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L’estate del nostro sconcerto

1 Agosto 2022 - di Luca Ricolfi

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1Ora, come previsto, la curva dei contagi comincia seppur debolmente a scendere. Un timido buon segnale per la nostra estate arroventata non solo dal caldo. Ma intanto, dopo mesi di inerzia, le autorità sanitarie hanno deciso di riaprire la campagna vaccinale, suggerendo di estendere la quarta dose alla fascia 60-80 anni, anziché riservarla ai soli fragili o ultra-ottantenni. Così, ci troviamo ancora una volta in bilico, tra paura e speranza, ognuno solo con se stesso a decidere la strada.

I sentimenti che registro più frequentemente tra le persone che hanno ancora voglia di parlare di Covid – e non solo di guerra, inflazione, inverno al freddo, caduta del governo, elezioni – sono di delusione e di sconcerto.

Delusione, perché si comincia a capire che la promessa di una vaccinazione annuale, periodica e aggiornata alle nuove varianti, non è stata mantenuta, almeno per ora. E anche perché, con l’arrivo della cosiddetta variante Centaurus, di nuovo siamo in balia dell’ignoto; ed è possibile che ci verrà prospettata una quinta dose nella stagione fredda, quando sarà emerso che la protezione della quarta dose, come di tutte le precedenti, dura solo pochi mesi.

Ma anche sconcerto. Uno sconcerto che deriva dalle tante cose che non si capiscono nella gestione di questa pandemia. Non si capisce, ad esempio, perché il medesimo numero di casi (o di morti, o di ospedalizzati), in certi momenti sia fonte di allarme e in altri no. Non si capisce perché i medesimi esperti che ieri ci avvertivano che non è  bene sollecitare troppe volte il sistema immunitario, ora propugnano la quarta dose subito, anche per gli ultrasessantenni. Non si capisce perché, fino a pochi mesi fa, dovevamo assolutamente vaccinare i bambini per evitar loro il Long Covid, mentre ora si dice “lasciamo che il virus circoli fra i giovani”, come se il Long Covid non esistesse più. Non si capisce perché fino a ieri ci assicuravano che ogni autunno avremmo avuto un vaccino aggiornato, e ora a chi dice che vuole aspettare il suo arrivo si risponde che è inutile, perché anche quello si baserà su varianti che non ci saranno più. Non si capisce perché a giugno ci abbiano fatto togliere le mascherine nei luoghi chiusi, e ora ci si stupisca che i morti, gli ospedalizzati, i ricoverati in terapia intensiva siano più che raddoppiati. Non si capisce qual è l’età al di sotto della quale i rischi del vaccino superano i suoi benefici. Non si capisce perché la politica considera inaccettabili mille morti all’anno sul lavoro, e accettabili 40 mila morti di Covid.

Certo, può anche darsi che alcune di queste domande siano stupide o ingenue, e che ci sia qualcuno che ha una risposta per tutte. Ma il punto non è questo. Il punto è che la cacofonia della discussione pubblica, e il disaccordo permanente fra gli esperti, queste domande le suscitano, seminando incertezze e dubbi. Compreso il dubbio più grande: che cosa succederà quest’autunno?

Nessuno lo sa, ma una cosa sappiamo con certezza: l’intervento più importante che andava attuato per frenare la circolazione del virus nella stagione fredda non è stato nemmeno avviato, e ormai non siamo in tempo utile (ci vorrebbero almeno 6 mesi, e l’autunno è alle porte). Spiace ripeterlo ancora una volta dalle colonne di Repubblica, ma – accanto a quella del vaccino – la via maestra per frenare il virus era la ventilazione meccanica controllata (VMC) degli ambienti chiusi.

Gli ingegneri dell’aria lo avevano dimostrato esattamente due anni fa sulle riviste scientifiche. L’opposizione lo ripete da un anno e mezzo. Una Regione italiana, prima nel mondo, l’ha sperimentato l’anno scorso nelle scuole. Gli statistici hanno provato che la VMC abbatte la circolazione del virus di un fattore 5 (più del vaccino). L’Oms, da qualche mese, si è finalmente convinta che la trasmissione del virus avviene anche per aerosol, e che la VMC è la strada giusta per frenarla. Lo stesso Parlamento italiano, all’inizio dell’anno, aveva impegnando il governo ad emettere entro un mese linee guida per la ventilazione. Ma di mesi ne sono passati quattro, e di quelle linee guida non c’è traccia.

