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Società

Follemente corretto (11) – Grassofobia

17 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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Sono in molti, non solo a destra, a ritenere che il Ddl Zan, naufragato al Senato nel 2021 per le rigidità del Pd di Letta, fosse non solo pericoloso per la libertà di opinione, ma anche mal impostato filosoficamente, logicamente.

Sul piano filosofico, è stato notato che la legge non aggiunge alcun nuovo diritto per le minoranze, e che appare inquietante – oltreché vagamente medioevale – usare la legge penale per reprimere o indirizzare i sentimenti, quali che essi siano. In questo senso si sono pronunciati, ad esempio, due uomini di sinistra come Piero Sansonetti (direttore del “Riformista”) e Tommaso Cerno, quando era ancora parlamentare del Pd.

Sul piano logico e (terminologico), è stato osservato che, se pure si vuole instaurare la pratica aberrante di usare il codice penale contro i sentimenti, può avere senso perseguire un sentimento aggressivo come l’odio, ma non certo la paura. Fobia in greco, e pure in italiano, significa paura, come nella parola agorafobia (paura della piazza, cioè della folla). Perseguire xenofobia, omofobia, transfobia, equivale a sostenere che la gente non ha diritto di manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone.

Meno attenzione ha ricevuto un altro limite del Ddl Zan, un limite che potremmo chiamare di natura concettuale. Come noto, l’operazione principale del Ddl Zan è di estendere il raggio di azione della legge Mancino (legge 205, 25 giugno 1993). Con la legge Mancino, le idee e le azioni discriminatorie punite con il carcere erano essenzialmente quelle basate su “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali”. Con la legge Zan si proponeva di allungare l’elenco a cinque nuovi tipi di motivi, e precisamente quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Stranamente, pochi hanno notato che questo allungamento del brodo delle fobie apriva una falla logico-concettuale irreparabile nella lotta all’odio e alle discriminazioni: la lista delle categorie e delle condizioni per le quali si può nutrire ostilità, esercitare discriminazioni, mettere in atto comportamenti bullistici è potenzialmente infinita. Oggi ci preoccupiamo di proteggere gay, trans o disabili, ma basta dare un’occhiata a quel che succede in una scuola per rendersi conto che la lista delle aspiranti vittime o minoranze da proteggere è aperta, e necessariamente destinata ad allungarsi. Vittime di atti più o meno espliciti di bullismo, sopraffazione, stigmatizzazione, emarginazione non sono solo le “minoranze sessuali”, religiose o etniche, ma non di rado possono divenirlo i secchioni, i timidi, i primi della classe, le schiappe, le brutte, i grassi.

Già, i grassi. L’ultima novità è la campagna contro una nuova presunta fobia: quella verso chi è obeso o in sovrappeso. Una campagna che, in tutti gli ambiti – dal mondo delle casalinghe, alle scuole, allo star system – stigmatizza gli atteggiamenti “grassofobici”. Dove per grassofobia si intende non solo il dileggio di chi è grasso, ma anche qualsiasi consiglio amichevole di adozione di uno stile alimentare volto a tenere sotto controllo il peso.

Contro il peccato di grassofobia, vengono brandite un nugolo di parole inglesi, sia positive, come body positivity, o fat acceptance (accettazione del grasso) sia negative, come weight bias e diet culture (la credenza che esista un peso ottimale, e che lo si debba inseguire con la dieta). Il tutto per proclamare il principio, molto controverso scientificamente, secondo cui si può essere in salute a qualsiasi peso (Haes, o health at every size), o meglio a qualsiasi livello del Bmi (body mass index), l’indice che stabilisce il peso ottimale per ogni statura.

A quanto pare, quando il Pd ripresenterà il Ddl Zan, dovrà inserire i grassi insieme ai disabili, ai gay e ai trans. In attesa che la prossima minoranza stigmatizzata denunci una nuova fobia, ed esiga l’allungamento della lista.

