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Il Papa anti-occidentale

28 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Chi è stato Papa Francesco? La domanda si è imposta in questi giorni nelle riflessioni di tutti, ma ben pochi hanno resistito alla tentazione di scambiare la parte per il tutto. Era inevitabile: per descrivere il Pontefice scomparso come fonte di ispirazione, è giocoforza amputare porzioni significative del suo pontificato. Certo tutti abbiamo notato, e in molti apprezzato, la sua informalità, quel suo parlare e interagire in modo semplice, deponendo o celando i simboli del potere e della Grazia: quel suo “buonasera” inaugurale, quelle espressioni familiari o di senso comune nei discorsi, quei gesti di rinuncia al lusso in materia di spostamenti (utilitaria) e di residenza (Santa Marta). Ma al di là di questo, resta il fatto che nessuno – proprio nessuno – fra gli attori grandi e piccini della politica può plausibilmente rivendicarne l’eredità. E se qualcuno cionondimeno ci prova, è a prezzo di clamorose omissioni.

La destra, tutta la destra, è costretta a omettere le ripetute prese di posizione di Francesco a favore dei migranti, di tutti i migranti, regolari e irregolari, sospinti non solo dalle persecuzioni e dalle guerre ma dal legittimo desiderio di sfuggire alla povertà. La sinistra, tutta la sinistra, è costretta a omettere le chiare prese di posizione contro l’aborto e i medici che lo praticano, bollati come “sicari”; a dimenticare le critiche alla cosiddetta teoria gender, definita “il pericolo più brutto”; a sorvolare sulla demonizzazione dei contraccettivi, paragonati alle armi che uccidono.

Quanto alla cultura laica e liberale, che vede nel capitalismo uno strumento di uscita dalla miseria e di emancipazione dalle costrizioni del passato, è costretta a dimenticare le severe parole del Papa: “Il problema del nostro mondo (…) sono l’egoismo, il consumismo e l’individualismo, che rendono le persone sazie, sole e infelici”.

Questo vuol dire che la visione del mondo di Bergoglio era eclettica, confusa o contradditoria?

Non direi. Certo, agli occhi di qualsiasi scienziato sociale non accecato dall’ideologia le idee di Bergoglio in materia di economia appaiono quantomeno ingenue (l’economia non è un gioco a somma zero), quelle in materia demografica appaiono potenzialmente catastrofiche (in tanti paesi è precisamente l’assenza di controllo demografico che provoca miseria e morti premature). Ma se dal prosaico mondo delle scienze sociali ci volgiamo al fantasioso mondo delle ideologie, quelle idee non sono poi così strane o incoerenti. Perché un’idea unitaria, un pensiero di base, o se preferite un’ossessione di fondo, nel pensiero del Papa scomparso esiste eccome. E ha pure un nome: si chiama anti-occidentalismo. Nelle esternazioni di Bergoglio sono confluiti un po’ tutti i motivi della critica alla civiltà occidentale: condanna del colonialismo (il “singhiozzo dell’uomo bianco”, per dirla con Pascal Bruckner), critica dell’economia capitalistica (“l’economia che uccide”), riserve sulle politiche dell’Alleanza Atlantica, deplorazione del consumismo, difesa della famiglia tradizionale, attacco all’aborto e al controllo delle nascite, presa di distanza dalla cultura woke. L’unico elemento non criticato, e in parte ascrivibile alla cultura occidentale (almeno fino a ieri), è stata l’apertura delle frontiere ai migranti, un tipo di politica che Papa Bergoglio, come molti capitalisti in cerca di manodopera a basso costo, giudicava insufficiente.

Possiamo concludere che la cifra del pontificato di papa Francesco è stato il ripudio dei valori della società occidentale?

Sì e no. Sì, perché quello dell’anti-occidentalismo pare l’unico denominatore comune delle sue esternazioni. No, perché in realtà, dopo i rivolgimenti degli ultimi anni, non sappiamo più che cosa siano i valori dell’occidente. Le guerre in Ucraina e in Palestina hanno fatto riemergere in tutta la sua forza il fiume carsico dell’anti-occidentalismo dentro l’occidente stesso. L’ascesa e il declino dell’ideologia woke, il capovolgimento delle politiche di accoglienza in politiche di espulsione, le accuse all’Europa di avere tradito i valori occidentali, la guerra dei dazi, le divergenze su come porre fine alle guerre in Ucraina e a Gaza, hanno riproposto in termini drammatici l’interrogativo: chi siamo, noi occidentali?

