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Società

Le diverse forme della primitiva dominanza maschile sulle donne: l’interazione tra natura e cultura

20 Febbraio 2023 - di Silvia Bonino

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Non solo cultura

La condizione delle donne è stata segnata storicamente, in tutto il mondo, da gravi disparità di trattamento, con sopraffazione e dominio maschili. Tale situazione perdura oggi anche nel mondo occidentale, teoricamente egualitario. In Italia, per esempio, si va dal minore stipendio a parità di mansione fino agli abusi, alle violenze sessuali e alle uccisioni, il cui numero non accenna a diminuire. Se spostiamo lo sguardo, troviamo diffusissima in tutto il mondo quella che l’antropologa francese Françoise Héritier (1996) ha definito la “valenza differenziale dei sessi”, cioè l’attribuzione di un maggiore valore al sesso maschile, che si traduce in supremazia su quello femminile, codificata a livello giuridico e religioso. Tutto questo nei confronti non di una minoranza, ma di metà della popolazione umana.

Le differenze di valutazione e di trattamento sono in genere spiegate con il perdurare della cultura patriarcale. Questa interpretazione non riesce a spiegare perché il modello patriarcale dell’uomo dominante e della donna subordinata sia così ampiamente diffuso in culture diverse e in tempi storici e luoghi molto differenti. Essa si fonda, inoltre, sull’implicito presupposto che l’essere umano sia influenzato solo dalla cultura, dimenticando due evidenze. La prima è che noi siamo dei mammiferi – se pure dotati di particolarissime caratteristiche cognitive e sociali – con un corpo e un cervello che sono il risultato di una lunga evoluzione filogenetica; in concreto, ciò significa che abbiamo delle disposizioni biologiche –non rigide predeterminazioni al comportamento – che non possono essere ignorate. La seconda evidenza riguarda la cultura stessa, che è il frutto delle specifiche capacità del cervello e della mente umana. Quest’ultima emerge, con modalità sconosciute, da un cervello che si è plasmato nel corso di una lunga storia filogenetica; è stato lo sviluppo della neocorteccia a rendere possibili il pensiero, la parola e l’autocoscienza, consentendo agli esseri umani di comunicare tra loro e di elaborare idee che sono diventate patrimonio di una comunità, poiché potevano essere trasmesse in forma orale, e in seguito anche in forma scritta, superando i limiti di spazio e di tempo. Di conseguenza la cultura, nata dalle potenzialità del cervello umano, è diventata uno strumento di adattamento che non solo si affianca alle disposizioni biologiche ma interagisce continuamente con esse, contribuendo a plasmare il cervello e la mente di ognuno di noi. Ne deriva che le influenze culturali, in continuo divenire, non possono essere considerate in modo separato e isolato da quelle biologiche: occorre invece studiare le reciproche interazioni tra patrimonio biologico e patrimonio culturale, tra natura e cultura, senza riduzionismi di alcun tipo. Occorre inoltre ricordare che il singolo individuo non è il risultato meccanico dell’interazione tra influenze biologiche e influenze culturali; egli, grazie alle capacità di autocoscienza e riflessione su di sé, contribuisce con le proprie scelte e comportamenti a plasmare il proprio cervello e la propria mente.

Da quanto detto deriva che i comportamenti di svalutazione e dominanza degli uomini sulle donne non possono essere spiegati facendo riferimento solo alla cultura, o viceversa solo al patrimonio biologico. Occorre superare le semplificazioni e prendere atto della nostra realtà di mammiferi molto speciali, dotati di un corpo e di un cervello, ma anche di capacità simboliche e di cultura; le relazioni tra uomini e donne vanno quindi studiate nella complessità delle interazioni tra influenze biologiche e culturali. È un compito molto ampio e appena avviato, ma oggi siamo già in grado di delineare un quadro sufficientemente fondato, sulla base di conoscenze scientifiche che ci provengono da discipline diverse (per approfondire: Bonino, 2019).

