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Società

Eredità Agnelli – La Stampa o la Juve?

17 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Forse poteva scegliere un altro momento, John Elkann, per proclamare enfaticamente: “la Juventus, la nostra storia, i nostri valori non sono in vendita”. Sono stato un tifoso piuttosto sfegatato della Juventus, finché ho seguito il calcio. Come (ex) tifoso, come torinese, come cittadino sabaudo, mi può anche far piacere che la Juventus resti in mani Agnelli, l’unica famiglia regnante sopravvissuta al crollo della monarchia. Nello stesso tempo, però, non posso evitare un certo s-giài (ribrezzo, in piemontese) per la contiguità temporale fra la notizia della mancata cessione della Juventus (a fronte di un’offerta di oltre un miliardo di euro) e le notizie sulla affannosa ricerca di un compratore per l’intero gruppo Gedi (che controlla Stampa e Repubblica, e vale circa un decimo della Juventus).

Con questo non voglio dire che un gruppo economico non abbia pieno diritto di acquistare e vendere asset in base alle proprie strategie e convenienze (è il capitalismo, bellezza!), ma – proprio perché riconosco questo diritto – trovo di estremo cattivo gusto tirare in ballo i “valori” e la “storia” della famiglia Agnelli quando si tratta di non vendere una squadra di calcio, e non farlo quando in ballo c’è la vendita di un quotidiano – la Stampa – che di quella famiglia è stata per lungo tempo espressione e longa manus. Avrei trovato più elegante un composto silenzio sulle ragioni che hanno condotto Exor, la cassaforte degli Agnelli che ha in pancia sia la Juventus sia il gruppo Gedi, a salvare società e atleti di una squadra di calcio, e abbandonare società e giornalisti di un quotidiano.

Dobbiamo dunque dare ragione a quanti, in queste settimane, si sono stracciati le vesti per la possibile scomparsa o (riformattazione, con cambio di linea politica) di due quotidiani entrambi schierati a sinistra? Dobbiamo dare ragione alla segretaria del Pd che nell’operazione intravede niente meno che “lo smantellamento di un presidio fondamentale della democrazia”?

Per certi versi no, proprio no. Nessuno dei due giornali può pretendere di costituire “un presidio fondamentale della democrazia”, non solo per la partigianeria di entrambi, ma perché nessun quotidiano, considerato in sé, può svolgere quel ruolo. Che un singolo quotidiano, di destra, sinistra o centro arrivi a pensare di essere essenziale per la democrazia è solo segno di autosopravvalutazione, o quanto meno di scarso senso delle proporzioni.

Per un altro verso, però, Elly Schlein ha ragione. Il vero “presidio della democrazia” non è l’esistenza di Repubblica, ma il pluralismo dell’informazione. Quel che conta non è che sopravviva il giornale che si percepisce come il numero uno, incarnazione stessa della democrazia, ma che nella sfera dei media il gioco delle opinioni sia ragionevolmente bilanciato; che non ci siano troppi quotidiani da una parte, e troppo pochi (o troppo piccoli) dall’altra; e magari pure che i conti di ogni giornale siano in ordine.

Da questo punto di vista le preoccupazioni della segretaria del Pd non sono infondate. Se scomparissero Stampa e Repubblica, che da anni sono entrambi assai vicini al maggiore partito della sinistra, effettivamente si determinerebbe uno squilibrio. La destra e i moderati hanno i loro quotidiani – Giornale, Libero, Verità, Nazione, Tempo, Resto del Carlino, Giorno. I Cinque Stelle hanno il Fatto Quotidiano, unico giornale nazionale in crescita. La sinistra-sinistra (comunista e non) ha il Manifesto, Domani, l’Unità. Riformisti e liberal-democratici hanno il Foglio e il Riformista. E il Pd? Il Pd aveva Stampa e Repubblica, ma potrebbe – per la prima volta –  venirsi a trovare senza un giornale di riferimento. E questo, senza dubbio, sarebbe un male per la democrazia. Ma sarebbe un male anche per il Pd?

Qualcuno ne dubita. Secondo Claudio Velardi, direttore del Riformista, è stato proprio il giornale di Scalfari, con la sua pretesa di egemonizzare la sinistra indirizzandola verso i “ceti medi riflessivi” e la cultura dei diritti, a decretarne il declino, spegnendo la sua vocazione originaria di paladina dei ceti popolari. Se Velardi ha ragione, la scomparsa (o la metamorfosi) di Repubblica potrebbe, paradossalmente, rivelarsi la scossa giusta. Quella in grado di riavviare il motore di un Pd troppo succube del giornale-partito che per tanti anni ha preteso di guidarla.

