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Decreto anti-rave, un problema di coerenza

10 Novembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Sull’opportunità di una legge che, anche in Italia come in altri paesi europei, vieti i rave party sono d’accordo in molti, anche a sinistra, e in particolare nel Pd. Magari lo dicono a denti stretti, ma alla fine lo pensano. Del resto non occorreva attendere le recenti prese di posizione anti-rave di Dario Nardella (sindaco di Firenze) o di Stefano Bonaccini (candidato alla segreteria del Pd) per scoprire che da tempo esiste, dentro la sinistra, una corrente “securitaria” che prende sul serio la domanda di sicurezza dei cittadini. Pensiamo alle esperienze di governo di Flavio Zanonato (sindaco di Padova), di Sergio Cofferati (sindaco di Bologna), dell’ex ministro Marco Minniti, a lungo impegnato nel contrasto all’immigrazione irregolare (esperienza raccontata in un libro significativamente intitolato Sicurezza è libertà).

Dunque perché tanto si discute, a sinistra, del recente decreto anti-rave? Credo che le ragioni siano due, e che vadano accuratamente distinte. La prima è che, per alcuni, non c’è nulla di male nei rave party, che tutt’al più andrebbero rubricati fra le manifestazioni del “disagio giovanile”. La seconda è che il decreto legge che si propone di renderli illegali è mal scritto ed eccessivo.

Credo che quest’ultima obiezione sia più che fondata, e che farebbe  malissimo il centro-destra a non recepirla. Il punto debole del decreto è che la fattispecie del reato che si vuole introdurre è priva del requisito di determinatezza. Quando si dice che un “raduno” è illegale se vi partecipano più di 50 persone e “dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” si ricorre a un concetto – quello di pericolosità – estremamente vago, tanto più se applicato a beni giuridici a loro volta vaghi come l’ordine, l’incolumità e la salute pubblica. In breve, i rischi di una applicazione estensiva e discrezionale della norma sono intrinseci alla sua formulazione.

Si potrebbe chiudere il discorso dicendo che non dobbiamo stupirci, la destra fa la destra, ha vinto le elezioni, e non fa che mettere in pratica le proprie idee. Io invece mi stupisco. Perché mi ricordo quel che accadde con l’articolo 4 del Ddl Zan. Allora gli esponenti della destra (e alcuni dissidenti di sinistra) fecero notare, secondo me giustamente, che la fattispecie del reato era troppo vaga, e che tale vaghezza minacciava di limitare la libertà di espressione. Stabilire che convincimenti, opinioni e idee possono sì essere liberamente espresse, ma solo se “non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” lascia un margine di discrezionalità eccessivo a chi deve applicare la norma.

Anche qui, come sul decreto anti-rave, la parola chiave è “pericolo”. Chi, e con quali strumenti, può stabilire se da una condotta o un’idea deriva effettivamente un pericolo? Tanto più se il pericolo riguarda entità dai confini sfumati come gli “atti discriminatori”, o la “incolumità pubblica”.

Ecco perché questa prima mossa del governo Meloni mi ha stupito. Se si ritiene ineccepibile questa formulazione del decreto anti-rave, bisogna, per coerenza, far cadere le obiezioni all’articolo 4 del Ddl Zan. Se, viceversa, si vogliono mantenere queste ultime, allora occorre ammettere che il decreto anti-rave è mal formulato, ed acconciarsi ad accettare che il Parlamento lo corregga, come in una recente intervista lascia intendere il ministro Piantedosi quando dice che “la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social” e che “in quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo”.

Speriamo che sia così, e che la saggezza prevalga anche nella definizione di che cos’è un “raduno” (bastano 50 persone?) e nella fissazione delle pene (specie di quella minima, fissata a tre anni di carcere). Sarebbe un bene per tutti, cittadini e governanti. Per i cittadini, perché cadrebbe ogni timore riguardo alla libertà di manifestare. Per i governanti, perché ristabilirebbe la dovuta continuità fra le scelte di oggi sui rave party e le obiezioni di ieri al Ddl Zan.

Oggi la destra dice cose di sinistra

12 Ottobre 2022 - di fondazioneHume

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Intervista di Luca Telese a Luca Ricolfi (pubblicata su TPI, 30 settembre 2022)

Professor Ricolfi, lei nel 2005 fece discutere con un provocatorio saggio sulla sinistra: ”Perché siamo antipatici?”. Alla luce di questo voto si sente un po’ profeta? 