Forse, più che affannarci a rivendicare improbabili sintonie con il pensiero del Papa scomparso, personaggio unico e difficilmente ripetibile, dovremmo provare a interrogarci su noi stessi.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 aprile 2025]

La Suprema Corte di Londra come Gertrude Stein – Una donna è una donna è una donna è una donna

23 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Raramente mi è capitato di assistere a tanti e tali contorsionismi logico-filosofici-linguistici quanti ne ho incontrati in questi giorni a proposito della sentenza della Corte Suprema Britannica che ha stabilito che donna è chi è biologicamente tale. Estrarre una argomentazione razionale da tanto furore ideologico è molto arduo, ma ci provo lo stesso: sfrondato dai voli pindarici, il nucleo del discorso è che anche il sesso biologico è un costrutto culturale (idea copiata a Judith Butler), e comunque ogni persona avrebbe sia tratti maschili sia tratti femminili.

Questo genere di osservazioni, sfortunatamente, eludono la vera questione. Che non è affatto che cosa dobbiamo intendere con il termine ‘donna’, una questione cui –ovviamente – si possono fornire infinite risposte diverse, tutte almeno in parte arbitrarie. La vera questione è un’altra. La vera questione è di natura giuridico-sociologica. E può essere messa così: posto che in tutte le società occidentali esistono spazi e prerogative riservate alle donne, e quasi nessuno ne mette in discussione la legittimità e l’opportunità, dobbiamo continuare a riservare tali spazi e prerogative alle donne biologicamente tali, o dobbiamo estenderne l’accesso ai maschi biologici transitati a donne, o autopercepiti come tali?

Questa è la questione. Una questione molto pratica e concreta che riguarda, ad esempio: bagni, spogliatoi, gare sportive, reparti ospedalieri, centri anti-violenza, sezioni delle carceri, quote rosa, esenzione dal servizio militare, età della pensione, per non parlare delle numerose norme a tutela delle donne in materia di assunzione, condizioni di lavoro, interazione con le forze dell’ordine (perquisizioni).

Dire che i concetti di uomo e donna sono sfumati, perché sono astrazioni sotto le quali sta l’infinita varietà del mondo, non risolve minimamente la questione di che cosa ne facciamo del pacchetto di prerogative attualmente riservate alle donne. La definizione giuridica di donna serve a risolvere in modo chiaro e univoco una questione che non può essere lasciata in sospeso. E chi pretende di adottare una definizione diversa (includendo le donne trans) ha l’onere di dimostrare che i problemi che deriverebbero dalla nuova definizione sarebbero meno gravi di quelli che derivano dalla definizione tradizionale, che la Suprema Corte Britannica ha ribadito.

Sotto il profilo giuridico-sociologico la binarietà (o sei donna o non lo sei) è inevitabile, perché riflette il problema di individuare le condizioni di accesso (sì o no) a un insieme di prerogative, non certo la pretesa di stabilire il significato di un termine, che ognuno – come già succede – continuerà a usare come vuole.

Ma perché siamo precipitati in un simile stato di confusione?

Fondamentalmente per due motivi distinti. Il primo è che in diversi paesi la difesa dei diritti trans è andata ben oltre le conquiste originarie, ovvero la possibilità di cambiare il genere sulla carta di identità in seguito a un’operazione chirurgica o comunque alla fine di un percorso giudiziario. Il cosiddetto self-id, vigente in Spagna da un paio di anni (Ley Trans) e in Germania dal novembre scorso, sancisce il diritto di cambiare genere (anche più di una volta, nel caso tedesco) con un semplice passaggio all’anagrafe. Di qui la possibilità di usare tale diritto in modo opportunistico (ad esempio per sfruttare le quote rosa, o evitare il servizio militare), o pericoloso per le donne-donne (reparti femminili delle carceri), o semplicemente iniquo (accesso alle gare femminili).

Il secondo motivo che ci ha portati alla babele attuale è una credenza errata, ma più volte ribadita dall’attivismo trans e dalle cosiddette transfemministe: ovvero che l’estensione dei diritti non abbia costi, non discrimini, e non tolga nulla a nessuno. È vero esattamente il contrario. A differenza di conquiste come il diritto di voto o il diritto al divorzio, la maggior parte delle rivendicazioni trans o hanno un costo per la collettività (benefici economici), o mettono a repentaglio la sicurezza delle donne (spazi nelle carceri), o tolgono possibilità alle donne (quote rosa, gare sportive).