Ora la crisi di governo e le imminenti elezioni rendono le cose ancora più difficili. E le scuole riapriranno a settembre: di nuovo DaD e mascherine in classe?

Possiamo solo sperare che il governo che verrà, prima o dopo le elezioni, riprenda in mano il dossier. Perché sapere di avere un’arma in più, diversa da vaccini e quarantene, ci restituirebbe un po’ di ottimismo per il futuro.

Luca Ricolfi

I punti deboli del centro-destra

31 Luglio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Che il centro-sinistra, dopo la rottura fra Pd e Cinque Stelle, si appresti alle elezioni in una situazione di grande difficoltà è evidente a tutti. Una eventuale coalizione Pd+Mdp+Azione+Italia Viva, allo stato attuale, intercetta circa il 30% dei consensi, decisamente poco per competere con il centro-destra, dato intorno al 45%.

Meno evidente, forse, è il fatto che anche per il centro destra la strada che porta alle elezioni è lastricata di difficoltà. Per parte mia ne vedo almeno quattro, dalla meno importante alla più seria.

La prima è la conflittualità interna nella scelta delle candidature e nell’assegnazione dei collegi sicuri. Le ultime tornate amministrative hanno reso evidente che, su questo terreno, i tre leader del centro destra hanno difficoltà a mettersi d’accordo, e qualche volta a trovare candidati convincenti.

La seconda difficoltà sono le tensioni sulla scelta del candidato premier. La regola da sempre in vigore nel centro-destra, secondo cui la scelta del candidato premier spetta al partito che raccoglie più voti, improvvisamente pare non valere più. Interrogati dai giornalisti, i politici (maschi) di Forza Italia e Lega tentennano di fronte alla prospettiva che la regola possa premiare Giorgia Meloni. Difficile pensare che questo nodo irrisolto non inquini i rapporti fra gli alleati.

La terza difficoltà è l’auto-inabissamento di Forza Italia con la decisione di togliere la fiducia al governo Draghi. Specie dopo l’uscita di Gelmini, Brunetta, Carfagna e Cangini, sarà estremamente difficile, per il partito di Berlusconi, conservare i consensi dell’elettorato liberale e moderato. E, simmetricamente, sarà facilissimo per il centro sinistra ridurre il centro-destra al duo “Salvini & Meloni”.

E poi c’è l’ultima difficoltà, la più importante: il programma. Su molte cose i tre partiti di centro-destra vanno relativamente d’accordo, ma ve n’è una – cruciale – su cui le idee di Berlusconi, Salvini e Meloni divergono sensibilmente: la politica fiscale. Berlusconi e Salvini sono per la flat tax, anche se la declinano in modo un po’ diverso, pro famiglie Berlusconi, pro partite iva Salvini. Giorgia Meloni no, anche se pochi paiono essersene accorti.

E’ da almeno otto anni che, sulla politica fiscale, le idee di Giorgia Meloni divergono radicalmente da quelle di Berlusconi e Salvini. Lo ha fatto capire nell’ultima campagna elettorale (2018), quando – per non scontentare gli alleati – accettò di includere la flat tax nel programma di Fratelli d’Italia, ma solo limitatamente al “reddito incrementale” (ovvero sull’eventuale, improbabile, aumento del reddito da un anno all’altro). Ma lo aveva già reso chiarissimo nel 2014, quando trasformò in disegno di legge una proposta della Fondazione Hume (denominata maxi-job) che prevedeva di azzerare i contributi sociali alle sole imprese che aumentano l’occupazione. Una proposta così “di sinistra” da ricevere il sostegno di Susanna Camusso, allora al vertice della Cgil.

Aggiungo un ricordo personale. Tre anni fa ebbi occasione di intervistarla in tv nel programma di Nicola Porro e, per stanarla sulla questione fiscale, le sottoposi una sorta di domanda trabocchetto: se lei avesse risorse per 10 miliardi, e dovesse usarle per varare un’unica misura fiscale, preferirebbe detassare le famiglie, detassare tutte le imprese, o concentrare gli sgravi sulle sole imprese che aumentano l’occupazione?

Risposta: non avrei il minimo dubbio, metterei tutte le risorse sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Se le cose stanno così, è chiaro che sulla politica fiscale si gioca una partita cruciale. Se dovesse prevalere la linea di Giorgia Meloni, la politica fiscale del centro-destra potrebbe forse essere criticata da sinistra, ma non attaccata frontalmente. Non è neppure escluso che i sindacati ne colgano il lato keynesiano, di strumento di contrasto alla disoccupazione.

