, non avrebbe mai avuto fine. Dietro tanti discorsi sugli aiuti militari e sulle armi difensive o offensive, su Biden e la Nato, sul battaglione Azov e così via, c’è anche (soprattutto?) il fatto che gli ucraini, resistendo hanno reso impossibile la nostra tranquilla vita d’antan. Per questo in molti cominciano a non sopportarli più. Insomma gli ‘eroici ucraini’ hanno fatto irruzione nelle nostre case come elefanti nei negozi di cristallo: stavamo tanto bene sprofondati nelle nostre comode poltrone ed ecco che i guastafeste ci ricordano che le guerre non sono un ricordo del passato ma all’improvviso possono tornare seminando distruzioni e morti come ieri, più di ieri”.

Leggendo le parole di Belardelli si può davvero fare a meno di pensare che i suoi avversari politici non vengano messi “in cattiva luce”, ridotti ad egoisti preoccupati unicamente della loro tranquillità domestica? L’antiamericanismo è una costante della cultura italiana ma l’antiqualunquismo non è da meno, col suo hate speech nei confronti dell’italiano familista amorale, sollecito solo del proprio particulare (l’intramontabile ‘uomo del Guicciardini’ stigmatizzato da Francesco De Sanctis!): come al primo, anche al secondo si nega ogni parentela con i valori e la dimensione etica dell’esistenza. Ma davvero non hanno nulla a che vedere con la morale quanti si preoccupano delle conseguenze economiche e politiche della guerra ucraina? A causa della globalizzazione – che ci ha insegnato a definire sovraniste e autarchiche le preoccupazioni di chi avrebbe voluto che la dipendenza di materie prime cruciali per il nostro apparato produttivo non fosse totale e che pertanto campi di grano, centrali idroelettriche, giacimenti di gas e di petrolio nazionali non cadessero in disuso – l’aggressione criminale di Putin sta mettendo in crisi interi settori economici. Migliaia di imprese, di piccole e medie industrie chiudono i battenti per il rincaro delle bollette energetiche, scene di disperazione di chi non può più ‘andare avanti’ vengono trasmesse tutte le sere dai vari canali televisivi (soprattutto Mediaset) e noi quasi ci dovemmo vergognare se l’uomo della strada si chiede ”ma” è giusto che accada tutto questo solo per non riconoscere alla Federazione russa l’annessione di regioni da sempre contese e in preda alla guerra civile, lacerate come sono dalla difficile convivenza di etnie culturali simili ma sempre più ‘parenti serpenti’?

All’uomo della strada la violazione del diritto internazionale (che oggettivamente è innegabile da parte della prepotente autocrazia russa) è indifferente ma non per questo è condannato al ruolo del vigliacco se non vuol morire per Danzica o per il Donbass.

In fondo, per il qualunquista la patria (quella propria e quella degli altri) non è il valore più alto mentre la guerra è sicuramente il male peggiore che possa abbattersi sugli uomini. Lo testimonia già nel XVI secolo con forti e crudi accenti Angelo Beolco, detto il Ruzante nel Parlamento di Ruzante che torna dalla guerra 1528-9. “Cancaro a i campi, a la guerra e a i soldé, e a i soldé e a la guerra3! A’ sé che te no me ghe archiaperé pì in campo! A’ no sentiré zà pì ste remore de tramburlini, con’ a’ fasea; ni è trombe mo, criar «Arme!» mo… Aretu mo pì paura, mo? che, com a’ sentia criar «Arme!», a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. Schiopitti mo, trelarì mo? a’ sé che le no me arvisinerà; sì, le me darà mo, in lo culo! Ferze mo, muzare mo? A’ dromiré pur i mié soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota, mo squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ’l me fesse pro. Oh, Marco, Marco4! A’ son pur chì, a la segura” (“Canchero alla guerra e alla vita militare, e alla guerra e ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che tu non mi ci acchiapperai più a fare il soldato! Non sentirò certo più questi rumori di tamburini, come sentivo; né (vi) sono trombe, ora, a gridare «All’armi!», ora… Avrai tu più paura, ora? che, come sentivo gridare «All’armi!», sembravo un tordo che avesse avuto una frecciata. Schioppi ora, artiglierie ora? so che non mi verranno vicine; sì, mi daranno ora, nel culo! Frecce ora, scappare ora? dormirò infine i miei sonni. Mangerò anche, che mi farà pro. Potta, pure che qualche volta quasi non avevo modo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Sono infine qui, e al sicuro”).

