De Felice e gli azionisti
In primo pianoPoliticaSocietàEugenio Di Rienzo, Professore Emerito di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma e Direttore della prestigiosa ‘Nuova Rivista Storica’, nel suo recente saggio, Renzo De Felice, Leo Valiani e gli amici azionisti, ha raccolto lettere e articoli di Renzo De Felice, di Alessandro Galante Garrone e di Leo Valiani, per suffragare una tesi che, con tutta franchezza, mi riesce difficile condividere. E’ la tesi secondo la quale «De Felice, certo naturaliter destinato a divenire un grande storico, grazie anche al fondamentale apporto del padrinaggio intellettuale di Cantimori» non sarebbe divenuto il più grande storico del fascismo «senza il rapporto instaurato con gli ‘amici azionisti’. E questo non tanto per i subsidia e i consigli fornitigli negli anni del suo esordio nell’arena accademica, che De Felice contraccambiò abbondantemente con i tanti materiali messi a disposizione di Galante Garrone e specialmente di Valiani, come il lettore potrà appurare leggendo la raccolta di lettere pubblicata alla fine di questo saggio. Ma per il sostegno morale ricevuto nel difficile periodo del suo tirocinio, indispensabile a ogni apprenti historien, e poi per quel dialogo ininterrotto, dove gli elogi si alternavano alle critiche, anche le più taglienti, e soprattutto per quel rispetto intellettuale e umano che si mantenne sempre intatto. Anche durante gli ultimi decenni della sua “vita difficile”, quando le loro rispettive posizioni, che si erano molto allontanate, trovavano e in ogni caso cercavano di trovare un punto di dialogo e in qualche caso persino di convergenza».
Nel suo comprensibile rimpianto per un «’mondo di ieri, oggi, purtroppo, definitivamente scomparso», Di Rienzo scrive che « con tutti i loro contrasti, i rapporti umani e scientifici tra l’autore della biografia di Mussolini, Venturi e gli altri “amici azionisti”, Galante Garrone, Valiani |…| non possono non essere letti, a distanza di un sessantennio, come la testimonianza di una stagione felice e purtroppo irripetibile, dove nel mondo accademico regnava ancora il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione, la solidarietà tra studiosi di diversissime tendenze politiche. Una solidarietà che oltrepassava ogni steccato ideologico e che faceva tornare alla mente quella familiaritas che, secondo Ludovico Ariosto, costituiva il tratto distintivo di un rapporto tra pari nel quale si manifestava ‘la gran bontà de’ cavalieri antiqui ‘».Di Rienzo sembra vedere solo il piano dei rapporti personali di discepolato che un tempo si instauravano tra gli storici anziani e i giovani, caratterizzati da generosi consigli e incoraggiamenti, soprattutto quando si trattava di galantuomini come Galante Garrone e Valiani. E giustamente rimarca le differenze di stile tra i Maestri d’antan e i loro successori fanatici e superpoliticizzati. L’accoglienza che i primi riservarono ai volumi della biografia del duce è incomparabile con la rabbiosa reazione di quanti denunciavano il tradimento della Resistenza e ‘la pugnalata dello storico’, per riprendere il titolo di una famosa stroncatura di Nicola Tranfaglia. E tuttavia, ci si deve chiedere onestamente, intellettuali militanti come Ernesto Rossi–che definì De Felice «un piccolo mascalzone manovrato da un qualche personaggio potente che non sono riuscito a identificare»–o Nicola Tranfaglia, che nel libro Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Ed .Dalai 2010, intendeva mettere a fuoco il nucleo centrale dell’ideologia socialista liberale poi confluita nel Partito d’Azione, non appartenevano alla galassia azionista?. E non vi apparteneva Norberto Bobbio che alla ‘vulgata antifascista’ mise il timbro della sua autorevolezza?
In realtà, come ben documenta Di Rienzo nella seconda parte del testo, le recensioni ai volumi di De Felice su Mussolini scritte da Galante Garrone e da Valiani, erano, sì, civili e misurate ma rivelavano un dissenso radicale su punti fondamentali e qualificanti del ‘revisionismo’ defeliciano.
In uno scritto del 2005, Il ritorno dell’azionismo, Di Rienzo scriveva « nel nostro paese, oggi, i valori dell’azionismo sono diventati i veri valori di riferimento della sinistra. Date un’occhiata alle librerie politicamente corrette. Neanche a pagarlo oro troverete un volume di Lenin. Scomparse dagli scaffali le opere di Marx. Anche Togliatti scarseggia. Grande abbondanza invece dei volumi di Gobetti e Carlo Rosselli, i padri nobili di quel movimento. Buon successo arride alla biografia di Ferruccio Parri. Si susseguono le ristampe degli scritti di Massimo Mila, Franco Venturi, Alessandro Galante Garrone, Carlo Levi. Nelle loro pagine ritorna il vecchio mito azionista della ‘resistenza tradita’, dell’unica rivoluzione italiana che sarebbe riuscita a rigenerare la nazione, a svellere la mala pianta del clericalismo, del capitalismo avventuriero, della continuità tra fascismo e repubblica». Per fortuna, proseguiva Di Rienzo, «la nostra gente rifiutò quella astrusa miscela di snobismo liberale e di velleità populiste. Disse no ad un processo epurativo che avrebbe disgregato in un colpo solo gli apparati finanziari, economici, burocratici del paese».