Ma è un’eventualità improbabile. Molto più verosimile è che Berlusconi e Salvini impongano a tutto il centro-destra la ricetta di sempre: flat tax + pace fiscale. Questo, a mio parere, è un tallone di Achille notevole, e un assist al centro-sinistra. Perché le (poche) buone ragioni dell’aliquota unica e della clemenza fiscale si possono anche difendere, con qualche sottigliezza tecnica, in un seminario fra esperti di opposte vedute, ma sono destinate a trasformarsi in un boomerang in una campagna elettorale. Dove, inesorabilmente, la ferrea logica della comunicazione politica traduce flat tax in “aiutare i ricchi” e pace fiscale in “premiare gli evasori”.

Luca Ricolfi

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 10. Analisi ex-post

14 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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Se i precedenti nove tipi di distorsioni si riferiscono alle procedure e alla corretta formulazione del questionario utilizzato in un sondaggio, in quest’ultimo bias diventa rilevante il ruolo del ricercatore, nel momento in cui compie l’analisi dei dati raccolti e ne comunica i risultati. È proprio la scelta delle modalità attraverso cui analizza le risposte che gli giungono dalle interviste a diventare dirimente, poiché le sue scelte possono far mutare completamente il senso e la direzione dei risultati che vengono successivamente comunicati ai media.

Per capire la portata delle conseguenze che possono avere le scelte del ricercatore, prendiamo in considerazione una delle stime che vengono realizzate e comunicate più frequentemente: la popolarità o la fiducia in un leader politico, ovvero nel governo o nel premier. Esistono ovviamente molti modi per “misurare” la popolarità, ad esempio, di un capo dell’esecutivo e, come si è detto nel precedente punto 8 (l’errore di indicazione), non potremo mai sapere quale sia la modalità migliore da proporre agli intervistati. Nel nostro paese molti Istituti di ricerca utilizzano a questo scopo la ben nota “pagella”, con la seguente formulazione (o altre simili): “Quanta fiducia ha nel Presidente del Consiglio, su una scala da 1 a 10?”.

La modalità più diffusa per analizzare e comunicare le risposte a questa domanda è quella di prendere in considerazione la percentuale delle valutazioni positive, da 6 a 10 dunque. È una scelta corretta? Pensiamo ad una situazione simile, o parallela: un fidanzato chiede alla fidanzata quanta fiducia ha in lui o quanto lo ama, da 1 a 10, e la fidanzata risponde 6. Un motivo per lasciarla immediatamente, un amore non può rimanere in piedi con un livello attrattivo così contenuto. Anche un 7 non darebbe forse la possibilità di costruirsi un futuro insieme. I voti realmente positivi, che danno una buona speranza per il proseguimento del rapporto, vanno da 8 a 10, questo è certo.

La scelta cruciale anche per il ricercatore riguarda dunque quale sarà il voto minimo da prendere in considerazione, sei sette o otto, con conseguenze evidenti sul risultato che viene comunicato ai media. In un recente sondaggio su Mario Draghi, utilizzando tutti i voti positivi, il livello di fiducia degli italiani nei suoi confronti risultava pari al 60%; considerando i voti da 7 a 10, la fiducia scendeva al 50%, mentre prendendo come base solo le valutazioni molto positive (da 8 a 10), si arrivava appena al 38%. Nessuna scelta è a priori scorretta, ma è immediatamente evidente che se si vuole sottolineare come Draghi non sia abbastanza apprezzato dalla popolazione, si opterà per la scelta più restrittiva, laddove si terrà in considerazione quella più ampia (tutti i voti positivi) volendo indicare al contrario un’ampia fiducia nel premier da parte degli italiani.

La discrezionalità della scelta del sondaggista appare dunque evidente, e non può venir superata dalla possibile comparazione con altri leader politici, come accade nelle analisi che riguardano la popolarità di questi ultimi, poiché il Presidente del Consiglio è uno solo e, al massimo, può venir confrontato con i suoi predecessori, cosa che peraltro non viene fatta quasi mai. Una soluzione che rende accettabile la scelta adottata (quella consueta è come detto di considerare tutte le valutazioni positive) consiste nel presentare, accanto al dato attuale, anche il trend della fiducia in lui nei mesi precedenti, per comprendere quanto meno se la sua popolarità sia in crescita o in calo.