Ma non è da meno il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini, che, nella raccolta dei suoi pensieri, La Folla(1945, pp. 106-107) demolisce l’ideale patriottico e le guerre alle quali esso conduce in termini che sarebbe eufemistico definire eversivi. “La sconfitta, realtà per i Capi, che perdono lo stipendio, è soltanto un’opinione per la Folla. Supponiamo che l’Italia dovesse cedere il Veneto alla Iugoslavia, e che la Iugoslavia fosse tanto sciocca da prenderselo. Cosa accadrebbe per la Folla? Niente. L’autore di libri continuerebbe a vendere i suoi libri nel Veneto, dove i libri iugoslavi non potrebbero essere venduti poiché nessuno saprebbe leggerli. Chi commerciava con Treviso, Udine, Padova, continuerebbe a commerciarvi. Su tutto il territorio ceduto si continuerebbe a fare l’amore, nascerebbero’ dei bimbi che imparerebbero a parlare italiano con accento veneto, e andrebbero poi a studiare, nelle scuole italiane, delle sciocchezze poco diverse da quelle che studierebbero se il provveditore agli studi dipendesse da Roma anziché da Belgrado. La fisica, la matematica – le cose veramente serie, insomma – sarebbero le stesse. […] Unico vero cambiamento: il prefetto di Venezia sarebbe iugoslavo anziché napoletano o piemontese. E cos’importa all’uomo della Folla che un prefetto si chiami Milan Nencic anziché Gennaro Coppola o Alberto Rossi? Deve dare la vita dei suoi figli e la sua per così poco?”.

Nei Taccuini di guerra 1943-1945 (Ed. Adelphi) di Benedetto Croce si legge, alla data 26 ottobre 1945: “È venuto a farmi visita […] la sera, dopo pranzo, il Giannini, direttore dell’«Uomo qua-lunque», che mi ha chiesto che il partito liberale accolga in sé le centinaia di migliaia dei suoi lettori e seguaci. Gli ho risposto che questo è impossibile, perché noi siamo un organismo politico, e il suo partito è una folla. È rimasto un po’ deluso, e dalla conversazione con lui (che è napoletano ) mi è apparso un ingenuo e di fondo sentimentale e doloroso, che sta contro gli uomini di politica e di guerra, e tutta la storia del mondo che costoro hanno governata, perché egli ha perduto l’unico suo figlio, che volle andare in guerra e nell’aviazione ed è morto in un incidente aviatorio: donde la campagna che egli ha intrapresa e il libro che ha scritto e che io ho scorso alcune settimane fa a Napoli”. È difficile non avvertire nelle parole del filosofo tutta l’umana comprensione per un padre dolorosamente colpito nei suoi affetti più cari per colpa delle guerre del duce, ma è altrettanto difficile non cogliere nella pagina di Giannini una protesta morale, certo lontana anni luce dal republicanism della cultura azionista e in genere dal giacobinismo ideale, comune a tutto l’arco antifascista ma non meno iscritta nell’umano. Augusto Del Noce ha scritto, in proposito, pagine memorabili che, meditate a fondo, avrebbero potuto guarire il liberalismo italiano dal suo coté moralistico e dogmatico.

Tornando a Giannini (e al suo antenato Ruzante) è azzardato immaginare come si sarebbe schierato nella guerra in corso? E la sua numerosa progenie che, stando ai sondaggi elettorali, è contraria all’invio di armi a Zelensky va considerata come una massa damnationis che, essendo in maggioranza, andrebbe tenuta, quanto più è possibile, lontana dalle urne. In realtà è in questi frangenti che emerge quell’ineliminabile ‘conflitto di valori’ al quale purtroppo è condannato il mal seme d’Adamo. Valori da una parte, valori dall’altra ma proprio per questo il filosofo, nel senso classico del termine, non può scendere in campo, fingendo di essere rimasto sugli spalti. Si prenda la figura del ‘disertore’ che ha ispirato testi teatrali e film. Il bersagliere Alessandro Anderloni (1881) come ha raccontato il regista omonimo nel film Al disertore (1918), mentre infuriava la battaglia sull’Altopiano di Asiago, abbandonò la trincea per raggiungere la moglie, Maria Zumerle, in fin di vita e la figlia Norma. Fermato dai carabinieri venne fucilato il 7 marzo 1917. Portando la vicenda sulle scene teatrali e sul set il regista ha inteso protestare contro la guerra e certo oggi, commossi, comprendiamo bene l’etica del ‘disertore’ (che tra l’altro sarebbe stato considerato tale anche oggi in Ucraina) ma l’agraphos nomos che lo aveva portato a lasciare la prima linea non era in contrasto col dovere di servire la patria anche col sacrificio della vita? Anderloni aveva le sue ‘ragioni’ ma anche l’esercito impegnato nella ‘grande guerra’ ne aveva e se gli Anderloni e i Ruzanti di oggi sono contrari all’invio di armi a Kiev vanno trattati come “sciaurati che mai non fur vivi?”.