L’industria della bontà

16 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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Ma che cosa combinano le organizzazioni benefiche, siano esse Ong, cooperative, Onlus varie?

Viene da chiederselo, dopo il doppio scandalo che ha coinvolto, quasi in simultanea, le cooperative della famiglia di Soumahoro e le Ong del Qatargate. Ma la domanda è sbagliata. Le industrie della bontà fanno il loro mestiere, che è quello di riprodurre e possibilmente espandere sé stesse, come fanno tutte le burocrazie. E a questo scopo si dotano di sponsor e testimonial, che svolgono il ruolo che – nelle industrie vere – è svolto dalla pubblicità.

Le domande giuste sono altre, e riguardano noi stessi.

Prima domanda: su che basi, per tanti anni, la sinistra ha dipinto sé stessa come animata dai più alti ideali, e la destra come guidata dalle più basse passioni? Se non vi fosse stato questo racconto, insistito e quasi ossessivo, la caduta di oggi sarebbe meno rovinosa. Perché quel che fa male, al mondo progressista, non sono i fatti in sé – le malversazioni, la corruzione, gli arricchimenti indebiti – ma il contrasto fra le vergini idee e i non sempre casti appetiti. Come del resto succede con la Chiesa, dove i preti pedofili fanno orrore e scandalo proprio perché sono preti, dediti a insegnare a noi peccatori la morale e la virtù.

Ma c’è anche una seconda domanda: perché ci ostiniamo a giudicare le industrie della bontà per le loro intenzioni e non per i loro comportamenti? Perché, per decidere di donare, ci lasciamo guidare dai loro messaggi pubblicitari, commoventi e vagamente ricattatori (se tu non doni, questo bimbo morirà)? Perché non pensiamo mai di analizzarne i bilanci, le fonti di finanziamento, gli stipendi dei dirigenti e consulenti, la quota che va a spese di funzionamento e la quota che va effettivamente in aiuti?

Lo so, perché è noioso. E soprattutto è prosa. A noi piace la poesia. Però la prosa aiuta a capire, e a limitare i danni. Se anziché compiacersi di essere stata messa nel board di una Ong, Emma Bonino si fosse annoiata ad andare alle riunioni e a leggerne i bilanci, forse le cose sarebbero andate in modo meno criminale. Se anziché compiacersi di consegnare un premio alla suocera di Soumahoro, Laura Boldrini avesse preteso un rendiconto dettagliato dagli enti che avevano deciso di proclamarla “imprenditrice straniera dell’anno”, forse qualche dubbio avrebbe trovato la strada per emergere.

E qui veniamo al cuore del problema. La realtà è che anche l’attività di premiare è, fondamentalmente, autopromozione. L’autodifesa di Laura Boldrini, senza volerlo, illustra il punto nel modo più chiaro. Quando Valerio Staffelli le consegna il tapiro d’oro per l’infortunio in cui era cascata, l’ex presidente della Camera risponde: “Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte. La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Con una giuria di questo tipo, chi non si fida?”

Già, chi non si fida?

Tutti ci fidiamo, ma è qui che sta l’errore. Perché l’impulso che spinge un’associazione a istituire un premio è lo stesso che spinge il politico o la politica a consegnarlo: fare pubblicità a sé stessi. E da questo punto di vista, l’autopromozione, i premiati non sono tutti eguali. Ci sono premiati banali, e ci sono premiati sfavillanti. Come ci sono candidati scialbi, e candidati luccicanti. Premiare una commercialista svizzera di Varese non è come premiare una signora africana, profuga del Rwanda e paladina degli immigrati. Candidare un avvocato del Nord non è come candidare un bracciante nero del Sud.