Il fatto è che De Felice rappresentava una cultura autenticamente liberale laddove l’azionismo si poneva sul piano di una rivoluzione che voleva essere più ardita e progressiva di quella sovietica. Come scriveva Franco Venturi in Socialismo di oggi e di domani, ’Quaderni dell’Italia libera’n.17, dicembre 1943 (a firma Leo Aldi): «Impossibile capire la critica che i fatti hanno esercitato sul socialismo se non si pone al centro l’idea che tutta la nostra epoca è epoca di realizzazione del socialismo. Dopo esser stato aspirazione e utopia, movimento ed ideologia, il socialismo si è mescolato con la realtà, ha reagito su di essa e ne è stato, naturalmente, trasformato e sconvolto. L’unico modo oggi per curarsi radicalmente da ogni antistorica visione dì un futuro ‘regno’ socialista (con i relativi riflessi psicologici che vanno dal terrore del borghese all’entusiasmo alquanto vuoto del rivoluzionario) è proprio quello di dirsi che in epoca socialista ci stiamo vivendo, che l’aria che respiriamo, gli istinti a cui obbediamo sono in fondo dettati da un atteggiamento che, storicamente, non possiamo non chiamare socialista». Non si pensava a riportare in Italia una democrazia liberale di tipo classico—con l’alternanza di laburisti e conservatori al governo—ma a una vera e propria ‘nuova civiltà’.
Certo, in seguito, Leo Valiani ,vicino al PRI, divenne una ‘risorsa della Repubblica’ e giustamente venne nominato senatore a vita– e Galante Garrone contese a Bobbio, sulla ‘Stampa’, il ruolo di mentore della nazione ma resta che la loro visione del fascismo non contribuiva, al di là dei toni pacati (ma non sempre) a fondare , nel nostro paese, ‘valori comuni’, impensabili finché nel famigerato ventennio si fossero viste in azione solo le forze del Male.(Anche se Valiani aveva dedicato ai caduti della guerra civile delle due parti, le bellissime memorie. Tutte le strade conducono a Roma, che avevano quasi commosso De Felice).
Sennonché, a parte le valutazioni storiche sull’Italia in camicia nera, a dividere De Felice e gli ‘amici’ azionisti, erano concezioni della ricerca storica assolutamente incompatibili. E questo forse è il punto centrale di cui si dovrebbe tenere massi-mamente conto. Per gli storici azionisti (quelli seri) lo storico è un onesto magistrato democratico che prende atto del reato , convoca le parti, le ascolta con attenzione e stabilisce chi ha ostacolato il progresso civile di un popolo e chi, invece, si è battuto per la libertà e la democrazia. Per lo storico classico, come intendeva essere De Felice con i suoi richiami a Leopold von Ranke, ci sono solo fatti, drammi e individui che scelgono da che parte stare (o non stare) con le più diverse motivazioni. Si tratta di comprenderli, non di giudicarli, lasciando al lettore la libertà di riconoscersi nelle ragioni degli uni piuttosto che in quelle degli altri.
Scienza e morale appartengono—con Max Weber ma anche con Benedetto Croce e con Raymond Aron– a due diverse dimensioni esistenziali. Sta qui la quintessenza del liberalismo che è pluralismo preso sul serio. I valori di Giuliano l’Apostata sono oggetto di conoscenza come i valori dei cristiani perseguitati. La valutazione etica non spetta allo storico ma ad ogni uomo interessato alla storia dell’imperatore (e allo stesso storico purché disposto a uscire dal suo ruolo..). I valori, quelli dei prota-gonisti degli eventi, vanno riguardati come fatti che, insieme ad altre cause—più o meno strutturali—, motivano l’agire: non sono le lenti del ricercatore senza le quali sarebbe impossibile mettere a fuoco la realtà. L’amore del ricercatore per la libertà non garantisce l’individuazione e la comprensione dei suoi (veri o presunti) nemici. Di qui l’importanza dei documenti che, di per sé, non spiegano ma contribuiscono a far capire sia le azioni che gli stati della mente che le motivano.
Quando l’elogio di De Felice consiste nel riconoscere che «ricercava i documenti come un cane da tartufi» vien quasi da sorridere ,pensando a certo malcostume universitario e alla divisione di compiti tra il giovane assistente che si smazza negli archivi e il cattedratico che, grazie al suo lavoro, può scrivere opere destinate a ‘fare storia’. Nell’uso che ne fa De Felice i documenti non sono un mero accumulo di dati ma il machete che si fa largo nella sterpaglia dei miti e delle ideologie.
[articolo pubblicato il 6 giugno 2025 su Lettera150]