La soddisfazione delle femministe gender-critical, che hanno festeggiato la sentenza della Suprema Corte Britannica, è più che comprensibile.

[articolo uscito sulla Ragione il 22 aprile 2025]

A proposito delle ingerenze di Trump – Harvard e la libertà accademica

22 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Antefatto. L’università di Harvard, una delle più prestigiose del mondo, è un ente privato che, per il proprio funzionamento, usufruisce di cospicui finanziamenti pubblici. Una settimana fa l’amministrazione Trump ha inviato ai vertici dell’università una lettera in cui ricorda che ricevere il finanziamento pubblico non è un diritto, e che d’ora in poi i fondi federali continueranno ad essere erogati solo a determinate condizioni. Alcune di tali condizioni sono sicuramente discutibili, ad esempio la richiesta di non ammettere studenti “ostili ai valori e alle istituzioni americane” (che cosa sono i valori americani?). Altre sono ragionevoli ma difficili da applicare, come la richiesta di combattere le discriminazioni contro gli studenti ebrei o israeliani, o evitare vessazioni anti-semite e programmi ideologizzati.

Ma le condizioni più interessanti sono quelle che appaiono decisamente ovvie o scontate. Due su tutte. Primo, Harvard dovrà abbandonare politiche di reclutamento che discriminano in base a “razza, colore della pelle, religione, sesso, origine nazionale”. Secondo, Harvard dovrà rinunciare alle politiche di ammissione (degli studenti) e di assunzione (dei docenti) che discriminano sulla base dell’orientamento politico-ideologico, e dovrà cercare di promuovere il pluralismo delle idee (viewpoint diversity).

E’ curioso che, anziché apprezzare gli intenti egualitari e anti-discriminazione delle raccomandazioni di Trump, la maggior parte dei media italiani abbia interpretato tali raccomandazioni come un attacco “senza precedenti” alla libertà accademica, un’intromissione indebita della politica nel mondo della cultura, una prepotenza rispetto a cui Harvard e le altre università minacciate da Trump avevano non solo il diritto ma il dovere di opporre “resistenza” (termine evocativo della lotta al nazi-fascismo).

Come mai questa reazione della maggior parte dei nostri media?

Credo che la risposta sia che pochi conoscono la vera storia delle università americane, e in particolare di quel che è capitato dal 2013 in poi, ossia da quando la cultura woke e l’ossessione per il politicamente corretto si sono saldamente installate nei campus e nelle redazioni dei giornali.

Difficile riassumere, nello spazio di un articolo, quel che è successo nel corso di un decennio, ma ci provo lo stesso elencando alcuni dei cambiamenti (o delle radicalizzazioni) che più hanno messo a soqquadro la vita universitaria.

Uno. I criteri di reclutamento di studenti e professori sono diventati sempre più politici e meno meritocratici, con l’adozione di politiche esplicitamente discriminatorie verso bianchi, maschi, eterosessuali, studenti conservatori o non impegnati.

Due. Sono stati aperti appositi sportelli (BRT, o Bias Response Teams) per permettere non solo la denuncia (sacrosanta) di abusi, violenze, intimidazioni, ma anche quella di qualsiasi violazione dei codici woke in materia di linguaggio o espressione delle proprie idee e sentimenti. Qualsiasi situazione fonte di disagio per qualcuno è stata ricodificata come micro-aggressione, con conseguente instaurazione di un clima di paura e di autocensura (chilling effect). Il numero delle prescrizioni e dei divieti del galateo woke è enormemente cresciuto, non solo nelle università ma più in generale nei media, nella vita sociale e nel mondo del lavoro.

Tre. Si sono diffuse e ampliate le pratiche volte a togliere la parola agli studiosi considerati politicamente scorretti o portatori di idee non gradite all’establishment progressista, con campagne di delegittimazione o boicottaggio, con pressioni a non concedere la parola a determinati relatori (deplatforming), con cancellazioni di inviti  (disinvitation), con azioni collettive volte a impedire materialmente di parlare a ospiti sgraditi per le loro opinioni.

Quattro. Si sono moltiplicati i tentativi (per lo più riusciti) di ottenere licenziamenti e sanzioni nei confronti di professori per le idee che avevano espresso. Greg Lukianoff, presidente della Fondazione FIRE, che si occupa di difendere i diritti individuali e la libertà di espressione, ne ha contati centinaia in pochi anni, e ha osservato – a partire dal 2015 – un ritmo di crescita superiore al 30% all’anno.