E torniamo sempre lì: la poesia e la prosa, il sogno e la realtà. Noi preferiamo la poesia, la prosa ci annoia profondamente. L’idea che quella della bontà sia anche un’industria non ci piace. La fatica di studiarla, con la pazienza e l’attenzione con cui si studia un “piano industriale”, non abbiamo nessuna intenzione di accollarcela. Preferiamo scegliere in base alla pubblicità. Se siamo individui, dando i nostri soldi a chi è più in grado di scaldare i nostri cuori, se siamo imprese, istituzioni, organizzazioni, sponsorizzando o finanziando le iniziative che più ci danno lustro.

Ma allora non possiamo lamentarci troppo dei Soumahoro e dei parlamentari corrotti di Bruxelles: in un mondo basato sulla pubblicità e sul sentimentalismo, sono normalissimi incidenti di percorso.

Follemente corretto (10) – La guerra dei pronomi

12 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

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Fino qualche anno fa, la politica dei pronomi, promossa dalle vestali del politicamente corretto, colpiva quasi esclusivamente le istituzioni accademiche. All’atto pratico, si trattava – essenzialmente – di evitare il maschile quando il riferimento poteva essere anche a una donna. Se scrivevi una lettera o trasmettevi una comunicazione, non potevi iniziare con il solito “cari colleghi”, ma dovevi scrivere “care colleghe e cari colleghi”, o “car*collegh*, o usare qualche diavoleria neutra (ad esempio la cosiddetta schwa: ə) per non discriminare le donne. Se mandavi un articolo alla solita rivista in lingua inglese dovevi stare attento a non usare, per riferirti a una persona che poteva essere maschio o femmina, il pronome ‘he’ (lui), ma il pronome doppio ‘he or she’, o ancor meglio ‘she or he’.

Oggi non più, specie negli Stati Uniti. Oggi ci sono quattro novità sostanziali. La prima è che la politica dei pronomi pretende di includere non solo le donne, ma qualsiasi persona “non binaria”: maschi che hanno cambiato sesso, maschi che si sentono femmine, donne che hanno cambiato sesso, femmine che si sentono maschi, persone intersessuali, maschi bisessuali, femmine bisessuali, persone che non vogliono avere un’identità sessuale o di genere, persone più o meno perennemente “fluide”, eccetera (non per nulla la vecchia sigla LGBT è evoluta in LGBTQIA+, che significa: Lesbian, Gay, Bisexual, Transgendder, Queer, Intersexual, e chi più ne ha ne metta).

La seconda novità è che la proliferazione delle minoranze non binarie (e quindi protette, in quanto diverse) non ha condotto alla ricerca di un unico pronome ‘inclusivo’ (cosa già alquanto bizzarra, in quanto artificiosa), bensì a una esplosione di pronomi, ciascuno completo della sua più o meno cervellotica declinazione. Eccone un campione:

Note: the top line is meant to indicate two separate – but similarly spelled sets of pronouns. They are ae/aer/aers and fae/faer/faers.

La terza novità è che, secondo le numerose organizzazioni che pretendono di insegnarci come parlare, la scelta del pronome è completamente arbitraria e soggettiva: è l’individuo che deve decidere con quale pronome gli altri devono chiamarlo. Un transessuale MtF (maschio che diventa femmina) può pretendere di essere chiamato con il pronome ‘xe’, un altro transessuale Mtf può esigere il pronome ‘per’, che a sua volta può essere scelto anche da una lesbica, o magari da un bisessuale.

La quarta novità è che le organizzazioni che, senza alcun mandato collettivo, promuovono la babele dei pronomi pretendono pure che, in qualsiasi conversazione, ci si presenti dichiarando i propri pronomi, si chieda all’interlocutore quali sono i suoi, e pure che – quando qualcuno sbaglia i pronomi di qualcun altro – lo si redarguisca “gentilmente”.

In un mondo in cui la maggior parte della popolazione ha problemi ben più seri, concreti, e drammatici, l’esito della guerra dei pronomi rischia di essere la creazione di nuove discriminazioni e stigmatizzazioni. Questa volta ai danni di quanti non vogliono o non possono adeguarsi ai molestatori della lingua.