Non più di prima, ormai il problema base non è l’antipatia della sinistra ufficiale ma la sua mancanza di idee, e di rispetto per l’avversario politico. Spiace dirlo, ma la sinistra ufficiale (Pd e dintorni), ha un deficit di maturità democratica. Tollera le ingerenze straniere, e non rispetta le scelte della maggioranza. Non sono pronti per la democrazia.

Sono passati 17 anni da quel libro, si evoca ancora la categoria relazione che lei ha definito come politica, “l’antipatia”, per spiegare questo risultato.  É così anche per lei? 

No, il risultato è dovuto al vuoto di idee, al disprezzo per la sensibilità popolare, e alla mancanza di capacità strategica di tutti i leader, non solo del povero Letta.

La situazione é migliorata o peggiorata per via delle leadership o delle alleanze?

Per tutte e due, leadership e alleanze sono strettamente connesse: con questi leader, non si riescono a fare alleanze.

Cos’è diventata oggi questa “antipatia”? 

E’ diventata distanza: chiunque vede a occhio nudo che i politici di sinistra, con alcune importanti eccezioni (Pierluigi Bersani, Tommaso Cerno, ad esempio), non vivono nella realtà.

Secondo le indagini gli elettori del Pd sono statisticamente quelli con un titolo scolare migliore, e quelli con un reddito più alto. Si è ribaltata la composizione storica della sinistra italiana, secondo lei perché? 

Ho scritto un libro per spiegarlo (Sinistra e popolo), e ne sto per pubblicare un altro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra). Purtroppo non c’è una spiegazione semplice, perché lo swap fra gli elettorati della destra e della sinistra è avvenuto gradualmente, a partire dal 1965, con due accelerazioni: la caduta del Muro di Berlino, la crisi finanziaria 2007-2012.

Lei dice che il centrosinistra negli ultimi anni è stato il motore della disuguaglianza, non il suo nemico.

Nella scuola e nell’università è così, ho provato a dimostrarlo in termini matematico-statistici rigorosi nel libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguglianza, scritto con mia moglie Paola Mastrocola.

Cosa pensa del cosiddetto terzo polo? 

Tutto il bene e tutto il male del mondo. Tutto il bene perché rappresentano (molto imperfettamente) la sinistra liberale, che è quella che piacerebbe a me, se esistesse. Tutto il male perché non credo – come Renzi e Calenda – nelle virtù dei governi tecnici, e trovo anti-democratica la previsione/minaccia di far cadere il governo Meloni entro sei mesi.

Come valuta Il risultato di Renzi e Calenda, e perché non la convincono (se è così)? 

Il risultato non è malaccio, spero che facciano un’opposizione costruttiva.

Lei è un allievo di due dei più prestigiosi padri nobili della sinistra intellettuale: Luciano Gallino Claudio Napoleoni, ma adesso viene considerato un pensatore vicino alla nuova destra: come spiegherebbe la sua evoluzione politica?

E’ la nuova destra (ma mi riferisco solo a quella della Meloni) ad avere assunto tratti di sinistra: difesa della libertà di espressione, protezione dei ceti deboli e dei perdenti della globalizzazione, anti-assistenzialismo, politiche fiscali keynesiane. Che cosa può volere di più un uomo di sinistra?

Lei dice: “sono e rimango di sinistra”. Quanto ci ha pensato prima di intervenire al convention di Fratelli d’Italia?

Nemmeno un secondo. Se mi invitano a parlare dei temi che mi stanno a cuore io ci vado. Il problema è che, negli ultimi 30 anni, ho ricevuto inviti (peratro rari) solo da destra. E poi c’è la stima per Giorgia Meloni, che dura da quando l’ho conosciuta personalmente, otto anni fa.

Cosa pensa di Giorgia Meloni, come leader? 

E’ “la migliore”, come Togliatti.

Ha un rapporto personale con lei? 

Ogni tanto ci scriviamo o facciamo una video-call.

Chi rappresenta oggi – dal punto di vista sociale e politico –  il primo partito italiano, Fratelli d’Italia? 

I dati dicono che è’ abbastanza interclassista, con prevalenza dei ceti bassi.

Considera  Giuseppe Conte un leader di sinistra? 

No, per me l’assistenzialismo non è di sinistra. Però devo ammettere che i Cinque Stelle la questione sociale la prendono sul serio, non come il Pd che pensa solo agli immigrati e alle istanze LGBT.

Ritiene giusto abolire il reddito di cittadinanza?  

Come tutte le persone non ideologizzate penso che vada corretto, separando (anche giuridicamente) il sostegno ai poveri che non possono lavorare dal sostegno a coloro che possono lavorare.