L’evoluzione della socialità umana e delle relazioni tra uomini e donne

Per comprendere la socialità umana – di cui la diffusa svalutazione e la dominanza degli uomini sulle donne è un aspetto – partiamo dunque dal corpo e dal cervello, realtà che sovente sono prese in minore considerazione o addirittura negate, ma che sono comuni a tutti gli appartenenti alla specie umana. Come è ormai assodato (Blundo e Ceccarelli, 2011), il cervello umano è il risultato di una lunga evoluzione filogenetica, che parte dai primi vertebrati (i rettili), prosegue con i mammiferi primitivi e poi con i neomammiferi, cui la specie umana appartiene. Di conseguenza, nel nostro cervello coesistono tre livelli, corrispondenti a diverse fasi di progressione filogenetica: strutture con origini molto arcaiche (cervello rettiliano) coesistono con altre più recenti (cervello limbico o emotivo, comparso con i protomammiferi) e con altre recentissime (neocorteccia, comparsa con i neomammiferi e massimamente sviluppata nella specie umana). La dominanza degli uomini sulle donne è riconducibile alle disposizioni biologiche sedimentate nella parte più arcaica del nostro cervello come possibilità, non certo come istinto o determinazione al comportamento. Nei rettili le interazioni sociali tra i sessi sono limitate al momento dell’estro, in funzione della riproduzione, e sono caratterizzate da aggressione nei maschi e da paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione privo di qualunque relazione individualizzata. Questo tipo di relazione è stato superato nel corso della filogenesi: esso non è specifico degli esseri umani e non è più per noi adattivo.  La nostra specie infatti ha sviluppato un’ampia gamma di capacità di socialità positiva, che sono comparse nella filogenesi con il cervello emotivo e si sono poi ampliate enormemente con lo sviluppo della neocorteccia. Si tratta delle capacità di stabilire relazioni individualizzate e personali, legami di attaccamento, sintonia emotiva, cooperazione e altruismo; esse si sono sviluppate a partire non dalla sessualità ma dalla relazione tra la madre e la prole, e si fondano su specifiche disposizioni alla relazione sociale che sono universali e precocissime (per approfondire: Bonino, 2012). Esse sono presenti in tutti gli appartenenti alla specie umana (come le espressioni emotive di base) e fin dalle primissime fasi della vita (come l’imitazione e il contagio emotivo, fondato sui neuroni specchio, precursori dell’empatia vera e propria). Queste disposizioni permettono l’identificazione dell’altro o dell’altra come essere uguale a sé, in cui specchiarsi e ritrovare la stessa comune umanità, indipendentemente dal sesso. Questa identificazione primaria può essere rafforzata dal pensiero, e quindi dalla cultura, capaci di elaborare e trasmettere idee di uguaglianza; essa può, però, anche essere inibita quando questi sviluppano idee di disuguaglianza, che giustificano la dominanza rettiliana primitiva a favore del potere maschile.

Per quanto riguarda in senso stretto la sessualità, questa si è disgiunta nel corso della filogenesi dalla connessione con l’aggressione nei maschi e con la paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. La sessualità si è congiunta sempre più alla capacità di stabilire legami personali fino a perdere nella nostra specie la sua funzione unicamente riproduttiva per diventare uno strumento al servizio del mantenimento della relazione affettiva. E’ così comparso l’amore sessuale, specifico degli esseri umani, nei quali l’esercizio della sessualità è del tutto sovrabbondante ai soli fini riproduttivi. Infatti non esistono specifici e riconoscibili periodi di estro e la disponibilità sessuale sia nei maschi sia nelle femmine è continua, in presenza anche di alcune modificazioni corporee che favoriscono l’attrazione sessuale (come il seno femminile) e il reciproco piacere sessuale. Questa trasformazione della sessualità umana è avvenuta per rispondere alle esigenze non solo di cura prolungata di una prole con un’infanzia lunghissima, che richiedeva l’impegno continuativo di entrambi i genitori e non solo della madre, ma anche per quelle di relazione affettiva degli esseri umani, dotati di altissima socialità e di un’articolata vita di gruppo con i propri simili. Ciò che è specifico degli esseri umani è quindi la capacità di stabilire relazioni personali paritarie e durature, che coniugano sesso e affetti, basate sul riconoscimento reciproco della comune e uguale umanità.

Esistono dunque in noi, come uomini e donne, disposizioni biologiche diverse e con differente valore adattivo. Quelle arcaiche primitive (aggressione e dominio nei maschi, sottomissione e paura nelle femmine) non sono proprie della nostra specie: nessuno può giustificare la violenza sessuale o il predominio maschile sulle donne invocando la “natura” umana, perché non è più quella la nostra natura. Di conseguenza, le disposizioni arcaiche non svolgono più alcuna funzione adattiva; al contrario, come la quotidiana esperienza ci mostra, creano solo sofferenza a livello individuale e sociale. Esse sono una zavorra che ci portiamo dietro, nel nostro cervello, da un antico passato filogenetico e che dobbiamo imparare non solo a controllare e a non sollecitare, ma anche a non giustificare e legalizzare.

Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono consapevolezza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie. Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità: sono queste che la cultura deve favorire per dare benessere. E sono queste che ogni individuo, mai in balia né della natura né della cultura, deve coltivare in se stesso, se vuole davvero esprimere e realizzare la sua umanità.

Le molte forme della dominanza maschile

Nel funzionamento unitario del cervello e della mente, le parti più arcaiche interagiscono con quelle più evolute; di conseguenza, cultura e disposizioni primitive si influenzano reciprocamente.   Cultura significa pensiero, vale a dire parole, sistemi simbolici, idee, ideologie, credenze religiose, costruzioni giuridiche, espressioni artistiche, tecnologia, e molto altro ancora. Può accadere che la cultura giustifichi e cerchi di rafforzare la primitiva supremazia del maschio sulla femmina, a danno delle disposizioni egualitarie più evolute e recenti. In questi casi, il pensiero mette le proprie sofisticate modalità di funzionamento al servizio non delle predisposizioni alla socialità positiva, proprie della nostra specie, ma della sopraffazione primitiva; ciò avviene allo scopo di perpetuare il dominio di alcuni uomini, o di alcuni gruppi di uomini, sulle donne. E’ quindi nell’alleanza tra pensiero, cultura e tendenze primitive di dominio, che si favorisce e si rafforza in modo forte e stabile la prevaricazione degli uomini sulle donne; si determina infatti un giro vizioso in cui il pensiero e la cultura sostengono le tendenze preumane arcaiche e queste ultime, anziché venire inibite e controllate a vantaggio di quelle egualitarie, prevalgono.

Quest’alleanza prende forme diverse nelle varie culture e nei vari tempi storici. Essa emerge nelle forme più brutali di dominanza maschile primitiva, quando si impone la volontà sessuale maschile a una donna, sottomessa con la forza fisica. In questo tipo di sopraffazione sembrerebbe essere in gioco solo l’attivazione della parte più primitiva del cervello maschile, con un prevalere cieco e incontrollato della disposizione biologica arcaica per carenza di controllo dell’impulsività. In realtà anche la cultura ha un ruolo importante, sia perché offre stimoli (come la pornografia) che possono favorire l’emersione di modalità primitive di sessualità predatoria, sia perché sovente giustifica il violentatore, anche nelle sentenze di tribunale, attribuendo la colpa alla donna.

Altre forme di dominanza primitiva sono codificate dalla cultura di appartenenza, in particolare dai sistemi giuridici. E’ facile riconoscere questa dominanza nelle svariate leggi che oggi, in diverse parti del mondo, impongono la segregazione delle donne, la loro subordinazione giuridica al maschio (padre, fratello, marito), il divieto di istruzione, l’imposizione di un vestiario che le occulta. E’ invece più difficile identificare le forme di prevaricazione maschile primitiva nella cultura occidentale, che riconosce formalmente, a livello giuridico, l’uguaglianza di uomini e donne. Eppure sono molte le forme di dominio accettate e intellettualmente giustificate con svariati ed elaborati argomenti. Una delle più diffuse, antiche e persistenti, è la prostituzione, che proprio per il suo intrinseco carattere di dominanza è stata definita “stupro a pagamento”. Oltre a essere accettata come inevitabile o regolamentata per legge, oggi essa viene giustificata da alcune correnti di pensiero come semplice “lavoro sessuale”, al pari di qualunque altra prestazione lavorativa retribuita (per approfondire: Pazé, 2023). Oppure viene rivendicata come liberazione della sessualità femminile, dimenticando che la sessualità umana si è evoluta come relazione individualizzata tra persone uguali, frutto di una libera scelta e caratterizzata dal mutuo coinvolgimento emotivo di entrambi partner. In queste interpretazioni ancora una volta il pensiero elabora teorie al servizio della dominanza maschile primitiva.