Credo che in una società aperta si debba tener conto di tutte le opinioni, anche di quelle contrarie alla ‘difesa della democrazia’ fuori dai confini patri. Che i loro sostenitori siano ‘putiniani’ o ‘facciano il gioco di Putin’ è qualcosa che certo si può sostenere, astenendosi però dal metter in dubbio la buona fede e/o l’intelligenza del prossimo. Anche i comunisti italiani ‘facevano il gioco di Stalin’ ma non era ciò che si proponevano quando si battevano sulle piazze o nelle aule parlamentari per una giustizia sociale che ponesse termine alle diseguaglianze tra classi e tra regioni della penisola. Analogamente non ‘fanno il gioco di Putin’ quanti chiedono la pace e che il governo italiano si assuma le sue responsabilità. Come ho scritto recentemente nella rubrichetta Vistodagenova che tengo sul ‘Giornale del Piemonte e della Liguria’: “ritengo che, ora come ora, aiutare gli Ucraini – anche con le armi – a sedersi al tavolo del negoziato in veste di non perdenti davanti ai russi non vincenti, sia tutto sommato ragionevole”. Ma il problema non è questo, bensì è quello di mantenere lo sguardo lucido, di non ritenersi i vicari di Cristo in Terra (solo il papa lo è per i credenti) e di guardarci bene dall’ergerci a giudici di chi sulla guerra, le sue cause, il modo di por fine alle ostilità ha idee che non collimano con le nostre.

II. Repetita juvant. Non intendo ‘dire la mia’ sulla guerra russo-ucraina anche perché farsene un’idea è particolarmente difficile giacché, per quanto riguarda l’informazione, ci troviamo dinanzi a un fenomeno unico per un paese, come il nostro, che non essendo in guerra, non sarebbe tenuto a fornire ‘narrazioni’ (ma che brutto termine, quando ce ne potremo liberare?) di parte. Mi riferisco al disaccordo non solo sulle interpretazioni, ma sui fatti stessi. Natoatlantisti e (presunti) filoputiani convergono solo nel riconoscere che a febbraio c’è stata un’aggressione russa all’Ucraina e che l’ira funesta di Putin ‘infiniti addusse lutti agli Achei’ – distruzione di vite umane, di edifici civili, di monumenti storici, di scuole, di chiese etc. Per il resto, non si è d’accordo su niente. Nei giornali e nei talk show si confrontano tesi così opposte che sembrano quasi riferite a vicende e a personaggi omonimi ma diversi. Zelensky è un eroe della resistenza ucraina / Zelensky non è diverso da Putin, è un politicante ricco e dalle frequentazioni ambigue. Gli Ucraini, anche i russofoni, sono spiritualmente uniti, difendono la nazione contro ogni tentativo di dividerla; gli Ucraini sono da tempo impegnati in una guerra civile, giacché le etnie culturali minoritarie non si rassegnano al dominio di Kiev. Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a difendere l’Ucraina se non quello di non consentire al despota russo di ricostituire l’impero zarista; gli Stati Uniti hanno armato l’Ucraina, spendendo miliardi di dollari, per ridurre la Federazione Russa a potenza regionale. Le sanzioni contro Mosca hanno dei costi per l’Europa e per la stessa America ma sono rovinose per Putin che prima o poi dovrà fare i conti con un’economia al collasso; le sanzioni contro la Russia sono inefficaci, come tutte le sanzioni storiche che conosciamo, ma determineranno, in Europa, una crisi duratura e un ritorno alle politiche autarchiche. L’Ucraina, modello di stato democratico, ha un governo liberamente eletto dal popolo;l’Ucraina ha un regime non meno autoritario di quello russo e l’attuale dirigenza si è affermata solo grazie a un golpe, sul quale i mass media occidentali hanno steso un velo di silenzio. Per la Russia la conquista dell’Ucraina è un primo passo sulla via del ritorno all’Europa pre-1991; in Ucraina la Russia vuol riprendersi solo i territori russofoni di cui Kiev minaccia di cancellare l’identità culturale. Una Nato – forza militare di difesa e di pace – non costituisce alcuna minaccia per la Federazione russa; la Nato, per adoperare l’immagine di Papa Francesco, è un cane che abbia alle porte di Mosca e non meraviglia, pertanto, che preoccupi il suo progressivo allargamento. L’Ucraina difendendo il proprio diritto alla sopravvivenza, difende tutto l’Occidente, e va considerata quindi un avamposto della democrazia e della libertà; la guerra in corso si spiega con ragioni di strategia geopolitica: ideologie, crociate e missioni sono soltanto orpelli retorici, che mascherano i vecchi conflitti di potenza. Putin ha scatenato una guerra dagli esiti imprevedibili temendo il contagio di una Ucraina libera e democratica sul popolo russo asservito a una dittatura non meno spietata di quella sovietica; Putin non teme alcun contagio e gli bastano le scene dell’assalto a Capitol Hill per togliere ai russi ogni illusione sull’Occidente e sull’America. A chi non ha alcuna esitazione nel dichiarare che è stata la ‘paura della libertà’ (Erich Fromm non poteva mancare!) a scatenare il nuovo zar, fa riscontro chi giustifica l’intervento russo con il dovere di bonificare Kiev dai nazisti. Il battaglione Azov ad alcuni ricorda Leonida e le Termopili, ad altri i proscritti dei Freikorps. Se non ‘i ragazzi venuti dal Brasile’. Ci troviamo alle prese con una miriade di fatti e di congetture che forse solo gli storici del domani potranno districare. Quello che colpisce, in ogni caso, sono le tetragone sicurezze con le quali storici, analisti politici, pubblicisti di prestigio sostengono l’una o l’altra tesi: nessuno sembra sfiorato dal dubbio scettico (e metodologico) che sta alla base della nostra civiltà, a nessuno viene in mente la saggezza piemontese, cara a Norberto Bobbio, esageruma nen.