Follemente corretto (9) – Tempi duri per le opere d’arte

10 Gennaio 2023 - di Luca Ricolfi

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In un bell’articolo pubblicato su Linkiesta, Guia Soncini fa notare l’incredibile faziosità che contamina la campagna elettorale. L’ultimo esempio di doppio standard – o “due pesi e due misure” come si diceva una volta – sono gli insulti piovuti su Giorgia Meloni per aver postato il video di uno stupro, già pubblicato da “La Stampa” (sin dalla prima pubblicazione nessuno si era posto il problema del consenso della vittima di un reato) e le lodi ricevute da Pippo Civati per aver ripubblicato un video di cittadini milanesi in coda alla mensa dei poveri. Nel primo video il volto della donna stuprata era oscurato, nel secondo i volti dei poveri erano in chiaro. Perché insulti in un caso, lodi nell’altro? La risposta di Guia Soncini è che siamo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, a loro volta guidate dalla tifoseria politica cui apparteniamo.

Temo che le cose stiano anche peggio. Ad essere colpiti dal doppio standard non sono solo i gesti politici, come quelli di una campagna elettorale, ma anche quelli artistici e culturali, persino quando i loro autori sono morti da un pezzo.

Un bell’esempio è fornito dalla pretesa di giudicare le opere del passato in base alla vita dei loro autori, setacciata ai raggi X in base agli standard etici del momento. Nel 2019, alla National Gallery di Londra, i dipinti di Gauguin sono stati contestati, e giudicati indegni di essere esposti, perché quando si era rifugiato a Tahiti, aveva convissuto con una ragazza del luogo quattordicenne, da cui aveva anche avuto un figlio. Qui il punto di vista che squalifica senza appello i dipinti di un artista è una sorta di femminismo retroattivo, ringalluzzito dal MeeToo, incapace di collocare le opere nel loro tempo (fine ’800) e nel luogo in cui sono state concepite (le isole della Polinesia).

Ma il caso di Gauguin è ancora fra i più innocenti, perché la politica c’entra molto alla lontana. Gauguin non era di destra o di sinistra, perché della politica non gli importava nulla.

I casi interessanti sono quelli in cui la tagliola che squalifica l’opera di un autore in base ai suoi costumi sessuali è regolata in base alle convinzioni politiche dell’autore stesso.

Per un motivo analogo a quello addotto nel caso di Gauguin (aver avuto una moglie minorenne), la statua di Indro Montanelli a Milano è stata fatta oggetto di ripetuti scempi, ed è tuttora bersaglio di polemiche politiche e pseudo-intellettuali. Come nel caso di Gauguin, le accuse si sono intensificate dopo lo scandalo Weinstein e il MeeToo (2017). Qui però la matrice degli attacchi non è solo femminista, ma è politica, perché Montanelli è stato fascista, è un grande giornalista, ma ha la colpa di essere un conservatore.

Si potrebbe pensare che, in materia di politicamente corretto applicato alle opere del passato, la faziosità sia una esclusiva della sinistra. Ma non è così. Un paio di anni prima del MeeToo, una polemica feroce investì l’opera del grande poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, uscita postuma nel 1974 (a un anno dalla morte), qualcuno, a distanza di 40 anni, ebbe a notare un passaggio in cui il grande poeta raccontava uno stupro (o perlomeno un rapporto non consensuale), da lui consumato ai danni di una giovane donna Tamil, nera, povera, e della casta paria. In questo caso gli attacchi trovarono schierati sul medesimo fronte femministe cilene e politici di destra, ostili alla proposta di intitolare a Neruda l’aeroporto di Santiago del Cile.

A difesa del sommo poeta, comunista e perseguitato politico, si schierò invece la sinistra, esattamente come – nel caso degli attacchi a Montanelli – a difendere il nostro più grande giornalista, conservatore e a suo tempo gambizzato dalle Brigate Rosse, si era schierata la destra.

Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, meno che mai se il suo autore è classificabile come di destra o di sinistra.

Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

29 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.

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