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Anime belle accademiche – Un chiarimento sulla democrazia dei contemporanei*

25 Settembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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77 colleghi storici del pensiero politico hanno firmato un manifesto per Gaza «in modo analogo a quanto hanno fatto molte altre studiose e studiosi, società scientifiche e Senati accademici».

 Ritengo Netanyahu un irresponsabile farabutto ma, in quanto studioso, non riesco a condividere l’iniziativa. Ben volentieri aderisco alla richiesta di versare contributi in denaro o in aiuti economici  e sanitari alle vittime dell’esercito israeliano, ma  come cittadino/qualunque non  come professore emerito, membro di diritto della congrega degli ‘intellettuali’. Quale autorità morale e politica, infatti, può avere in una democrazia a norma, una ‘corporazione’ di professori? E se fossero i tranvieri a manifestare la loro solidarietà a Gaza perché la loro competenza etico-politica dovrebbe essere considerata minore di quella dei politologi? Abbiamo una strana concezione della democrazia: secondo i suoi virtuisti, ordini professionali, associazioni di categorie non debbono limitarsi (e sarebbe già tanto) a occuparsi dei compiti e dei doveri specifici iscritti nei loro statuti ma avrebbero anche il dovere di riflettere su quanto accade attorno a loro, nella società civile e nel sistema politico interno e internazionale. ’La democrazia’, si dice, non ‘è partecipazione? ’E perché un farmacista o un geometra non dovrebbero prendere posizione dinanzi alle stragi e alla violenza che regna nel mondo? In realtà, tutti i cittadini sono impegnati a rendere meno invivibile il nostro mondo ma perché dovrebbero farlo ‘in divisa’, col camice del medico, con la toga del giudice, con l’uniforme militare? In democrazia si protesta ‘in borghese’ giacché, sul suo piano, effettivamente ‘uno vale uno’ ed esibire la propria qualifica professionale rinvia alla presunzione (inconfessata) di avere una maggiore autorità rispetto ai propri concittadini per il fatto di essere economista, giurista, scienziato politico, insegnante, prelato, artista etc. Il bene comune, l’interesse collettivo non sono oggetto di conoscenza, come lo sono per l’enologo il Barolo e per il medico un farmaco. In politica, non ci sono verità ma opinioni e ciascuna opinione è dettata da un interesse o da un valore non necessariamente condivisi dalla maggioranza. L’”opinione” di un bracciante analfabeta, che dinanzi alla parata delle camicie nere, nutre brutti presentimenti sul futuro che lo aspetta, a giudicarla oggi dopo le catastrofi prodotte dal fascismo, non coglie nel segno più di quella dell’avvocato o del giornalista di grido il cui ‘cor si riconforta’’ guardando la sfilata dei gagliardetti?

  Negli anni della mia adolescenza, la borghesia colta non riusciva a rassegnarsi al fatto che le donne di servizio (analfabete) potessero votare a differenza dei giovani colti e preparati, che non avevano raggiunto la maggiore età. Già da allora trovavo questo modo di pensare ingiusto e sbagliato. La nostra ‘domestica’ votava per un partito ‘clientelare’, la DC, che a lei, ragazza madre e con due figli a carico, prometteva un alloggio popolare. Il classico voto di scambio! Ma non è stato sempre, in gran parte, così?  Quanti votano per i partiti protezionisti, che mettono al riparo industria e agricoltura nazionali dalla concorrenza straniera, e quanti votano per i partiti liberisti, che fanno la fortuna di certi settori e ne rovinano altri, depositano la scheda nell’urna  col pensiero rivolto al ‘bene pubblico’ o al proprio tornaconto (peraltro legittimo)? E quale superiore autorità morale o intellettuale potrebbero rivendicare giuristi ed economisti difensori dell’una o dell’altra linea politica? Non pochi ceti, cosiddetti ’parassitari’, non votano per i partiti che garantiscono lo status quo e il ‘quieta non movere’ ovvero assicurano rendite di posizione che, per quanto modeste, consentono di contare, il 27 del mese, sui “pochi, maledetti e subito”? Li cancelleremo per questo dalle liste elettorali?  In realtà, il bene pubblico è la risultante complessa del confronto e del conteggio di interessi, valori e voti diversi. Sempre, ovviamente, in un quadro costituzionale, rispettoso delle libertà e dei diritti di tutti e all’interno di una comunità politica capace di tenere a freno le spinte centrifughe in nome dell’”interesse superiore della nazione”, come si diceva un tempo. Il partito—o i partiti—che ottiene più voti va al governo e cerca di realizzare i suoi programmi, che non sono i migliori possibili (concetto ideologico come pochi altri) ma sono sostenuti dal concorrente più forte, legittimato da una vittoria elettorale ottenuta osservando le ‘regole del gioco’. «Il metodo democratico – scriveva Joseph A. Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) – è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Una democrazia ‘sana’ è’ quella che affida le redini del governo a classi dirigenti illuminate e responsabili (che poi era l’auspicio di Alexis de Tocqueville), una democrazia ‘malata’ è quella che esprime élite che portano lo Stato alla bancarotta. Allievo di Max Weber, Schumpeter non si faceva illusioni «I politici sono come cattivi cavalieri che si impegnano così tanto nell’impresa di mantenersi in sella da non curarsi più di quale sia la direzione verso cui stanno cavalcando». In ogni caso, per chi creda ai valori della ‘società aperta’, dalla democrazia non si esce. Il contributo che possono dare gli intellettuali—storici, filosofi etc.—è un contributo di conoscenze relative allo stretto campo di ricerca in cui sono immersi. Dare direttive, prendere posizione politica in quanto ‘corpo di esperti’ che diffidano delle masse sa di ancien régime ed è semplicemente ridicolo. Quando si parla di masse ignoranti e analfabete—oggi arricchite dal popolo dei social—mi viene in mente il lamento dell’automobilista intrappolato nelle code autostradali: “ma dove va tutta questa gente?”, “queste interminabili file di macchine  non sono un segno di un consumismo di massa che ci porterà tutti alla rovina?”. Già potrebbe essere così ma al traffico non contribuisce anche lui? Quando si parla delle ‘masse ignoranti e gregarie’ non viene mai il sospetto che chi si lagna, come quell’automobilista, potrebbe farne parte?