Certo non mancano neppure da noi analisti liberalconservatori (Sergio Romano) o di sinistra (Lucio Caracciolo) che hanno preso sul serio il ‘lavoro intellettuale come professione” e cercano, pertanto, di mostrare, nella tragedia bellica in corso, le due facce della medaglia ma a differenza dei combattenti dell’una e dell’altra barricata non sembrano avere molto seguito (anche se il numero di ‘Limes’ la Russia cambia l’Europa ha richiesto una ristampa). I telespettatori in genere non amano la complessità e i conduttori televisivi, per vivacizzare il dibattito per lo più preferiscono i portatori di tetragone certezze – tipo Antonio Caprarica o Giorgio Bianchi – ai problematici.

Questo passa il convento e io certo non pretendo giudicare le parti contendenti e assidermi arbitro in mezzo a lor, semmai in nome del vecchio banale adagio in medio stat virtus. Quando si scende in campo, bisogna stare lealmente da una parte o dall’altra: la militanza non deve mai spegnere la luce dell’intelligenza ma seppur si deve dire sempre la verità non si è tenuti a dirla tutta.

Quello che uno studioso coscienzioso può fare, invece, nel difficile periodo che stiamo vivendo, è richiamarsi, come ho scritto sopra, alla grande lezione di Isaiah Berlin, mettendo a fuoco i valori che ispirano anche quanti sono più lontani dal nostro universo etico-politico. Mi riferisco ai ‘deterrenti’(quelli che avrebbero preferito la resa immediata di Kiev ai massacri) ai quali nulla mi lega ma che leggo spesso portati ad esempio di pusillanimità e di rinuncia alla difesa della libertà e della dignità del popolo ucraino. “Ma davvero – è il rimprovero loro mosso – volete che gli Ucraini alzino bandiera bianca e si arrendano alle forze soverchianti del nemico?”

Ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in un editoriale memorabile sul coraggio dell’Ucraina (“Corriere della Sera” del 1° marzo 2022): “dietro l’esempio di coraggio che oggi stanno dando l’Ucraina e la sua gente è facile indovinare un senso fortissimo di dignità personale e di appartenenza collettiva, si sente risuonare di un suono chiarissimo l’idea per cui la vita può essere sacrificata nonché la convinzione che non deve essere tollerata la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà. […] Il patriottismo non è l’orgoglio e la ricerca della potenza della propria nazione. È innanzitutto l’amore per il proprio paese, per la sua storia e i suoi costumi, e insieme il desiderio di vivervi da liberi, liberi di deciderne le sorti condividendole con gli altri che parlano la nostra stessa lingua ma con i quali siamo capaci d’intenderci senza bisogno di parole bensì con uno sguardo, con un semplice cenno del capo. È dal patriottismo, da questo alto e pur elementare sentimento del vivere e delle virtù civili, da questo legame che tiene insieme le società umane, che nasce il coraggio odierno degli ucraini”. Parole bellissime – a parte il fatto che anche i russofoni della Crimea e del Donbass potrebbero richiamarsi al diritto di vivere con chi parla la loro stessa lingua e con cui ci si può intendere “senza bisogno di parole bensì con uno sguardo” – ma che pongono un problema grande come una montagna e che così si potrebbe sintetizzare: l’idea della comunità politica si esaurisce nello Stato e nel regime politico che di volta in volta lo definisce oppure è qualcosa, un bene prezioso, un retaggio storico che sta oltre lo Stato, il governo, i parlamenti, i partiti politici che ne sono i custodi? E le stesse vite dei cittadini che abitano la comunità politica in un determinato periodo, sono qualcosa di cui lo Stato può disporre ad libitum e a cui può chiedere ogni sacrificio, – tanto, chi per la patria muor vissuto è assai – o vanno messe a rischio ma solo entro ragionevoli limiti? Se un bandito assalta una banca, ne svuota i forzieri e in cambio del cessate il fuoco da parte delle forze dell’ordine accorse sul luogo chiede di poter uscire con qualche ostaggio e di disporre di un auto veloce a garanzia della fuga, lasceremo distruggere la banca e ammazzare tutti i clienti che vi si trovavano occasionalmente per una questione di principio, pur di “non tollerare la prepotenza di chi vuole imporci la sua volontà”? Si fa presto a dire “propter vitam, vivendi perdere causas”: nel mondo umano è tutto questione di misura, di quantità. Se il numero dei morti ammazzati è spaventosamente alto, se delle città invase non rimangono che cumuli di macerie, è da vigliacchi alzare bandiera bianca e consentire agli invasori di occupare, senza spargimento di sangue, Roma, Parigi, Milano, Bruxelles, Firenze per farvi ritornare la vita e la libertà quando le sorti del conflitto avranno ricacciato i ‘barbari’ oltre le frontiere?