Tra le forme più recenti di dominanza maschile c’è la pratica dell’utero in affitto da parte delle coppie omosessuali. Di fronte all’intrinseca impossibilità biologica, per due maschi, di concepire un embrione e di condurre una gravidanza, si ricorre all’inseminazione di una donna utilizzata come gestante; alla nascita, questa dovrà per contratto cedere il neonato ai committenti. La pratica è resa possibile dalla tecnologia, quindi ancora una volta dalla cultura e dal pensiero, i quali vengono inoltre utilizzati per elaborare giustificazioni concettuali volte a legittimarla. Il tentativo di rendere accettabile tale pratica passa anche attraverso il linguaggio – strumento culturale per eccellenza – con l’uso di termini meno crudi, come “gestazione per altri” o addirittura “gestazione altruistica”. Anche quando è una coppia eterosessuale a ricorrere a questa pratica, si tratta sempre dell’esercizio del dominio maschile primitivo sul corpo femminile da parte di chi ha un potere economico schiacciante. In questi casi, la donna acquirente soggiace ai modelli di comportamento maschili e li fa propri, grazie alle giustificazioni che la mente umana è in grado di costruire.

In tutte queste forme di riproposizione in chiave moderna dell’arcaica dominanza maschile, il pensiero svolge un ruolo decisivo: esso veicola posizioni ideologiche storicamente consolidate, di cui garantisce il mantenimento, e allo stesso tempo ne costruisce di nuove, che possono diventare parte del bagaglio di una cultura. E’ sempre il pensiero che giustifica, legittima, trova spiegazioni, argomenta sulla normalità del dominio maschile, spesso con l’acquiescenza delle donne, non sempre consapevoli del loro atteggiamento di sottomissione. Paradossalmente, è la manifestazione ritenuta più elevata, distintiva, nobile e creativa della nostra mente (il pensiero), che emerge dalla parte più evoluta del nostro cervello (la neocorteccia), a fare i maggiori danni, alleandosi con le parti più primitive di noi, nell’interesse di alcuni uomini che difendono così il proprio potere di dominio sulle donne.

 

Prendere consapevolezza

Per superare questa situazione credo si debba prendere atto, anzi tutto, che abbiamo un corpo, realtà che non possiamo ignorare: negarne l’esistenza non ci aiuta risolvere i problemi di rapporto tra uomini e donne e non ci aiuta a trovare un maggiore benessere, che sarebbe invece possibile raggiungere, viste le nostre disposizioni di socialità positiva, biologicamente radicate. Di conseguenza, occorre superare le forti resistenze sia degli uomini sia delle donne, nella nostra cultura, a riconoscere le disposizioni biologiche primitive, per prendere consapevolezza della presenza di tendenze arcaiche di dominanza aggressiva nei primi e di sottomissione paurosa nelle seconde. Riconoscerle è il primo passo per non favorirle con il pensiero e la cultura. Infatti, prendere consapevolezza non significa giustificare, ma al contrario combattere meglio i rapporti di dominanza e sottomissione, svelando ciò che nella cultura e nell’esercizio del pensiero si allea con le nostre disposizioni arcaiche e disadattive e non con quelle all’uguaglianza, alla condivisione emotiva, alla cooperazione e all’altruismo. Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono coscienza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie.

Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità, di socialità positiva, di relazioni sessuali e affettive paritarie; dobbiamo quindi impegnarci perché la cultura si allei con queste e non con le tendenze al dominio aggressivo degli uomini sulle donne. Si tratta allora di lavorare, sia come individui sia come società, per una cultura che, interagendo con la nostra natura, favorisca l’emergere delle disposizioni sociative specificamente umane e in grado di far vivere bene sia gli uomini che le donne. E’ un compito che non avrà mai termine, poiché le disposizioni arcaiche non possono essere eliminate e tenderanno sempre a riproporsi in nuove forme e nuovi camuffamenti; esso ha però buone possibilità di successo, perché la nostra vera natura come esseri umani – questo lo possiamo dire con fondamento scientifico – non è quella dei rapporti di dominanza e sottomissione tra uomini e donne.

Silvia Bonino

 

 

Riferimenti bibliografici

Blundo C., Ceccarelli M. (2011). L’organizzazione gerarchico-funzionale del sistema nervoso centrale: lo sviluppo dei processi mentali. In C. Blundo. Neuroscienze cliniche del comportamento. Edra, Milano, pp. 89-121.

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Laterza, Roma-Bari.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza, Roma-Bari.

Héritier F.  (1996). Masculin/Féminin. La pensée de la différence. Odile Jacob, Paris (trad. it. Maschile e femminile. Il pensiero della differenza. Laterza, Roma-Bari 1997).

Pazé V. (2023). Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato. Boringhieri, Torino.

Follemente corretto (17) – Musica razzista?