 L’aristocratico Josè Ortega y Gasset, ne La ribellione delle masse (1930), osservava che «le masse esplicano oggi un contenuto vitale che coincide, in gran parte, con quello che prima sembrava riservato esclusivamente alle minoranze;  |…|  le masse si sono fatte indocili dinanzi alle minoranze; non le ubbidiscono, non le seguono, non le rispettano, anzi, al contrario, le mettono di lato e le soppiantano |…| l’uomo volgare, che per il passato si faceva dirigere, ora ha deciso di governare il mondo». Il limite della ‘letteratura della crisi’ – di cui il grande filosofo madrileno poteva dirsi un esponente di primo piano – sta nel brancolare nel buio, una volta fatta la diagnosi.

 Nel pieno di una epoca di transizione, come quella che stiamo vivendo, lo studioso, impotente ad arrestarla, ha soltanto un duplice dovere: la libertà e l’autocritica. Le cose vanno male, i politici che ci governano non ci piacciono? Il rimedio è la libertà, che, come la lancia di Longino, trafisse il costato di Gesù ma guarì il centurione romano col sangue che ne scaturì. Libertà sempre, per tutti, anche (e soprattutto) per coloro che, su questioni cruciali di politica interna ed estera, hanno idee diverse dalle nostre. Libertà per chi stigmatizza la politica di Netanyahu o di Putin e libertà per chi, pur non condividendola, crede di comprenderne le giustificazioni. Libertà per chi   in una Università privata prescrive il politicamente corretto e libertà per chi si rifiuta poi di sostenere l’istituzione con i denari del contribuente. Solo la libertà più assoluta consente di cogliere la verità di quanto scriveva il più grande storico medievista del 900, Marc Bloch, nelle Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra (Ed. Donzelli): « Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa solo apparentemente è fortuita ,o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento».(E’ proibito farsi venire in mente i reportages dei grandi giornali sulle guerre in corso, ucraina e israeliana?)

 Ma accanto al fondamentalismo della libertà, occorre la capacità di autocritica ovvero la convinzione – non retorica – che le nostre opinioni possano essere sbagliate, che, in qualche modo, siamo tutti eterodiretti e che gli eterodiretti non sono soltanto gli altri, quelli di cui non condividiamo le posizioni, giacché eterodiretti, appunto, possiamo essere anche noi in virtù della famiglia in cui siamo nati, dell’ambiente in cui siamo vissuti, degli amici che il destino ci ha fatto incontrare. Questo comporta un abito di umiltà che ci impedisce di indossare la corazza di una formazione ideologica: alla causa ritenuta giusta dobbiamo portare il nostro granello di sabbia confusi nel demos: ‘mettiamoci la faccia!’ ma con il nostro nome e cognome non con le insegne accademiche che ci distinguono dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’.