Non ci resta che aspettare.

[articolo uscito sulla Ragione il 16 dicembre 2025]

A proposito di Pasolini – Sinistra e nostalgia

15 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Pasolini era un conservatore? Pasolini non era di sinistra? Pasolini era di destra?

È probabile che, dell’edizione di Atreju che si conclude oggi, saranno queste le domande che più a lungo ci accompagneranno. Domande interessanti, su cui in tanti si sono interrogati. C’è chi ha risposto sì, c’è chi ha negato risolutamente, c’è chi ha concluso che Pasolini è inclassificabile.

Forse, però, la domanda giusta è un’altra. Dopotutto, su chi fosse veramente Pasolini non ci sono grandi dubbi o divergenze. Più che chiederci se era un conservatore, dovremmo chiederci che cosa davvero significhi essere un conservatore e, in secondo luogo, se si possa – al tempo stesso – essere conservatori e di sinistra.

Sul fatto che nel pensiero di Pasolini si possano rintracciare elementi di conservatorismo credo non vi possano essere dubbi. Nella sua critica del mito dello sviluppo, nel suo rimpianto per il mondo di ieri (meravigliosamente descritta con la metafora della “scomparsa delle lucciole”), nella sua ostilità alla legge sull’aborto vista come sottomissione al potere dei consumi (il “nuovo fascismo”), echeggiano sicuramente motivi conservatori, per non dire retrogradi o reazionari. Dunque, alla domanda se Pasolini fosse un conservatore tenderei a rispondere: di più, Pasolini era un “indietrista”, che guardava in modo romantico all’Italia povera e contadina, e pensava che lo “sviluppo”, con la dilatazione dei consumi delle masse e la liberazione sessuale, non fosse progresso. Perché, per lui, il vero progresso era anche, se non innanzitutto, liberazione dall’alienazione consumistica, rinuncia al superfluo.

Ma Pasolini era di sinistra, o perlomeno si sentiva tale, e tale era considerato dai più. Eccoci quindi al vero interrogativo: che cosa significa essere di sinistra? si può essere di sinistra e conservatori? la nostalgia per il passato è un’esclusiva della destra?

Ebbene, se sono queste le domande, tutto diventa più chiaro e semplice. Perché una sinistra conservatrice, anti-borghese, ostile al consumismo, anti-individualista,  sensibile alle istanze comunitarie, critica verso l’ideologia dei diritti umani, è sempre esistita, almeno dai tempi di Marx. Anzi il suo capostipite è Marx stesso, che soprattutto ne La questione ebraica (1844), pone con forza, e sorprendente crudezza, il problema delle basi del legame sociale. Basi che, a suo parere, dovrebbero essere solidaristiche e perciò stesso diffidenti verso “i cosiddetti diritti dell’uomo”. I quali, per Marx, “non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su sé stessa”.

Questa linea di pensiero, che potremmo chiamare sinistra antica, stigmatizza ora i consumi superflui (Marcuse), ora l’industria culturale (Adorno, Horkheimer), ora la crescita (Latouche), ora il cosmopolitismo e l’ideologia dei diritti umani (Michéa, Žižek), ora l’individualismo e l’atomismo della modernità (Bauman). E scorre come un fiume carsico sotto il cammino della sinistra ufficiale. La cui storia può anche essere descritta come un lento congedo dalla visione  collettivistico-solidaristica del legame sociale (tipica dell’Ottocento e cara a Marx), verso una concezione individualistica, per cui il cemento della società è un contratto sociale fondato su principi universali (il “patriottismo costituzionale”, teorizzato da Jürgen Habermas). Il nucleo del progresso diventa quindi la crescita della libertà individuale, fatta di consumi crescenti e espansione dei diritti dell’individuo, non importa quanto isolato e separato dagli altri individui. Un ideale che in occidente ha avuto nella Svezia socialdemocratica la sua più avanzata, esemplare, e pure discutibile realizzazione.