16 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Chissà che cosa penserebbe Claude Debussy, uno dei più grandi compositori francesi di sempre, se per miracolo rinascesse oggi a New York. Scoprirebbe in tal caso che la prestigiosa Special Music School di New York, che offre un insegnamento musicale intensivo durante l’intero percorso scolastico, nel 2021 ha invitato a depennare dai programmi due sue celebri composizioni per pianoforte, precisamente e Le petit nègre (1909) e Golliwog’s cakewalk, l’ultimo brano di Children’s corner (1906-1908).

La ragione?

In entrambe le composizioni sarebbero presenti “connotazioni razziste”. Gli insegnanti non dovrebbero più eseguirli, né assegnarli agli allievi.

“Questi due pezzi non sono più accettabili nel nostro paesaggio culturale e artistico. Noi vogliamo rendere la Special Music School un posto in cui tutti gli studenti si sentano supportati, ed entrambi i pezzi hanno connotazioni razziste e superate. Fortunatamente il repertorio per piano è vasto – ci sono molte alternative”. E’ interessante notare che l’accusa non è rivolta a Debussy, ma alla sua musica. Ma come fa una musica, priva di un testo orale, ad essere definita “razzista”? Il comunicato della scuola non lo rivela, perciò mi sono messo a cercare, ed ecco i risultati.

Primo, le accuse sono decisamente recenti. A giudicare dalle date, si direbbe che il fenomeno sia successivo alla esplosione del movimento Black Lives Matter (sorto in seguito all’uccisione de George Floyd, nel 2020). Prima, nessuno aveva avuto niente da ridire.

Secondo, le accuse sono alquanto eterogenee, come se, non riuscendo a cogliere il punto, si provasse a sparacchiare un po’ qua e un po’ là. Vediamole.

  1. Nazionalismo. “Durante la prima guerra mondiale Debussy firmava le sue composizioni, ‘Claude Debussy’, musicista francese”, per marcare la sua distanza da altre nazionalità, in particolare dalla Germania. In questo senso era virulentemente nazionalista, e quindi, in base agli standard odierni, un razzista”.
  2. Appropriazione culturale. Tecnicamente, entrambi i brani incriminati risentono dell’influenza del Ragtime (precursore del jazz), nato dalla musica afroamericana di fine Ottocento, che Debussy aveva avuto modo di conoscere all’esposizione universale di Parigi nel 1889.
  3. Le petit nègredescrive la danza, leggera e allegra, di un ragazzino di strada nero che balla a un ritmo incontenibile.
  4. Golliwog’s Cakewalk si ispira alla travolgente danza afroamericana del cake-walk,che si immagina ballata da Golliwog, celebre bambola nera protagonista di favole per bambini (Debussy ne aveva regalata una all’adorata figlia Chouchou).

Proviamo a estrarre la ratio dell’accusa di razzismo.

  1. Se l’autore di un brano musicale è un patriota, allora il brano è razzista.
  2. Se in un brano di un compositore europeo echeggiano tecnicalità di origine afroamericana, allora il brano è razzista.
  3. Se il soggetto di un brano è un ragazzino nero, allora il brano è razzista.

Ma i ragionamenti più contorti sono quelli dell’ultimo punto, che riguarda il Golliwog’s Cakewalk. Qui l’accusa di razzismo si appunta sulla “nerità” del cakewalk (una danza afroamericana che, in realtà, era nata per prendere in giro i bianchi), sia sulla “nerità” della bambola Golliwog, inventata nel 1895 dalla scrittrice per ragazzi Florence Kate Upton, e popolarissima fra i bambini europei e americani nei primi decenni del Novecento.

Ma perché un soggetto nero rende razzista la musica? Fondamentalmente perché l’anti-razzismo è una forma di pensiero magico, che si dipana così:

– l’autore X dell’opera Z usa il simbolo Y (bambolina nera), che nella sua epoca ha un significato positivo, o neutro;

– successivamente, in altri contesti e da parte di altri soggetti, compaiono anche alcuni usi negativi del simbolo Y;

– il significato negativo di Y viene trasferito retroattivamente sull’opera originaria Z e da lì sul suo autore X, che – da quel momento – diventa ideologicamente “radioattivo”, intoccabile, da cancellare.

Alla faccia dei discorsi sul dovere di includere e sul dialogo fra culture.

Follemente corretto (16) – La cryptonite rosa

9 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Da ragazzino ero un appassionato lettore di Superman, che in realtà allora si chiamava Nembo Kid. La cosa che più mi atterriva, nelle storie di Nembo Kid, era la possibilità che qualche nemico malvagio, tipo Luthor o Brainiac, lo attirasse in una trappola e lo facesse indebolire, o addirittura morire, esponendolo alla kryptonite verde. Gli altri tipi di kryptonite (rossa, dorata, bianca) mi spaventavano di meno, perché i loro effetti  erano meno drammatici.