 In fondo, la ‘cultura impegnata’—in cui idealmente e de facto si colloca l’appello in questione—a ben riflettere, ha sempre nella mente e nel cuore Platone col suo governo dei filosofi e, pertanto, si  pensa come una grande scuola quadri incaricata di formare gli apostoli della nuova civiltà. Non è casuale che i leader comunisti—dai maggiori come Lenin, ai minori come Nicolae Ceausescu—si siano cimentati con la filosofia politica, con l’economia con la storia. Come i cattolici d’antan, gli eredi di Rousseau vedono nella cultura una risorsa politica, uno strumento di conversione e nelle istituzioni scolastiche il terreno fertile su cui far crescere le piante degli homines novi. La pedagogia di Stato resta la sua intramontabile stella polare e non meraviglia, quindi, che recluti i suoi più sicuri supporter nelle scuole di ogni ordine e grado: non mi è mai capitato di incontrare un professore di scuola media, inferiore e superiore, con un giornale moderato sottobraccio.

 Questa ‘responsabilità di fronte alla storia’ induce il fronte progressista ad assumersi il ruolo di supplente quando i governi sembrano insensibili (se non ostili) alle sue ‘sacrosante’ richieste. Non a caso i 77 docenti chiudono il loro documento con un «appello al governo italiano affinché ascolti le voci sempre più numerose provenienti dai cittadini e dalle cittadine, dalle istituzioni accademiche e dalle organizzazioni non governative, e attui ogni iniziativa che vada nella direzione di porre fine allo sterminio della popolazione gazawa e di aprire la strada a una pace giusta». Ma che cosa Palazzo Chigi dovrebbe fare se non agire di concerto con gli altri partner europei? Naturalmente non lo si dice giacché i ‘manifesti delle anime belle accademiche’ sono ‘espressione di sentimento’ non contributi alla soluzione di problemi reali, soluzione per la quale i loro estensori non sono intellettualmente attrezzati, giacché politica e scienza, come insegnava, ne La scienza come professione,  il più grande pensatore politico del Novecento, Max Weber, stanno su piani diversi.

*Una versione più ridotta dell’articolo è stata pubblicata su ‘Paradoxa-Forum’ del 23 settembre 2025

A proposito di Trump – Follemente scorretto

2 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

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Stupore. Sconcerto. Incredulità. Angoscia. Disperazione. Sono i sentimenti che, non senza buone ragioni, trasudano in questi giorni dalla maggior parte dei media di fronte ai gesti di prepotenza di Trump. Non mi riferisco tanto alla intenzione di annettere agli Stati Uniti la Groenlandia o il Canada. Né alla più volte reiterata minaccia di scatenare l’inferno a Gaza o sull’Iran. E neppure al non troppo celato avvertimento verso le Repubbliche Baltiche, cui si fa intendere che potrebbero essere abbandonate dalla Nato in caso di aggressione da parte della Russia.

No, quello cui mi riferisco è lo sconcerto per l’attacco alle politiche DEI (Diversity, Equity, Inclusion) in Europa, a ancor più per il drastico cambiamento di clima negli Stati Uniti, e in particolare nelle Università, dove sono in atto misure repressive nei confronti degli attivisti che, nei mesi scorsi, hanno partecipato alle manifestazioni pro-Palestina. In un articolo uscito su La Stampa, ad esempio, si riporta questo resoconto di Linda Laura Sabbadini, da sempre impegnata nelle battaglie femministe.

“Il clima che si vive è quello di un attacco globale ai diritti, a cominciare da quelli delle donne (…). Mi sembra che nel paese si stia sviluppando una forma di autocensura. Le persone hanno paura di dire quello che pensano. Tutti si sentono potenziali bersagli, a partire da chi si occupa di gender studies”. Di qui la considerazione finale: “Il clima dell’autocensura è tipico delle dittature. E io l’ho percepito tra i professori e nelle Ong. Sono spaventati per i loro finanziamenti. Tutto è in discussione”.

Questo resoconto mi ha molto colpito. E non perché parla di una evidente e ingiustificata limitazione della libertà di espressione, ma perché dice esattamente le stesse cose che, per almeno un decennio, hanno ripetuto quanti non erano allineati con la cultura woke. Professori sanzionati o licenziati per le loro opinioni conservatrici o tradizionaliste. Scrittori e intellettuali contestati, disinvitati, bersagliati per le loro opinioni sgradite alla cultura woke. Studenti restii a esprimersi in pubblico per timore di essere accusati di scorrettezza politica, micro-aggressioni, molestie. Femministe ostili all’utero in affitto o al self-id (autodeterminazione del genere) denigrate o messe a tacere per il loro mancato allineamento alla cultura dominante, o meglio alla cultura dell’élite progressista.