I bombardamenti sulle città italiane iniziarono l’11 giugno 1940, circa 24 ore dopo la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre le ultime bombe caddero all’inizio di maggio 1945 sulle truppe tedesche in ritirata verso il Brennero. Nei cinque anni che passarono tra queste due date, quasi ogni città italiana fu bombardata. I centri industriali del nord come Genova, Milano e Torino subirono più di 50 attacchi ciascuno; le città portuali del sud, come Messina e Napoli, più di un centinaio. Milano registrò più di 2000 vittime civili; Napoli, nell’anno peggiore, il 1943, perse quasi 6.100 abitanti sotto le bombe. Città più piccole furono pure pesantemente danneggiate: per esempio, a Foggia le bombe distrussero il 75% degli edifici residenziali, mentre altre località come Rimini subirono ripetuti attacchi per periodi prolungati perché si trovarono per mesi sulla linea del fronte. L’Italia centrale non fu attaccata fino alla primavera del 1943 (e per questa ragione ospitò gli sfollati da altre regioni), per diventare la parte più bombardata del paese nei 15 mesi seguenti mentre il fronte, lentamente, si spostava dal sud al nord Italia”. Il 9 luglio 1943, lo sbarco degli americani in Sicilia segnò la fine del fascismo e di Mussolini, anche se si dovettero aspettare ancora due mesi per tirarsi fuori dal conflitto. Ricordiamo tutti il discorso del Maresciallo Pietro Badoglio dell’8 settembre: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane”. Per quanto discutibili fossero state prima le strategie del Re e del Maresciallo, cos’altro c’era da fare? Sottoporre l’Italia che non si arrendeva al trattamento inflitto dagli Anglo-americani alla millenaria abbazia di Montecassino (17 gennaio – 18 maggio 1944)?

Dice un vecchio proverbio napoletano: “quanno si’ncudine statte e quanno si martello vatte” (“Quando sei incudine stattifermo, quando sei martello percuoti”). In un raccontino fantapolitico – Se l’Alto Adige fosse come il Donbass pubblicato il 6 giugno u.s. su ‘La Zuppa di Porro’ – mi sono chiesto: qualora le soverchianti forze militari di una ipotetica Federazione austro-tedesca invadesse l’Alto-Adige per ricongiungerlo al Tirolo, lasceremmo distruggere Trento e Rovereto, Verona e Trieste in nome dei sacri confini della patria? E se lo facessimo la cancellazione della storia scolpita nelle pietre di quelle città, l’incendio dei suoi parchi, l’abbattimento dei suoi monumenti, la distruzione di scuole, stadi, teatri, ospedali, non indurrebbe a chiederci con quale diritto disponiamo di un patrimonio ideale e materiale che ci eravamo impegnati a prendere in custodia? Ancora una volta, in politica è questione di quantità: fino a che punto si possono sacrificare uomini e cose in nome della dignità? Galli della Loggia invita a “chiedersi ad esempio se il nostro discorso pubblico – al di là dell’algida e vuota ritualità di ogni cerimonia ufficiale – mostri di apprezzare realmente i valori che si accompagnano al patriottismo, se i protagonisti della nostra vita politica mostrino qualche coerenza personale rispetto a quei valori. Chiedersi, ad esempio, se questi valori medesimi, viceversa, non siano abitualmente circondati, specie nell’ambito intellettuale e dei media, da un’ironica condiscendenza che li dipinge come qualcosa ormai fuori dal tempo”. Non si può dargli torto per quanto riguarda il tramonto dell’idea di nazione nei nostri giovani e nelle nostre scuole ma non potrebbe essere la stessa idea di nazione a sconsigliare una resistenza a oltranza, distruttiva di vite e di beni che nessuna ricostruzione ci restituirà più? La prima guerra mondiale ci costò seicentomila morti: se i morti fossero stati tre milioni non avremmo accusato le classi dirigenti di aver scatenato un’inutile strage? Non le avremmo messe sotto accusa come pure facemmo in qualche modo a quota seicentomila?