Mai avrei pensato, allora, che in futuro il mio eroe avrebbe potuto incontrare la cryptonite rosa, che trasforma un eterosessuale in omosessuale, come nel 2003 è accaduto sul numero 79 di Supergirl (la “ragazza d’acciaio”, versione femminile di Superman). Ma ancor meno avrei immaginato che, un giorno, gli autori del celebre fumetto avrebbero disegnato un superman gay, che fa coming out con il giornalista hacker dai capelli rosa Jay Nakamura, e lo fa motu proprio, perché così gli detta il cuore, non perché è venuto in contatto con un pezzo di kryptonite rosa, che capovolge l’orientamento sessuale a prescindere dalla volontà del diretto interessato.

Per me sarebbe stato come Giovanna d’Arco che diventa casalinga, Napoleone che fa il pastore di pecore o, per metterla in termini attuali, Gesù Cristo che partecipa a X-factor, o Putin che distribuisce piatti caldi con la Caritas.

Ora però sono cresciuto, non leggo più Superman, faccio il sociologo. E mi limito a chiedermi: perché? perché gli autori hanno scelto di snaturare Superman?

Intanto bisogna dire che, in realtà, nemmeno i progressistissimi autori di Superman  hanno osato dare un partner maschio a Superman, emblema della virilità. Per regalare un amore omosessuale al supereroe di Krypton hanno prudentemente scelto suo figlio Jon, anche lui dotato di ultrapoteri, ma sensibile e delicato, ben più sintonizzato del padre con i grandi temi del nostro tempo: riscaldamento globale, problema dei rifugiati, violenza nelle scuole.

Ma torniamo alla domanda: perché cambiare l’orientamento sessuale di Superman?

La prima risposta che viene in mente è che il mondo è cambiato, l’omosessualità non è più tabù, e le case produttrici di film, cartoni e graphic novel vogliono stare al passo con i tempi. Anzi, in un certo senso vogliono radicalizzare e precorrere i tempi, amplificando le tendenze in atto. Basti pensare che, solo fra le due case produttrici Marvel e Dc Comics (quella di Superman, Batman e Wonder Wooman), si contano più di 150 supereroi Lgbt. Insomma, quella di lanciare un Superman gay o bisessuale sarebbe una scelta culturale, o politico-culturale.

In realtà le cose sono assai più prosaiche. La creazione di un super-eroe gay risponde innanzitutto a una logica economica. Da tempo le case creatrici di supereroi, per contrastare la perdita di pubblico degli eroi “universali” alla Superman, puntano sulla differenziazione dell’offerta, cercando di offrire alle varie nicchie del mercato supereroi su misura. E’ così che, per allargare il pubblico degli utenti, sono stati ideati vari Superman cinesi e neri, e sono stati “sessualmente riconfigurati” classici come Batman e Robin, Batwooman, Wonder Wooman.

Il caso di Jon, figlio di Superman, protagonista di una storia di amore omosessuale, rientra in questa casistica. E rivela la matrice commerciale dell’operazione: la nuova serie non è piaciuta ai lettori e, di fronte al calo delle vendite, la Dc Comics (ideatrice del Superman gay), non ha esitato a interrompere le pubblicazioni.

A quanto pare, il buon vecchio Marx ci aveva visto giusto: la struttura (economica) è più importante della sovrastruttura (culturale).

Le due facce della diseguaglianza

8 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoSocietà

Che le diseguaglianze siano molto aumentate negli ultimi anni è nozione di senso comune. Alcune statistiche ufficiali sembrano supportare questa percezione: la percentuale di famiglie in condizione di povertà assoluta, ad esempio, è più che raddoppiata negli ultimi 15 anni. Se però, anziché rivolgerci alle statistiche della povertà, ci rivolgiamo a quelle della distribuzione del reddito, il quadro che emerge è molto più sfumato. L’indice di concentrazione del reddito di Gini (una statistica di cui esistono molte varianti) conferma che siamo uno dei paesi europei più diseguali, ma non mostra una chiara e univoca tendenza all’aumento della diseguaglianza. Alcuni studi rivelano anzi che il grado di diseguaglianza attuale è minore di quello degli anni ’70, e che gli interventi redistributivi attuati in questi anni di pandemia hanno attenuato il grado complessivo di diseguaglianza.