Insomma, la domanda è: ma dov’eravate, voi che denunciate la prepotenza di Trump, quando il clima di intimidazione, il chilling effect (l’auto-zittimento), si respirava ovunque, nei giornali, nei campus universitari, nelle istituzioni culturali, nel cinema, nell’arte, nelle Ong, nelle imprese più impegnate con le politiche DEI?

Quello che voglio dire, però, non è quello che forse qualcuno potrebbe pensare, e cioè che il trumpismo è il meritato contrappasso a un decennio di follie woke. No, quello che voglio dire è che cultura woke e restaurazione trumpiana sono le due facce della medesima moneta, e che quella moneta altro non è che l’incapacità delle istituzioni occidentali di assicurare una vera libertà di espressione.

Il contrario del follemente corretto che ci ha oppressi negli anni passati non è il follemente scorretto con cui Trump prova ad opprimerci ora. Le intimidazioni di cui si è macchiata la protesta progressista nei campus (ma anche nelle nostre università) non si neutralizzano con le intimidazioni di segno opposto cui assistiamo oggi. Il vero contrario del follemente corretto è la capacità di ascoltare l’altro anche quando – anzi soprattutto quando – la pensa in modo completamente diverso da noi. Il trumpismo è la negazione della tolleranza e della libertà di pensiero. Proprio come ciò che l’ha preceduto.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 1° aprile 2025]

La Corte costituzionale rumena: un esempio di democrazia ?

20 Marzo 2025 - di Dino Cofrancesco

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Un noto columnist del ‘Corriere della Sera’, alcune settimane fa, ha ricordato la distinzione fatta da Norberto Bobbio delle due libertà: la libertà negativa (posso fare ciò che voglio) che è libertà dallo Stato e la libertà positiva (il mio volere è libero) che è libertà nello Stato, di partecipare alle “decisioni pubbliche e di obbedire solo alle leggi che si è contribuito a scrivere attraverso il processo democratico”. La (irrinunciabile) democrazia liberale è la sintesi delle due libertà. In seguito, però, l’articolista cita Rousseau per rilevare che la libertà di obbedire solo alla ‘volontà generale’ pone “le basi di molti dispotismi e tra i più sanguinari”.

Mi chiedo, tuttavia,” ma cosa c’azzecca tutto questo con la libertà positiva che, presa alla lettera significa che sono i rappresentanti eletti dal popolo a fare le leggi, e chi altro, sennò?”. Il fatto è che Rousseau distingueva la volontà generale—un’astrazione ideologica partorita dalla sua mente—dalla volontà di tutti, ovvero dalla volontà espressa dagli elettori in carne ed ossa ovvero dal partito a cui hanno dato la maggioranza.

Tale distinzione tra la volontà generale e la volontà di tutti non sembra affatto sepolta nella tomba dell’autore del ‘Contratto Sociale’. Per Claudio Cerasa, ad es., la vittoria di Calin Georgescu in Romania—“viziata da un’inge-renza (russa, cinese e di gruppi criminali)”—è stata la ‘volontà di tutti’ e, pertanto, a ragione la Corte Costituzionale rumena si è vista costretta ad annullarla.

Insomma c’è democrazia quando vincono i ‘buoni’ non quando prevalgono le masse gregarie, corrotte e ingannate da “politici filorussi nostalgici del nazismo e da influencer popolari islamisti e fascisti”. In quest’ultimo caso, in virtù della divisione dei poteri–tanto cara a Mauro Zampini che, modestamente, si firma ‘Montesquieu’–, provi-deant judices ne quid res publica detrimenti capiat’ (provvedano i giudici affinché lo stato non soffra alcun danno). A questo compito istituzionale i magistrati italiani si sono già attrezzati, sin dal tempo di ‘Mani Pulite’. Sarà la democrazia giudiziaria a salvarci dalla corruttibile democrazia liberale?

Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche Università degli Studi di Genova
dino@dinocofrancesco.it

[articolo uscito su Il giornale del Piemonte e della Liguria l’11 marzo]

Dopo il discorso di J.D. Vance – Valori occidentali?

3 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Nella sua breve visita in Europa il vicepresidente americano J.D.Vance ha attaccato duramente i politici europei, accusandoli di aver tradito i “valori occidentali”. Ma che cosa sono i valori occidentali?

Nel suo discorso, o meglio nella sua requisitoria, Vance si riferiva chiaramente a due valori in particolare: la libertà di parola, o free speach, e la democrazia, ovvero la scelta del governo mediante libere elezioni. Gli europei avrebbero tradito la prima con un ricorso eccessivo alla censura (caccia a presunte fake news) e la seconda con l’annullamento delle elezioni in Romania, ufficialmente per interferenze russe, in realtà (secondo Vance) perché gli elettori avevano premiato un candidato sgradito a Bruxelles.