Un comandante che lascia distruggere la nave, ammazzare il suo equipaggio, violentare i suoi passeggeri, rubare il suo carico prezioso, pur di non darla vinta ai pirati che se ne sono impadroniti non ha qualche responsabilità dinanzi al tribunale del genere umano? In base all‘etica politica’ squalificata come ‘pacifista’, nessuno Stato, nessun governo ha il diritto di fare terra bruciata e di chiedere ai cittadini di rinunciare a tutto, alla vita, ai beni, alla famiglia per impedire agli abitanti di Bozen e di Bruneck di ritornare nel seno della patria secolare.

Tornando a Badoglio e all’8 settembre, fu il Mussolini di Salò – quello del Tempo del bastone e della carota – a rammaricarsi della mancata resistenza degli Italiani ai nemici angloamericani fin dai tempi di Pantelleria. Fosse dipeso da lui, le macerie del Colosseo, dell’Altare della Patria, del Quirinale – come quelle di Montecassino utilizzate, dopo l’assurdo bombardamento angloamericano, dai tedeschi – avrebbero dovuto trasformarsi in trincee per fermare l’invasore. Arrendendosi agli Alleati, gli Italiani, invece, rinunciarono a far parte del novero delle potenze che decidono i destini del pianeta ma recuperarono il piacere del ‘vivere liberi’. Certo allora ci siamo arresi a chi esportava la democrazia, mentre oggi gli ucraini, è l’obiezione rivolta ai desistenti, dovrebbero arrendersi a chi, dietro i carri armati, porterebbe loro uno stato poliziesco, una dittatura fuori stagione e asservita al Cremlino. E tuttavia Putin non è Hitler e non è Stalin: occupati dall’Armata rossa (si chiama ancora così), ai vinti sarebbero rimaste la resistenza non violenta (nel solco di Gandhi), la non collaborazione coi vincitori, le sfilate di protesta davanti ai quartieri generali dell’occupante, insomma la ‘disobbedienza civile’, difficile da neutralizzare senza un bagno di sangue alla Tienanmen. Forse quelle di quanti si oppongono ad armare Kiev sono congetture non ragionevoli ma qui si sta parlando dei ‘valori’, non del loro riscontro fattuale.

Con queste considerazioni per così dire ‘filosofiche e storiche non sto dando ragione ai desistenti – o agli ucraini, ce ne saranno pure, renitenti alla leva – ma di richiamare l’attenzione su una lezione della celeberrima Politica come professione (1918) di Max Weber che non dovrebbe mai essere dimenticata: “e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede”.

Come si legge nei Quattro saggi sulla libertà (1989) di Isaiah Berlin – a mio avviso, il momento più alto del liberalismo novecentesco – : “Il mondo in cui c’imbattiamo nell’esperienza ordinaria ci pone dí fronte a una scelta tra fini ultimi ed esigenze egualmente assolute; la realizzazione di alcuni dei quali implica inevitabilmente il sacrificio di altro. In realtà, è proprio perché si trovano in questa condizione che gli uomini attribuiscono un valore così immenso alla libertà di scelta; perché se avessero la certezza che in qualche stato perfetto, realizzabile in terra dagli uomini, nessuno dei fini che essi perseguono sarà mai in conflitto con altri, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essa l’importanza centrale della libertà di scegliere. Se, come credo, i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri, allora non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto – e della tragedia – dalla vita umana, sia personale sia sociale”.

È questo lo ‘stile di pensiero’ che non vedo nei giornali, nella saggistica politica, nei salotti televisivi, dove intolleranza ed hate speech regnano sovrani e per caratterizzare quanti sono perplessi sull’aiuto militare a Kiev e, pertanto, vengono arruolati, ipso facto, come putiniani si manda in onda un servizio sulla cellula comunista di… Zagarolo e se ne intervistano gli stalinisti incrollabilmente certi che Putin ha invaso l’Ucraina per scacciarne i nazisti e per completare l’opera della seconda guerra mondiale.

Il più grande storico italiano della seconda metà del Novecento, Rosario Romeo, nella voce ‘Nazione’ per l’Enciclopedia del Novecento (1979) scriveva non senza coraggio e spregiudicatezza intellettuale: “sia da parte delle potenze dell’Asse che da parte delle Nazioni Unite, l’intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche che pretendevano a un’assoluta validità etica induceva a configurare gli avversari non già come esponenti di interessi contrapposti e dotati ciascuno di una propria legittimità, ma come fautori di una causa che si collocava al di fuori della comunità civile, e dunque privi dei diritti che la tradizione dell’Europa illuministica e cristiana riconosceva agli avversari in qualche modo legittimati dalla fedeltà al proprio paese o ai propri ideali. La guerra venne dunque ad assumere carattere, come allora si disse (Croce), di guerra civile o di religione, nella quale amici e avversari si cercavano e riconoscevano nell’identità degli ideali al di là delle frontiere nazionali. […] Da ciò, anche, la tendenza al totale annientamento dell’avversario, addirittura relegato dal nazismo in una sfera biologicamente inferiore, e dagli alleati identificato con la causa del Male e dell’Errore. Che erano atteggiamenti scomparsi da secoli nella coscienza dell’Europa civile, anche se in passato se n’erano avute, specie nei paesi anglosassoni, manifestazioni significative, ispirate alla calvinistica tendenza a vedere le lotte dei popoli e degli Stati in termini di lotte fra reprobi ed eletti: come era accaduto al tempo della guerra contro Napoleone o durante la prima guerra mondiale, quando uomini come John Dewey e George Santayana avevano dichiarato responsabile della «perversità della Germania» il soggettivismo e apriorismo della sua tradizione filosofica, mentre a livello popolare era risuonato sempre più spesso lo slogan «hang the Kaiser»”.