Tutto questo fin dai primi anni ’10, ben prima dell’inasprirsi della situazione con le proteste studentesche seguite all’intervento israeliano a Gaza.

Morale. Può darsi che l’intervento di Trump, alla fine, non riesca a ristabilire la libertà accademica, che per definizione richiede l’astensione della politica. Ma quel che è certo è che nel decennio precedente la libertà accademica era stata distrutta dall’attivismo woke, che aveva reso irrespirabile la vita nei campus. L’intervento di Trump, sicuramente ruvido e sgradevole nei modi, è stato dettato dalla necessità di ristabilire la libertà accademica, non certo di sopprimerla. La domanda quindi non è “riuscirà Harvard a resistere alle ingerenze di Trump?”, bensì: riuscirà Harvard a tornare un’università normale, in cui chiunque possa sentirsi libero di esprimere il suo pensiero, anche se contrasta con l’ortodossia woke?

[articolo uscito sul Messaggero il 20 aprile 2025]

Il Fascismo. Le verità nascoste

22 Aprile 2025 - di Dino Cofrancesco

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Nelle celebrazioni del 25 aprile si continua a vedere nel fascismo un regime estraneo al mondo moderno, una mela marcia di un paese di antica civiltà come l’Italia, una banda di malfattori di cui Mussolini fu il capo (per citare il titolo di un discutibile pamphlet di Aldo Cazzullo) e così via. In realtà, le cose non stanno così: al fascismo aderì la parte migliore del paese (non tutta, l’altra, minoritaria, rimase coerentemente antifascista): dai ceti medi emergenti – di cui parlò Renzo De Felice. nella celebre Intervista sul fascismo rilasciata a Michael Ledeen nel 1975, Ed. Laterza – al mondo dell’arte delle lettere, delle scienze—v. il Manifesto fascista di Giovanni Gentile. A motivare uomini che erano autentici patrioti, anche se non rifuggivano certo dalla violenza contro gli oppositori politici, erano l’insofferenza per una classe politica che, nel primo dopoguerra, non aveva saputo imporre la legge e l’ordine e il timore, non del tutto ingiustificato, dell’eversione rossa (Rosario Romeo, il maggiore storico italiano della seconda metà del Novecento, non riuscì mai a perdonare a Giovanni Giolitti il mancato uso delle maniere forti contro gli eversori rossi e neri). I Parlamenti con le loro “clases discutidoras” (come le aveva definito nel 1851 il grande tradizionalista spagnolo Juan Donoso Cortes) apparivano loro residui di un passato medievale, da chiudere al più presto dando le redini del governo ai combattenti, ai tecnici, alla borghesia imprenditoriale, alle maestranze operaie inquadrate in sindacati nazionali responsabili, a quanti avevano a cuore le sorti del paese e odiavano la ‘politique politicienne’. Come scriveva Giovanni Gentile, in un articolo Il liberalismo di B. Croce (ora in Id., Opere complete di Giovanni Genti­le. XLV Politica e cultura, 2 voll., Firenze, Le Lettere, vol. I, 1990), ironizzando su quanti si facevano ‘scrupolo di anteporre la patria all’idolo della libertà’ :“Silvio Spaventa e i deputati del 15 maggio, violatori della Costituzione, furono rivoluzionari, Ricasoli e Farini, senza la cui magnanima risolutezza Cavour sarebbe fallito, furono dittatori, come Garibaldi; e della libertà costituzionale si ricordarono soltanto a tempo e luogo. E Cavour, liberalissimo, a tempo e luogo, protestò anche lui, a proposito di libertà di stampa, contro i grandi principii, che rovinarono sempre le nazioni: e governò sempre da padrone di quella Camera a cui s’inchinava”.

 Gli antiparlamentari videro nel fascismo l’occasione per procedere a riforme di vasto raggio in linea col processo di modernizzazione in atto in tutta l’area euroatlantica. E le loro attese non andarono del tutto deluse, se si pensa alla politica delle bonifiche, al Welfare State affidato a grandi enti parastatali, alla messa in sicurezza del territorio, alle grandi realizzazioni urbanistiche (Roma in primis), alle riforme scolastiche, all’IRI che cambiarono il volto della nazione e sopravvissero al 25 aprile. Un deciso fautore delle nazionalizzazioni come il socialista Riccardo Lombardi ebbe a dichiarare che l’Italia per fortuna poteva disporre di una sfera pubblica che rappresentava il 60% dell’economia nazionale e che questo le avrebbe consentito un più agevole passaggio al socialismo. Dimenticò di dire due cose:1) che quella ‘fortuna’ si doveva proprio al regime fascista;2) che in un’economia liberale di mercato era alquanto problematico che potesse rappresentare una fortuna.