Ma che cosa sono i valori occidentali?

Una possibile risposta è che, dopo la rivoluzione francese e la progressiva introduzione del suffragio universale, i valori che si sono affermati in occidente sono fondamentalmente tre: la libertà, l’eguaglianza, la democrazia.

Su questi tre valori c’è un larghissimo consenso non solo fra la gente, ma pure fra le forze politiche. E allora perché se ne discute tanto animatamente, e ci si divide così spesso, come è successo pochi giorni fa in occasione del discorso di Vance a Monaco?

La ragione è semplice: i grandi valori non vengono solo sottoscritti, ma anche interpretati. E l’interpretazione è il passo più importante, perché da essa dipende fino a che punto si è disposti a difenderli. E da che punto in poi si è disposti ad abbandonarli, o annacquarli, o modificarli. Ogni valore, prima o poi, incontra un limite. Ed è su questo limite, dove si trovi e quando non lo si possa attraversare, che le nostre opinioni divergono.

Prendiamo la libertà. Siamo tutti per la difesa delle libertà fondamentali, ad esempio la libertà di parola e la libertà di movimento.
Ma durante il covid questo nostro accordo di fondo è stato messo a dura prova dalla campagna vaccinale e dalla battaglia sulle fake news. Per alcuni la libertà di movimento andava limitata in nome della sicurezza collettiva (da cui: lockdown, obbligo vaccinale, green pass), per altri quella limitazione era un abuso, un’ingiustificata compressione di diritti fondamentali. Idem per le fake news: per alcuni la circolazione delle opinioni andava severamente limitata sui social, sulla stampa, in tv, per altri quelle limitazioni costituivano un grave attacco alla libertà di opinione e al free speach. Il medesimo discorso si ripropone per la lotta ai discorsi d’odio: c’è chi pensa che certe opinione siano inammissibili e vadano punite, c’è chi pensa che la libertà di parola o è totale o non è.

Prendiamo l’ideale dell’eguaglianza. Pochi lo contestano come idea regolativa, come principio generale. Ma è sul modo di interpretarlo che si combattono le battaglie più aspre fra chi lo intende come eguaglianza delle opportunità, e chi pensa che l’eguaglianza possa essere imposta con le quote riservate per le categorie protette. C’è chi privilegia l’inclusione (le atlete trans devono poter gareggiare con le atlete donna), e chi privilegia il principio di equità (nessuno può partire con vantaggi o handicap). C’è chi interpreta l’eguaglianza come estensione illimitata dei diritti umani, e chi pensa esistano anche i diritti dei popoli, che a quella estensione possono porre un limite.

E la democrazia? Almeno su quella sembrerebbe che siamo tutti d’accordo. Ma non è così. Alcuni pensano che le regole elettorali vadano sempre applicate, e il risultato del voto accettato. Senza eccezioni. Altri, invece, pensano che alcuni partiti, considerati non democratici o nemici della democrazia, vadano esclusi dalla competizione elettorale, o quantomeno esclusi dal governo, se non si riesce a scioglierli prima.

Ed eccoci di ritorno al discorso di Vance. Chi ha tradito i valori occidentali? Chi li difende veramente?

La risposta è che nessuno, né Trump né von der Leyen, è il vero paladino dei valori della nostra civiltà. Perché quei valori li interpretiamo in modi diversi. Per Trump la libertà di opinione è un assoluto, nessuna forza politica può essere esclusa dal voto (di qui i buoni rapporti con l’AfD), l’equità è più importante dell’inclusione. Per l’establishment europeo (ma anche per quello americano prima di Trump) la lotta alle fake news e ai discorsi d’odio giustifica la censura, certi partiti vanno tenuti fuori dal governo (dottrina del “cordone sanitario”), l’inclusione deve prevalere sull’equità.

L’unica cosa che, forse, accomuna le due culture atlantiche, è l’incapacità di prendere atto che, nella società moderna, il “politeismo dei valori” – ovvero la coesistenza, così ben descritta da Max Weber, fra valori contrastanti nessuno dei quali può pretendere di sovrastare gli altri – è un tratto per così dire costitutivo. Nessuno ha veramente tradito i valori occidentali, perché quei valori devono essere interpretati. E nessuno degli attori in campo è nella posizione di fissarne l’interpretazione autentica.

[articolo uscito sul Messaggero il 2 marzo 2025]

Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

27 Aprile 2024 - di Luca Ricolfi

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Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)

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