Il Sole 24 ha pubblicato un diagramma per dimostrare un rapporto diretto tra il voto al M5S e i percettori del reddito, crede a questa relazione? 

Non c’era bisogno del diagramma per capire che il nesso c’è, ed è parecchio stretto.

Era davvero possibile un campo largo che tenesse insieme tutte le attuali opposizioni?

Non lo so, Letta non lo voleva, Conte non so se lo avrebbe accettato.

La preoccupa o la diverte il fatto che si faccia il suo nome come possibile ministro della Pubblica Istruzione? 

Non mi preoccupa e non mi diverte. E’ la solita costruzione giornalistica: non è un mestiere che saprei fare. Ma se ne fossi capace, non esiterei a dare una mano a Giorgia Meloni.

Un altro falso pluralista, Massimo Recalcati

10 Ottobre 2022 - di Dino Cofrancesco

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Sono convinto dell’inutilità di questo commento all’articolo di Massimo Recalcati, La sinistra e le parole da ritrovare uscito su ‘La Repubblica’ del 30 settembre u.s. A volte, però,  il messaggio nella bottiglia può avere un valore di testimonianza. Per i posteri altrimenti indotti a credere che lo spirito di un’epoca, della nostra epoca, condizioni tutti coloro che l’hanno vissuta. Recalcati è uno dei tanti intellettuali che, il giorno dopo la sconfitta del PD, vorrebbero ridare un’anima alla sinistra, facendole ritrovare le parole giuste. Quanto scrive è spesso condivisibile. È verissimo, ad es., che “se gli italiani hanno votato per Giorgia Meloni non significa che essi desiderino il ritorno del fascismo” e che, pertanto, “il grande collante dell’antifascismo non è più sufficiente a definire l’identità politica e culturale della sinistra” (scritto su un quotidiano come ‘La Repubblica’ ferma alla linea politico-culturale di Ezio Mauro non è poco). Il disaccordo comincia quando Recalcati parla della destra, delle sue parole d’ordine (Dio, Patria e Famiglia) “vincolate a una ideologia patriarcale al tramonto” della difesa degli interessi nazionali, presidio dei confini, della tutela dell’ordine sociale.

Per lo psicoanalista si tratta di valori arcaici ma che nutrono quella nostalgia che ha fatto vincere il centro destra e alla quale il PD non ha saputo contrapporre ‘la propria identità ideale’. Quest’ultima avrebbe richiesto un’idea alternativa di Dio, Patria, Famiglia ma non s’è visto nulla del genere. Per quanto riguarda Dio, si trattava, in so-stanza, di proseguire sulla via indicata dai Lumi: “credere nella ricerca, nell’istruzione, nel pluralismo contro ogni forma idolatrica di dogmatismo”. Per quanto riguarda la patria, la sinistra avrebbe dovuto “ripensare radicalmente l’Europa come nuova patria”.

E infine, venendo alla famiglia, si doveva chiaramente emancipare il legame famiglia-re dalla “logica materialistica della biologia”, liberandosi dagli stereotipi retorici che l’esperienza clinica e la medicina avrebbero spazzato via. Insomma è Monica Cirinnà che avrebbe dovuto guidare il PD in queste elezioni.

Intendiamoci, trovo legittimi tutti gli obiettivi per i quali si battono Recalcati e il mainstream culturale che ormai domina negli Atenei, nella stampa, nei mass media. E qualche volta li condivido, come nella richiesta di una legge umana sul fine vita. Ma il punto non è questo, bensì il falso pluralismo di cui si ammanta Recalcati. Se avesse letto Isaiah Berlin si sarebbe reso conto (forse) che i valori sono tanti e che “la piena dignità politica dei propri avversari” che, giustamente, vuole riconosciuta dalla sinistra, comporta comprenderne il senso e il loro radicamento nell’umano, rinunciando a considerarli spazzatura della storia. Porto qualche esempio: “la patria non si può identificare con il suolo e con il sangue”. “Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?/Non è questo il mio nido/ ove nudrito fui sí dolcemente?/Non è questa la patria in ch’io mi fido/madre benigna et pia,/che copre l’un et l’altro mio parente?”, cantava Francesco Petrarca nella sua canzone All’Italia., scolpendo, nei suoi bellissimi versi un sentimento universale.