Mi chiedo: quell’“intreccio degli egoismi e delle ambizioni nazionali con motivazioni universalistiche” riconosciuto persino nella guerra dell’Asse, oggi è scomparso nel conflitto russo-ucraino dove le figure del Bene e del Male occupano la scena e non consentono al dubbio di salirvi? Si comprende il linguaggio di Zelensky, impegnato in prima linea, in una partita che non vuole pareggiare ma vincere (in nome delle altissime idealità illustrate da Galli della Loggia) ma perché il linguaggio dell’eroico combattente dev’essere anche quello dello spettatore che si pone al servizio della verità? Con gli squilli di tromba si avvicina il giorno della pace? E se si dice che Putin è davvero il nuovo Hitler – e non un brigante da strada che si è impadronito della diligenza e col quale il ricatto delle pistole impone di venire a patti – perché, coerentemente, non si chiede di fermarlo, entrando in guerra con la Federazione russa? Per evitare la terza guerra mondiale e una probabile catastrofe nucleare? Ed è morale lasciar dissanguare l’Ucraina e coventrizzare le sue città, i suoi campi, i suoi apparati industriali per infliggere all’orso russo ferite tali da costringerlo a tornare nella sua tana?

Vittorio Parsi, ordinario di Relazioni internazionali all’Università di Milano – v. ‘Il Dubbio’ del 26 maggio u.s. – ha affermato che “la proposta di Kissinger all’Ucraina || [cedere territori in cambio della pace] || è ‘irricevibile’. […] Come al solito Kissinger dice cose sulla pelle degli altri. Tanto per ricordare di chi stiamo parlando, è quello del golpe contro Allende in Cile nel 1973. Con le parole sull’Ucraina conferma il suo approccio cinico alla politica internazionale”. Evidentemente Parsi ricorda male le vicende cilene (forse anche perché quanto ne hanno scritto autori come Jean-François Revel o Arturo Valenzuela è stato sommerso dalla saggistica retorica antifascista) se crede che un Segretario di Stato Usa abbia potuto liquidare in quattro e quattr’otto un’antica democrazia come quella cilena, caratterizzata dalla tradizionale non ingerenza dei militari negli affari politici.

In un impeccabile articolo pubblicato su ‘La Repubblica’ del 9 giugno u.s., L’ora della Realpolitik, Furio Colombo ha sintetizzato come meglio non si sarebbe potuto l’essenza dell’insegnamento di Kissinger: “lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta. L’importante è interrompere, perché i due contendenti sono destinati a restare uno accanto all’altro e in mezzo all’Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger. Non si tratta di approvarla, né di pensare che Kissinger sia venuto a benedire una delle parti. Dell’Ucraina lo irrita il sentimento, che non coincide con la strategia. Della Russia non condivide l’incancellabile strappo con l’Europa a cui dovrà tentare in tutti i modi di porre rimedio”.

Questa non è l’Etica tout court: è solo l’‘etica della responsabilità’, scolpita da Weber nel Lavoro intellettuale come professione (1918). Accanto ad essa c’è l’etica della convinzione – mirante non alle conseguenze dell’agire ma alle sue motivazioni ideali – e ce ne sono altre infinite, religiose e laiche, secolari e trascendenti. Tenerne conto non evita certo i flagelli della guerra ma può contribuire a un confronto pacato tra le diverse opinioni e i diversi interessi e valori in campo: un confronto che potrebbe rendere meno difficili gli inevitabili compromessi senza i quali la parola resta solo alle armi.

Punire o fermare Putin?

2 Maggio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Da qualche tempo a questa parte, di pace, negoziati, compromessi, nuovi equilibri si parla poco. Al loro posto, profezie di vittoria: Putin può vincere, l’Ucraina può vincere. Quel che non è chiaro, però, è che cosa significhi vincere. E se significhi la stessa cosa per tutti.

Per Putin pare che la condizione minima per potersi proclamare vincitore sia il mantenimento della Crimea e l’annessione del Donbass, possibilmente collegati fra loro attraverso la striscia di terra che, lungo il mare di Azov, va da Mariupol alla Crimea.