Ma forse la scelta in assoluto ottimale sarebbe quella di suddividere i voti positivi in due fasce, quella molto positiva (da 7 a 10) e quella appena sufficiente (il voto pari a 6). Se la percentuale dei “6” fosse molto elevata, risulterebbe immediatamente evidente come quel personaggio venga valutato, in qualche modo, solo come “il minore dei mali”, ma senza un grande trasporto.

Nella presentazione degli esiti del sondaggio, infine, anche in questo frangente è consigliabile esplicitare sia il testo esatto della domanda posta che il tipo di elaborazione che è stato effettuato per giungere ai risultati esposti.

Paolo Natale

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

La sinistra non è minoranza

14 Luglio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Che la destra sia maggioranza nel paese, e la sinistra minoranza, sono in molti a sostenerlo. Da anni lo ripete polemicamente il centro-destra, e amaramente lo danno per scontato la maggior parte dei suoi avversari. Di qui la previsione di un’affermazione del centro-destra alle prossime elezioni politiche, che si terranno fra meno di un anno.

La realtà è che la previsione è verosimile, ma la sua base logica – la credenza che la destra sia maggioranza nel paese – è sostanzialmente errata. È perfettamente possibile che il centro-sinistra esca sconfitto dalle prossime elezioni, ma non per le ragioni che i suoi dirigenti amano accreditare.

La credenza in una superiorità elettorale del centro-destra si fonda su un artificio statistico, ossia quello di contare tutte le forze di destra, ma non fare altrettanto con quelle di sinistra, che includono anche i Verdi, Sinistra italiana e altre forze minori. Gli ultimi sondaggi, come peraltro quelli dei mesi scorsi, danno i due schieramenti in sostanziale pareggio, purché si includono nei calcoli tutti i partiti, e non solo i partiti più o meno ufficialmente alleati.

Perché, nel fare i conti, ci si dimentica quasi sempre delle forze minori di sinistra? Fondamentalmente perché o non sono al governo (è il caso dei Verdi e di Sinistra italiana), o non si sa se sono davvero di sinistra (è il caso di Italia Viva, Azione, +Europa). Ma è un errore logico, almeno finché l’obiettivo è sondare il polso dell’elettorato. Se quel che ci chiediamo non è se i partiti di sinistra si metteranno d’accordo, ma dove va il sentiment del paese, bisogna contare tutti. E il risultato è un sostanziale pareggio, non una netta prevalenza del centro-destra.

Perché, allora, la predizione di una vittoria del centro-destra alle prossime politiche è verosimile?

Per due ragioni del tutto diverse fra loro. La prima è che i veti reciproci fra le forze di centro-sinistra, e ora anche i dissidi con il movimento Cinque Stelle, hanno ottime chance di far naufragare il “campo largo” auspicato da Letta. La seconda è che il Pd di Letta (non diversamente dai Pd precedenti) si ostina a non prendere atto del dato sociologico fondamentale degli ultimi decenni: in tutti i principali paesi occidentali i ceti medio-bassi preferiscono la destra alla sinistra. Una tendenza che la crisi finanziaria del 2007-2013 e la simultanea stagione del terrorismo jihadista (attentati di Londra, Madrid, Berlino, Parigi, Bruxelles) non hanno fatto che rafforzare. È di lì che hanno preso vigore le spinte sovraniste e populiste, è di lì che è sorta la grande domanda di protezione che ha attraversato le opinioni pubbliche occidentali negli ultimi anni.

Questa domanda, a sinistra, è stata sostanzialmente ignorata (con la lodevole eccezione di Bersani, che dal 2016 batte sul chiodo: ricordate “la mucca nel corridoio”?). Anzi, ad essa il principale partito della sinistra ha risposto accentuando il proprio radicalismo in materia di diritti civili (vedi la rigidità sul Ddl Zan), anziché riscoprendo la “questione sociale”, che era stata la stella polare dei partiti progressisti durante la prima Repubblica. Una conferma, a quasi mezzo secolo di distanza, della profezia del filosofo Augusto del Noce, secondo cui il Partito Comunista prima o poi si sarebbe trasformato in un “partito radicale di massa”.

Il risultato è che, anziché aprire un grande e doveroso dibattito per rispondere alla domanda cruciale – perché i ceti popolari non ci votano più? – ci si balocca nella infondata credenza che la destra abbia già vinto le elezioni, perché così tira il vento nell’opinione pubblica.