Certo, per il neoilluminista conta solo la Gesellschaft—la societas in cui esseri razio-nali si accordano, mediante contratti equi, per soddisfare i loro interessi e garantirsi reciproci diritti; si veda, del resto, la voce ‘Patria’ nel Dizionario Filosofico di Voltaire; ma nel cuore del tradizionalista sta la Gemeinschaft—la communitas fondata non sul principio di prestazione (‘do ut des’) ma sul principio della solidarietà, dell’ ‘uno per tutti e tutti per uno’. Non sono valori entrambi? Certo si può discutere sul modo in cui, nell’uno e nell’altro campo, vengono fatti valere: la comunità, è stato rilevato più volte, porta al Lager e la ‘società’ al Gulag, ma qui stiamo sul terreno dell’etica politica non della storia.

Altro esempio: pensare che una famiglia debba essere composta di genitori di sesso diverso, ovvero eticizzare il dato biologico può non trovare tutti d’accordo e si può capire ma perché anche qui non riconoscere che ci troviamo dinanzi a valori forti che si contrappongono ad altri che stanno, a ragione o a torto, diffondendosi nel mondo (a Cuba, dove al tempo di Fidel Castro venivano giustiziati i gay, un referendum popolare ha riformato il diritto civile)? Si dirà che ormai antropologia e medicina hanno dimostrato che i costumi, alle origini di comportamenti e di pregiudizi che non si fondano sulla scienza, non debbono essere tollerati dai codici ma questo non è puro e semplice cognitivismo etico ovvero la deduzione dei doveri morali dai comandi di un’entità superiore che li impone—ieri Dio, oggi la Scienza? Ho forti dubbi sul concetto di ‘normalità’- specie in campo medico-antropologico–ma anche se le scienze all’unanimità dovessero definirlo una volta per sempre resterebbe la mia libertà di proclamare: “Tutti lo sono ma io non voglio essere normale”. Non era, in fondo questa, la lezione di uno dei pochi liberali espressi dal Partito d’Azione, Guido Calogero?

Insomma ho l’impressione che l’esaltazione del pluralismo, nella nostra cultura, sia pura e semplice retorica, purtroppo non innocua. In realtà, ci è impossibile pensare che i nostri progetti politici non siano superiori a quelli dei nostri avversari ideologici, rinunciando “all’idea ‘religiosa’” della nostra “superiorità morale”. E forse la causa di ciò sta nella riluttanza ad ammettere che i valori non solo sono tanti, come si è detto, ma spesso risultano conflittuali e incomponibili. Le ‘benedizioni della modernità’, come le chiamava il grande Albert Hirschman—l’Europa, l’atlantismo, la globalizza-zione, il modello americano—non sono tali per tutti e molti ne farebbero volentieri a meno. Nostalgia di un mondo perduto? E se così fosse? Non c’è anche un diritto alla nostalgia? Democrazia non è ‘andare sempre avanti’ ma è anche prendere atto che qualcuno vorrebbe fermarsi se non tornare indietro: contano i voti e le maggioranze. Peraltro le democrazie che storicamente hanno avuto successo sono quelle che hanno tenuto in equilibrio Lumi e Tradizione, Destra e Sinistra, l’Antico e il Nuovo.

Se non vinciamo sempre ‘noi’ ma vincono ‘loro’, qualche ragione ci sarà ma non troviamola, per carità negli ‘atavismi culturali’ che spesso designano i valori che non sono i nostri…

 

Dino Colafrancesco

Novità o carisma?

6 Ottobre 2022 - di Luca Ricolfi

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Sull’exploit di Giorgia Meloni e del suo partito alle elezioni del 25 settembre circolano teorie curiose. La prima attribuisce il successo alla scelta di stare all’opposizione del governo Draghi, una scelta che avrebbe penalizzato soprattutto la Lega di Salvini. Questa teoria è illogica, perché all’opposizione del governo Draghi c’è stata pure Sinistra Italiana di Fratoianni, che invece ha ottenuto un risultato modesto, di poco sopra la soglia del 3% (insieme ai Versi), senza intaccare minimamente i consensi dei partiti di sinistra governisti. Ma soprattutto  è incompatibile con i dati: il prof. Paolo Natale, uno dei massimi specialisti di analisi elettorale, ha dimostrato in un recente contributo che l’erosione dei voti leghisti da parte del partito di Giorgia Meloni era iniziata ben prima della nascita del governo Draghi, ed è semplicemente proseguita durante il governo tecnico. Dunque non può essere la scelta di stare all’opposizione ad aver fatto la differenza fra Fratelli d’Italia e Lega.

Più ragionevole è la teoria che attribuisce il successo del partito di Giorgia Meloni al fatto di non essere mai entrato in un governo, anche quando avrebbe potuto (nel 2018 e nel 2021). Molti dicono: gli italiani amano le novità, dal 1994 in poi hanno provato di tutto, restava solo da provare lei. C’è del vero in questa lettura, ma manca un tassello fondamentale: il carisma.