È questo tipo di sinistra, allora nascente, da cui Pasolini prendeva le distanze, senza per questo diventare un intellettuale di destra. Non gli occorreva cambiare campo, non tanto perché la destra di allora era essenzialmente la Dc, ma perché in quel tempo esisteva e contava ancora una sinistra comunitaria, rispettosa della tradizione, radicata nel “mondo di sotto”, non ancora imborghesita e ostaggio della cultura dei diritti. Pasolini probabilmente sentiva che, sotto la pressione del movimento studentesco e del femminismo, quella sinistra antica avrebbe presto cambiato pelle. Per questo non fu mai tenero con gli studenti, visti come figli di papà, né con le aspirazioni delle donne, viste come avanguardie di una borghesissima rivoluzione del costume.

Ma quando il cambio di pelle si produsse effettivamente?

Credo si possa dire che quel tipo di sinistra, che proprio perché antica pensava ancora in termini di doveri e di sacrifici, si inabissò in un arco di tempo preciso, fra il 1977 e il 1984. Esisteva ancora nel triennio 1977-1979, quando Berlinguer e Lama, in nome dell’interesse collettivo, lanciarono e difesero la linea dell’austerità a dispetto dei sacrifici che comportava per i lavoratori. Ma non c’era già più nel 1984, quando la morte di Berlinguer sottrasse al maggiore partito della sinistra l’unico dirigente capace di mantenere un legame forte con i ceti popolari. Dopo la morte di Berlinguer la sinistra antica, orgogliosamente comunitaria e anti-individualista, sopravvive solo a livello culturale (nel pensiero di molti filosofi) e in piccole formazioni politiche, radicali e minoritarie.

Pasolini non visse abbastanza per assistere all’inabissamento della sinistra antica e al trionfo della “vita facilitata”, così ben descritta dal sociologo Gian Paolo Ceserani in un suo libro del 1977. Non possiamo sapere con certezza come Pasolini avrebbe raccontato il paese che allora stava prendendo forma, ma sappiamo come vedeva l’Italia pochi anni prima di morire: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze. Quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro”.

Se questa non è nostalgia, che cosa è?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 dicembre 2025]

No al fascistometro!

10 Dicembre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Vistodagenova

 

Nella ‘Democrazia in America’, Alexis de Tocqueville scriveva quasi due secoli fa: “nel mondo moderno, l’in­dipendenza della stampa è l’elemento capitale e, per cosi dire, costi­tutivo della libertà. Un popolo che vuole restare libero ha dunque il diritto di esigere che la si rispetti ad ogni costo” ma confessava di non avere ”per la libertà della stampa quell’amore completo e immediato che si accorda alle cose sovranamente buone per loro natura. L’apprezzo per i mali che essa impedisce, molto più che per il bene che essa fa. Purtroppo, concludeva, “in materia di stampa non vi è un giusto mezzo tra la servitù e la licenza. Per raccogliere gli inestimabili beni, che la libertà di stampa assicura, bisogna sapersi sottomettere agli inevitabili mali ch’essa fa sorgere”. Quando vedo il catalogo dell’editrice ‘Passaggio al bosco”—con i libri di Corneliu Codreanu, Leon Degrelle, Julius Evola—non posso evitare un profondo sconforto e, tuttavia, non mi rassegnerò mai a considerare reato un’opinione e a chiedere la censura su scritti che mi ripugnano, fosse anche il ‘Mein Kampf’ di Adolf Hitler. Se alla mostra della Fiera di Roma, ’Più libri, più liberi’ non si vogliono testi apologetici del nazifascismo, perché lo stesso divieto non dovrebbe valere per le librerie o per le bancarelle? In realtà, l’aver fatto dell’apologia del fascismo un reato di competenza del questore e del magistrato è un vulnus della ’civiltà del diritto’, che distingue la colpa morale, dal reato penale e dal peccato. Le opinioni ‘indecenti’ vanno sottoposte alla sanzione della società civile (perdita di stima, isolamento del trasgressore etc.) non ai tribunali. Anche perché è difficile stabilire quando un’opinione diventa reato. Tanti anni fa, si discusse, in un’antica società culturale ligure, se accogliere come socio un docente universitario di Storia delle dottrine politiche. Qualcuno, uno storico comunista di nobile famiglia genovese, si oppose dicendo che era un fascista: alla richiesta di provarlo, lo storico ricordò la sua collaborazione a ‘Storia contemporanea’ ,la rivista fondata e diretta dal più grande storico del fascismo del secolo scorso, Renzo De Felice. Una volta ammesso il ‘fascistometro’, è difficile che l’autorità, incaricata della ‘misurazione’ ,non abusi del suo potere, anche per ragioni private. Per parafrasare le parole del gerarca nazista, potrebbe sempre dire:”sono io che decido chi è fascista e chi non lo è”.