Sennonché una dittatura resta pur sempre una dittatura, e solo sui tempi lunghi si diventa consapevoli che la peggiore delle democrazie è preferibile alla migliore delle dittature, sempre che si viva in una società civile segnata dall’Umanesimo, dall’Illuminismo, dalla filosofia dello Stato di diritto. Nei primi anni i treni arrivano in orario, le amministrazioni pubbliche sono più efficienti, ci si preoccupa di più dei ceti meno abbienti e della sanità pubblica. Un apparato di potere, che abbia abolito il pluralismo politico, però, alla lunga non può legittimarsi con politiche che ricalchino quelle delle democrazie liberali più avanzate: il fascismo non poteva essere una versione all’italiana del New Deal di Franklin Delano Roosevelt (un presidente molto interessato alla politica economica di Mussolini). Doveva essere, per non perdere il potere una volta rimessa la ‘casa in ordine’, qualcosa di più e di diverso. Di qui la sua  hybris—‘l’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna al centro delle tragedie di Eschilo—e l’ambizione di costruire la Terza Roma, non quella di Giuseppe Mazzini, fondata sul primato dello spirito, ma quella degli Scipioni e dei Cesari, ”donna di province”, signora del Mediterraneo. Ma di qui anche la corsa verso un totalitarismo sempre più permeato di spiriti antiborghesi e pagani, pur se incapace di radicarsi in un paese in cui Monarchia, Esercito e Chiesa erano rimasti contropoteri indeboliti ma inattaccabili. La guerra d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’Asse Roma-Berlino, le infami leggi razziali, furono il risultato di questa hybris, sempre più lontana dalle idealità risorgimentali che avevano animato i ‘nuovi ceti emergenti’. Ne dà un ampio resoconto il saggio The Tainted Source. The Undemocratic Origins of the European Ideas (Warner Books 1998) di John Laughland. Quella ‘fonte inquinata’—rileviamo per inciso—avrebbe portato la nuova destra, erede della RSI, a non riconoscersi più nel pensiero di   Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe, Maestri osannati a parole ma sempre meno letti—bensì negli ideologi imperialisti (come Julius Evola) che ritenevano ormai superato il modello dello stato nazionale, troppo legato agli ideali dell’89 e all’odiato illuminismo.

 Dalla retorica resistenziale che vede nel fascismo la negazione dello spirito moderno e il trionfo del nazionalismo tribale (laddove il fascismo fu, agli inizi, un fenomeno del tutto moderno e, dopo la sua ingloriosa fine, la negazione dello stato nazionale) avrebbe potuto guarirci Renzo De Felice – al quale il suo erede spirituale, Francesco Perfetti, ha dedicato una ponderosa monografia, Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice, Ed. Aragno – coi suoi numerosi studi sul fascismo visto nella sua epoca. Tali studi non sono soltanto – come è stato scritto da autorevoli recensori – un contributo a una storiografia meno ideologica e più critica del ventennio; sono qualcosa di più: un capitolo fondamentale della storia della cultura politica italiana del nostro tempo giacché, indirettamente, ne mostrano i ritardi e le anomalie, a cominciare dall’incapacità di prendere sul serio il pluralismo, riconoscendo che i valori, gli interessi, i bisogni che costellano il mondo umano sono molteplici e che demonizzare, senza comprendere, porta solo alla perpetuazione della guerra civile, ai ‘no pasaran’, agli ‘SOS Fascisme!’, ai cortei minacciosi, alle commemorazioni intese ad approfondire il solco ideologico tra i connazionali e non a ravvicinarli come accade nella grandi feste patriottiche del 4 luglio in America e del 14 luglio in Francia. Sennonché l’opera di De Felice è stata quasi del tutto rimossa e la sua alta lezione di liberalismo è stata immiserita e ridotta al banale apprezzamento della sua–pur indubbia–obiettività’ storiografica.