No, non è così. Al momento i consensi alla sinistra non sono minori di quelli alla destra. Anzi, la sinistra ha un cruciale vantaggio: i suoi elettori, tendenzialmente benestanti, istruiti, urbanizzati (così rivelano le statistiche) hanno ben poche probabilità di passare a destra. Mentre l’elettorato popolare della destra ne ha molte di più di passare a sinistra, solo che la sinistra torni a occuparsi anche di problemi più concreti e materiali di quelli dietro cui è andata in questi anni. Il che, alla fine, vuol dire due cose sopra tutte le altre: creare nuovi posti di lavoro (si chiama protezione), e smetterla di offrire non-soluzioni al problema dell’immigrazione incontrollata (si chiama sicurezza).

È chiedere troppo

Luca Ricolfi

(www.fondazionehume.it)

Dieci buoni motivi per non credere (troppo) ai sondaggi – 9. Il “wording”

13 Luglio 2022 - di Paolo Natale

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Fa riferimento alle “parole” che si utilizzano nella formulazione delle domande di un questionario: la scelta di queste parole può determinare risultati di un sondaggio completamente diversi gli uni dagli altri. Uno dei primi e più famosi casi “esemplari” della distorsione introdotta dal wording, della possibile ambiguità cioè nel registrare le opinioni della popolazione, ci riporta a quanto avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam (un esempio per certi versi simile a quanto accade oggi rispetto al conflitto Russia-Ucraina): i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Attraverso la scelta di formulare una domanda in un certo modo, usando determinate parole, si potrebbe facilmente manipolare l’opinione pubblica, facendo intuire come la popolazione sia contraria, oppure favorevole, ad un aspetto della vita sociale o ad un avvenimento pubblico. Come dire: scegliendo le parole “giuste”, posso far dire al mio campione di intervistati, in certa misura, ciò che voglio che mi dica.

Ambiguità di questo genere possono avere conseguenze negative per un altro degli scopi principali per cui si effettua un sondaggio, quello cioè di rilevare la diffusione di uno specifico atteggiamento, non altrimenti quantificabile: il tipo di domanda che viene rivolta agli intervistati, al fine di “misurare” questo atteggiamento, può infatti dar luogo a risultati a volte speculari. Il seguente breve esempio, tratto da due sondaggi realmente effettuati, chiarisce bene i termini del problema.

L’obiettivo delle indagini era il medesimo: quantificare il livello di xenofobia presente nel nostro paese. Nel primo sondaggio, si chiedeva agli intervistati se li disturbasse la presenza di troppi immigrati in Italia: il 70% rispose affermativamente. Nel secondo sondaggio, venne invece chiesto agli intervistati se potessero mai prendere in considerazione la possibilità di sposare una persona immigrata: in questo caso il 66% rispose affermativamente.

Due risposte che, ad una lettura superficiale, sembrano rilevare due realtà antitetiche. Se il mio obiettivo è capire quanto sono xenofobi gli italiani, utilizzando la prima formulazione dovrei affermare che sono molto xenofobi, utilizzando la seconda formulazione dovrei giungere ad opposte conclusioni.

Nessuna delle due è di per sé scorretta; enfatizzano solamente due modalità (auto)percettive differenti: la prima ha a che vedere con la dimensione macro (collettiva), la seconda con quella micro (individuale). Come dire: il fenomeno migratorio appare socialmente disturbante, mette in crisi alcune delle mie sicurezze future; ma una singola persona immigrata, se mi piacesse, potrebbe nel caso anche diventare mio marito, o mia moglie.

Come decidere allora se è preferibile utilizzare la prima o la seconda formulazione? Non esistono criteri oggettivi. Dipende in parte dalla sensibilità del ricercatore, in parte dalle risorse a disposizione e in (larga) parte dall’obiettivo del sondaggio. A volte, purtroppo, “manipolativo”. Se il committente è un partito che vuole attuare una politica di rigidità verso l’immigrazione, sarà infatti più favorevole a rendere pubblici i risultati della prima domanda; se al contrario è un partito propenso ad una politica di apertura, renderà più facilmente pubblici i risultati della seconda domanda.

Al di là delle possibili manipolazioni, e considerando le finalità conoscitive di un sondaggio, è auspicabile che il buon ricercatore espliciti il testo esatto della domanda che è stata posta, in modo tale che si renda chiaro al lettore di cosa stiamo esattamente parlando, quando riportiamo i risultati del sondaggio.

Paolo Natale

*estratto del volume “Sondaggi”, in uscita nel prossimo autunno presso Laterza

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