Ma per l’Ucraina, e per i paesi che la sostengono?

Qui le cose sono molto meno chiare, o meglio sono chiare solo per Usa e Regno Unito (e per Zelensky). Per loro, vincere significa cacciare Putin dall’Ucraina, o con le armi o grazie a un cambio di regime a Mosca. Il fatto che l’impresa possa richiedere anni, comportare la completa distruzione materiale dell’Ucraina, nonché il sacrificio di centinaia di migliaia (se non milioni) di vite umane sembra importare poco. L’idea di fondo è che l’invasore vada punito, perché solo così si potranno evitare ulteriori, future aggressioni della Russia nei confronti di altri paesi europei.

Il mistero si fa fitto, invece, quando cominciamo a domandarci quale sia l’obiettivo dell’Europa, o almeno dei principali paesi europei. Apparentemente è il medesimo degli Stati Uniti, e magari lo è davvero, perché i nostri governi, in nome della unità e compattezza dell’Occidente, hanno accettato di seguire Biden e Johnson nella loro crociata anti-Russia.

Ma non occorre essere fini strateghi per rendersi conto che i nostri interessi sono molto diversi da quelli americani. Primo, perché le sanzioni che infliggiamo alla Russia sono catastrofiche per le economie europee (specie di Germania e Italia), ma fanno appena il solletico all’economia americana. Secondo, perché un eventuale allargamento del conflitto toccherebbe innanzitutto l’Europa, mentre difficilmente metterebbe a repentaglio la sicurezza degli americani. Terzo, perché, per vari motivi, il rischio nucleare che corre l’Europa è incomparabilmente superiore a quello degli Stati Uniti (le centrali nucleari a rischio sono tutte in Ucraina, l’eventualità di un attacco nucleare russo agli Stati Uniti è estremamente remota).

Questa asimmetria fra interessi Usa e interessi europei è particolarmente pronunciata per quanto riguarda la durata della guerra. Per gli Stati Uniti la prospettiva di una guerra che dura 10 anni, in stile Afghanistan, è tutto sommato accettabile, per l’Europa è catastrofica. E lo è innanzitutto per una ragione aritmetica, o meglio di calcolo delle probabilità: se in un generico giorno il rischio di un incidente (ad esempio un missile che cade su una centrale nucleare) è trascurabile, o comunque piccolissimo, in un arco di un anno diventa ragguardevole, e in dieci anni diventa una quasi certezza.

In statistica, è il paradosso del taxista di New York: la probabilità di essere ucciso da un cliente in una singola corsa è quasi zero, ma il rischio di esserlo nel corso di una intera carriera, fatta di decine di migliaia di corse, è altissimo, e fa di quel mestiere una delle professioni più pericolose al mondo.

Se le cose non stanno troppo diversamente da come le abbiamo descritte, diventa fondamentale che l’Europa esca dallo stato di ipnosi in cui Zelensky l’ha precipitata, e cominci a prendere atto dei rapporti di forza reali, nonché degli interessi dei popoli che la compongono. Aiutare gli ucraini a difendersi dall’invasione russa è non solo giusto, ma è nell’interesse dell’Europa. Inasprire e prolungare il conflitto nella speranza di cacciare i russi da tutta l’Ucraina è (forse) nell’interesse degli Stati Uniti, ma non in quello dei cittadini europei, cui la guerra infliggerebbe anni di recessione, una sequela di crisi umanitarie, per non parlare della spada di Damocle degli incidenti nucleari e dell’allargamento del conflitto.

Il vero interesse dell’Europa non è punire Putin costi quel che costi, ma fermarlo. Il che significa convincere Putin stesso e Zelensky a sospendere i combattimenti, sedersi a un tavolo, e cercare un compromesso ragionevole, che fermi l’escalation in atto, e assicuri un minimo di stabilità all’Europa tutta, “dall’Atlantico agli Urali”, come direbbe De Gaulle. Quel che servirebbe, in altre parole, è una grande e coraggiosa iniziativa politica, che finora è mancata perché il problema è stato posto in termini etici (punire l’aggressore) anziché in termini, appunto, politici (minimizzare il danno per i popoli europei, ucraini inclusi). E forse anche perché l’unico leader europeo in grado di tentare l’impresa – Macron – era in altre faccende affaccendato.

Eppure dovrebbe essere chiaro. Arrendersi a Putin non è etico, ma l’alternativa non può essere esporre l’Europa al rischio di una guerra lunga e sanguinosa, e il pianeta a quello di una catastrofe nucleare. Forse, più che dar prova di fedeltà incondizionata all’alleato americano, è giunto il momento per l’Europa di mostrarsi non solo determinata, ma anche saggia, e pienamente consapevole di quale sia il bene dei popoli che la abitano.

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

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