[articolo pubblicato su Paradoxa-Forum]

Sexting e revenge porn – Il dilemma della città vecchia

22 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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In questi giorni mi è tornato alla mente un episodio di oltre quarant’anni fa. Con i miei colleghi e colleghe sociologhe, per lo più provenienti da università del nord e del centro Italia, eravamo sbarcati in una importante città del Sud per partecipare a un convegno di sociologia. Appena arrivati in albergo, qualcuno ci avvertì: evitate la città vecchia, perché c’è il rischio di essere scippati e derubati.

Alcuni di noi, prevalentemente maschi se ricordo bene, accettarono di buon grado il consiglio e si limitarono a girare nei quartieri prossimi all’albergo, situato al di fuori della città vecchia. La maggior parte delle colleghe sociologhe, invece, non si fecero alcun problema ad avventurarsi nella città vecchia. Secondo loro non c’era alcun pericolo, era evidente che eravamo di fronte a un pregiudizio anti-meridionale, un pregiudizio che andava sfatato. Mai e poi mai avrebbero rinunciato a visitare la città vecchia e a fare shopping per uno stupido pregiudizio.

Al ritorno dal giro nella città vecchia, nessuna si presentò indenne: a tutte era stato sottratto qualcosa.

Perché questa differenza di comportamento? Dopo tutto eravamo sociologi sia noi, il gruppo dei prudenti (più maschi che femmine), sia loro, il gruppo delle audaci (più femmine che maschi).

Una risposta possibile è che ognuno ha una diversa propensione al rischio, nonché una diversa inclinazione a credere agli stereotipi negativi (l’immigrato che delinque, lo zingaro che borseggia, il meridionale sfaticato). Di fronte a un allarme, si può prenderlo sul serio o declassarlo a credenza infondata. C’è chi gli stereotipi li considera pre-giudizi, e chi pensa che talora siano post-giudizi, frutto dell’esperienza.

Ma credo non sia tutto. Nella reazione di chi dice “io nella città vecchia ci vado lo stesso” c’è anche una sorta di ribellione a un ricatto. È come dire: è mio diritto girare per la città vecchia senza essere aggredito, non lascerò che qualcuno mi tolga questo diritto. Insomma, per alcuni può essere anche una questione di principio: si va incontro a un rischio non perché lo si giudica del tutto inesistente, ma perché defilarsi significherebbe piegarsi a una prepotenza, rinunciare a qualcosa che nessuno è titolato a sottrarci. Di qui il dilemma: evitare il rischio e rinunciare a un diritto, o esercitare il diritto e correre il rischio?

L’episodio mi è tornato alla mente perché, nel mondo di oggi, il “dilemma della città vecchia” è diventato più attuale che mai, specialmente per le donne. Le scelte di abbigliamento, i modi di stare sui social, la selezione dei luoghi, delle compagnie e degli orari in cui muoversi in una città, sono tutte decisioni che riproducono il dilemma: se mi espongo affermo un principio, ma corro un rischio; se non mi espongo, evito il rischio ma rinuncio a far valere un principio.

Questo dilemma si presenta tipicamente in materia di sexting (condivisione di immagini sessualmente esplicite). E con speciale drammaticità per le ragazze più giovani, per le quali il sexting può essere una libera scelta, ma pure una pretesa indebita da parte di partner prepotenti e ricattatori. A valle di ogni atto di sexting, infatti, è sempre in agguato il rischio del cosiddetto revenge porn, ossia che qualcuno diffonda le immagini senza consenso, o anche semplicemente minacci di farlo per ottenere prestazioni sessuali, denaro, o altri favori.

Anche qui, a prima vista, sembra riproporsi il dilemma: rischiare per affermare il principio, o rinunciare per evitare il rischio?

Sul punto, credo che la posizione più saggia sia quella assunta dall’avvocata Francesca Florio nel suo libro Non chiamatelo revenge porn (Mondadori 2022). A suo parere, nessuno ha il diritto di stigmatizzare il sexting, e le persone che lo praticano non hanno ragione di vergognarsene; e tuttavia, nello stesso tempo, è molto pericoloso nascondere o minimizzare gli immensi rischi che con il sexting vengono assunti. Fare sexting solo per affermare il principio che si ha tutto il diritto di farlo è autolesionistico. E stigmatizzare chi – come mamme, genitori, educatori – lo sconsiglia vivamente è profondamente sbagliato. Perché la “città vecchia” esiste, e avventurarvisi solo per affermare la propria libertà può costare caro. Molto caro. Come può rendersi conto chiunque legga le tante, drammatiche storie splendidamente raccontate da Francesca Florio nel suo libro.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 aprile 2025]

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