Come stanno dunque le cose? Perché una parte delle statistiche pare in conflitto con le nostre percezioni?

Un primo ordine di ragioni è che l’indice di diseguaglianza e quello di povertà assoluta misurano fenomeni diversi. Una crescita della quota di famiglie in povertà assoluta può benissimo non accompagnarsi a un aumento del grado di diseguaglianza. Un’eventualità del genere, ad esempio, può verificarsi se il potere di acquisto di tutti i ceti si abbassa nella medesima misura, facendo precipitare le famiglie più povere sotto la soglia (assoluta) di povertà. O se l’aumento della distanza fra ceti bassi e ceti medi è compensato da una diminuzione della distanza fra ceti medi e ceti alti.

Ma la vera origine dello scarto fra le nostre percezioni e le statistiche della concentrazione del reddito sta in una nostra confusione. Una sorta di spiazzamento temporale. Noi continuiamo a pensare i problemi della diseguaglianza con gli occhiali della prima Repubblica, e non abbiamo ancora ben compreso come le cose hanno iniziato a funzionare nella seconda, ossia dopo il 1992-1993. La differenza cruciale fra i due periodi è che solo nel primo c’erano larghi margini per assicurare processi di mobilità assoluta, o strutturale: da contadini si diventava operai (anni ’50 e ’60), e poi da operai impiegati (anni ’70 e ’80), per la semplice ragione che lo stock di posizioni sociali “pregiate” era in aumento, e quello delle posizioni sociali marginali era in diminuzione. Di qui un flusso di transizioni ascendenti, cui corrispondeva un flusso di transizioni discendenti molto minore, in quanto era la struttura stessa dell’occupazione a evolvere in modo sempre più generoso. Di qui, anche, la sensazione di un pieno funzionamento del cosiddetto ascensore sociale.

Nella seconda Repubblica non è più così, e per forza di cose: la struttura occupazionale offre un mix di posizioni alte, medie e basse sostanzialmente stazionario, senza una significativa formazione di posti pregiati aggiuntivi. E, se le caselle da occupare sono più o meno le stesse, con i medesimi privilegi e i medesimi handicap, il grado di diseguaglianza complessiva non può variare granché. La competizione sociale diventa un gioco a somma zero: per ogni ragazzo che sale nella scala sociale rispetto ai suoi genitori, deve essercene uno che scende. Addio ascensore sociale, se per ascensore sociale intendiamo quel che abbiano sempre inteso: un mondo di opportunità, in cui la mobilità verso l’alto prevale nettamente rispetto a quella verso il basso.

In queste condizioni, l’unico tipo di eguaglianza concepibile diventa l’indipendenza del destino sociale di ogni ragazza o ragazzo dalle condizioni familiari di origine. I sociologi parlano in questo caso di mobilità relativa perfetta: c’è mobilità perfetta quando, pur rimanendo la struttura sociale quella che è, il figlio dell’operaio e quello del dirigente hanno le medesime possibilità di raggiungere posizioni elevate. Il che implica logicamente che, per ogni figlio di operaio che sale, dovrà esserci un figlio di dirigente che scende. Quanto si sia lontani da questa situazione teorica, è cosa che si vede ad occhio nudo. E spiega perché, nonostante le statistiche ci dicano che il grado di diseguaglianza è abbastanza stabile, la nostra impressione è di vivere in una società sempre più diseguale. Il fatto è che noi pensiamo l’eguaglianza in termini di pari opportunità, e constatiamo ogni giorno che, anche grazie al fallimento del sistema educativo, siamo sempre più lontani dalla situazione ideale.

Ma è solo questo cui aspiriamo quando parliamo di eguaglianza? Soprattutto, è solo questo che abbiamo in mente quando rimpiangiamo i tempi dell’ascensore sociale?

Non credo proprio. Quel che rimpiangiamo è un tempo in cui erano le opportunità a crescere, il che permetteva a molti di salire senza che fossero in troppi a scendere. Quel che dobbiamo chiederci, allora, è che cosa rendeva tutto questo possibile. O, se preferite, che cosa, nel passaggio fra prima e seconda Repubblica, ha alterato così radicalmente il gioco della mobilità sociale.

Ebbene, la risposta è di una sconcertante banalità: quel qualcosa è il trend del Pil e della produttività che, dopo essere cresciuti vigorosamente per tre decenni, dopo il 1992-93 sono rimasti al palo. L’ascensore sociale richiede aumento dei posti pregiati, e l’aumento dei posti pregiati, a sua volta, richiede che l’economia cresca, almeno nel medio periodo. È prosaico, ma senza un ritorno della crescita anche i problemi della diseguaglianza avranno ben poche chance di fare passi avanti significativi.