Sono passati esattamente 100 anni da quando Max Weber, in Economia e società, introdusse nel lessico delle scienze sociali il concetto di carisma e di leadership carismatica, mutuandolo dall’ambito religioso, in cui allude alla grazia, ossia a un dono straordinario concesso da Dio a una persona a vantaggio di una comunità (la parola carisma deriva da χάρις, che in greco significa grazia). In ambito politico il carisma è molto difficile da definire, ma per lo più allude alla capacità di trasmettere una visione della realtà e di stabilire un contatto emotivo con le masse cui ci si rivolge.

Che cosa si debba intendere oggi per leader carismatico è ovviamente controverso, ma credo che – quale che sia la definizione di carisma che si preferisce – sia difficile negare che nelle ultime elezioni Giorgia Meloni sia stata l’unica leader che ne fosse dotata.

Come mai?

Penso che la risposta sia che, in politica, il carisma molto raramente è un carattere permanente del leader. Il carisma si può benissimo perdere. Di leader politici intrinsecamente, e quindi permanentemente, carismatici, nella ormai lunga storia della Repubblica ne ricordo solo due: Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Tutti gli altri condottieri che, a un certo punto della loro storia, sono parsi toccati dalla grazia, hanno finito per perderla. Nella storia della seconda Repubblica il carisma si è posato su Berlusconi, con la promessa della rivoluzione liberale; su Veltroni, con il sogno della “bella politica”; su Renzi, con il mito della modernizzazione del sistema; su Beppe Grillo, con la rivolta anti-casta.

Ma per tutti, a un certo punto, sia pure con modalità molto diverse, è calato il sipario. Berlusconi ha perso la grazia perché non ha mantenuto le promesse, e non è stato capace di innovarsi. Veltroni ha tardato troppo a scendere in campo, e quando lo ha fatto è stato messo fuori gioco dalle faide interne del suo partito. Renzi si è autoaffondato per arroganza ed eccesso di sicurezza. Beppe Grillo è stato sommerso dal qualunquismo e dalla pochezza della sua creatura.

Non sarebbe stato un problema se, usciti di scena tutti i leader un tempo carismatici, al loro posto ne fossero emersi di nuovi. Ma non è andata così. Né a sinistra, né a destra. La sinistra si è presentata alle elezioni senza alcun leader carismatico, se si eccettua lo pseudo-carisma (da reddito di cittadinanza) di Conte nel Mezzogiorno. Quanto alla destra, né Berlusconi né Salvini paiono aver capito che la stanca ripetizione di una raffica di slogan e di parole d’ordine vecchie di vent’anni non può scaldare i cuori.

In questo deserto, alle parole di Giorgia Meloni non è stato difficile arrivare ai cuori e alle menti dell’elettorato di centro-destra, cui la visione tradizionalista di Giorgia Meloni, mai così esplicita in una campagna elettorale, è parsa più congeniale delle promesse liberiste dei soliti Salvini e Berlusconi.

Per lei il difficile comincia ora. Perché ci aspetta l’autunno più drammatico dalla fine della seconda guerra mondiale, e la storia insegna che il carisma è più facile conquistarlo che conservarlo.

Luca Ricolfi

Le tre sinistre

9 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni scorsi, quando sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica, e all’economia pianificata, come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda risponde: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, a sinistra. Il maggiore partito della sinistra, il Partito democratico, tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate”, cui abbiamo dovuto assistere in questi giorni, un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

L’alleanza con +Europa di Emma Bonino, e la contemporanea rottura con Renzi e Calenda, fanno pensare che, per il Pd, l’esito più probabile sia l’accentuazione dei suoi caratteri di partito radicale di massa. Anche perché le altre due caselle – partito socialdemocratico e partito liberaldemocratico – sono già, più o meno confusamente, presidiate da quel che resta dei Cinque Stelle di Conte, e da quel che sarà del Terzo polo di Renzi e Calenda.

Sotto questo profilo, l’appuntamento del 25 settembre potrebbe essere davvero cruciale per il futuro della sinistra. Sarà la prima volta, infatti, in cui toccherà agli elettori – e non alle correnti del Pd – pronunciarsi sulle tre alternative politiche che dividono la sinistra da quando Achille Occhetto decise di archiviare il comunismo: partito radicale di massa, partito socialdemocratico, partito liberaldemocratico?

Al popolo di sinistra l’ardua sentenza.

Luca Ricolf

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