Follemente corretto (15) – C’è cane e cane

7 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Non so se avesse ragione Umberto Eco a parlare di Ur-Fascismo, o Fascismo eterno. Probabilmente gli era un po’ scappata la mano: dei 14 tratti del fascismo individuati da Eco, 10 non sono più rintracciabili in Italia, e 4 non sono specifici del fascismo. Però sul fatto che il tema del fascismo sia sempreverde, in libreria come sui quotidiani come su internet, non ci sono dubbi. Se non vi fosse questo permanente interesse-curiosità-ossessione degli italiani, non uscirebbero a getto continuo libri su Mussolini e sul Ventennio.

Ossessione degli italiani?

Non esattamente. Ho scoperto di recente, girando sul web, che nel dibattito sono coinvolti anche i cani. E da un bel po’ di anni. Ci sono innumerevoli video di cani che, all’ordine “saluta il Duce”, fanno il saluto romano con la loro zampa destra. Ogni video ha decine di migliaia di visualizzazioni (mai come i cani nazisti, che nel Regno Unito e in Germania pare arrivino anche a 2-3 milioni di visualizzazioni).

Ma non basta. Il cane fascista, da anni, turba i pensieri della sinistra, dei sinceri democratici, dei partigiani, dell’antifascismo tutto. Già nel 2016, ad Albenga, un pastore tedesco antidroga, che doveva essere acquistato dalla Polizia Locale, ha incontrato la fiera opposizione del sindaco Pd della città, della Cgil, e persino delle associazioni dei partigiani. Il motivo: il cane, anzi la cagna, pastore tedesco di 9 mesi, ha la ventura di chiamarsi Olimpia Decima Mas.

Due anni dopo, nel 2018, la medesima fiera opposizione, con tanto di interrogazioni in consiglio comunale, ha incontrato a Monza un altro cane, il cui nome era Narco della Decima Mas. La parola Decima Mas è stata sufficiente a far scattare il riflesso pavloviano antifascista. Se un cane si chiama Decima Mas, non può che essere stato allevato nella venerazione della decima Flottiglia Mas (l’unità della Marina Italiana che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, fece parte del corpo militare della Repubblica di Salò e collaborò attivamente con le forze armate tedesche in Italia settentrionale).

Si scoprirà poi che molti cani poliziotto in dotazione a vigili e forze dell’ordine hanno quel cognome (Decima Mas) semplicemente perché Decima Mas è il nome di uno dei migliori allevamenti per l’addestramento dei cani, e il nome dell’allevamento viene automaticamente incluso – come una sorta di cognome – nel pedigree di ogni cane poliziotto.

Ma qual è l’origine del nome dell’allevamento? Lo spiega il titolare dell’allevamento stesso, situato ad Agugliano, in provincia di Ancona: “Tanti anni fa quando ha preso vita questa struttura inviai all’Enci (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) tre possibili nomi: di Vallechiara, di Chiaravalle e Decima Mas. I primi due vennero esclusi perché simili ad altri e mi diedero l’ok sull’ultimo. Tutto qui”.

E mestamente aggiunge: “non capisco come si possa far polemica su degli animali che sono addestrati anche per salvare vite, per scavare tra le macerie causate da terremoti e calamità naturali e che sono spesso utilizzati per combattere lo spaccio di stupefacenti”.

Non sappiamo con sicurezza perché, fra i tre nomi, vi fosse anche Decima Mas, pare perché un lontano parente ne aveva fatto parte. Ma è rilevante? Se anche il titolare, che si dichiara apolitico, fosse nostalgico della Repubblica Di Salò, questo renderebbe fascisti i suoi cani? Dunque anche i cani, in questo strano paese, si dividono in fascisti e anti-fascisti?

Pare di sì, se basta un nome – anzi un cognome – a mobilitare il Pd, la Cgil, i partigiani. Lo sanno bene i videomaker che mettono su youtube i loro video beffardi, con cagnolini addestrati ad alzare la zampa destra al comando “saluta il Duce”. Come Andrea V., più di 12 mila visualizzazioni, che spera di evitare guai specificando: “il video è solo a scopo ludico e non ha finalità politiche”.

Salvo aggiungere, quasi a rassicurare sé stesso: “il cane credo non sia veramente fascista”.

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