 

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 dicembre 2025]

A proposto di legittima difesa – Paura o rabbia?

10 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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La recente condanna a 14 anni di carcere del gioielliere Mario Roggero – colpevole di aver inseguito e ucciso due rapinatori che avevano assalito il suo esercizio a Grinzane Cavour mettendo in pericolo la vita di moglie e figlia – ha riaperto per l’ennesima volta il dibattito sulla legittima difesa. Da una parte i leghisti, per i quali la difesa è sempre legittima, dall’altra i progressisti per cui non lo è quasi mai.

La vicenda delle norme sulla legittima difesa è abbastanza atipica, perché è in marcata controtendenza rispetto al trend permissivista e perdonista con cui negli ultimi decenni (ma per certi versi negli ultimi secoli) sono evolute le norme penali e più in generale le procedure di contrasto alla violenza. Non occorre evocare le tesi di Norbert Elias sul processo di civilizzazione”, per rendersi conto che, da tempo immemore,. la tendenza dominante è alla mitigazione delle sanzioni in tutti i campi: abolizione della pena capitale, amnistie, indulti, pene alternative al carcere, sconti di pena, allentamento delle regole in materia migratoria, eccetera. Una tendenza, questa, che è stata anche di tipo culturale, con l’ampia diffusione di teorie volte a promuovere indulgenza, perdono, permissività un po’ in tutti i campi, dalla scuola alla giustizia. Ci sono naturalmente anche eccezioni e controtendenze, ma negli ultimi due secoli il trend è stato quello.

Per questo può suscitare un briciolo di sorpresa che il legislatore italiano, in materia di legittima difesa, si sia mosso perlopiù nella direzione esattamente opposta. Nel 2006 il governo Berlusconi varò una legge che allargava i limiti della legittima difesa (legge 59), nel 2019 il governo Conte I procedette ad un ulteriore allargamento (legge 36) mediante una serie di modifiche del codice penale (articoli 52 e 55).

La più significativa di tali modifiche è quella che introduce come causa di non punibilità  lo stato di “grave turbamento” del soggetto che, aggredito, reagisce a sua volta con violenza. Quest’ultima modifica della legge, inevitabilmente, conferisce al giudice un enorme potere discrezionale, perché la condizione di “grave turbamento” non può essere né provata né esclusa in modo obiettivo.

Ma che cosa significa “grave turbamento”? È verosimile ipotizzare che il gioielliere di Grinzane Cavour abbia sparato perché soggetto a uno stato di grave turbamento? Si può essere gravemente turbati di fronte a un gruppo di rapinatori in fuga?

Sfortunatamente non esiste una interpretazione univoca del termine turbamento. Qualcuno potrebbe leggerlo come angoscia, paura, terrore. Altri potrebbero associarlo al concetto di vendetta: un grave torto subito provoca uno stato di turbamento, che suscita rabbia e desiderio di vendetta.

C’è una differenza fondamentale, però, fra le due interpretazioni. Nella nostra cultura attuale la paura è un sentimento legittimo, accettato, compreso. E quindi atto a giustificare le azioni che dalla paura stessa sono motivate e dalla paura stessa possono essere mosse.

Rabbia, risentimento e desiderio di vendetta invece no: sono sentimenti che consideriamo inammissibili, in quanto confliggono con il risultato di 2500 anni di evoluzione della Giustizia in occidente, grosso modo dall’Orestea di Eschilo (V secolo a.C.) a oggi. È questa la tesi energicamente sostenuta da Martha Nussbaum, forse la principale filosofa americana contemporanea, nel suo importante libro Anger and Forgiveness (sottotitolo: Resentment, Generosity, Justice), pubblicato nel 2016.

Se riflettiamo su questa evoluzione, che specie negli ultimi 80 anni (dopo la seconda guerra mondiale), con la proliferazione degli organismi sovranazionali e del diritto internazionale, ha avuto una straordinaria espansione, non possiamo stupirci che i giudici del gioielliere di Grinzane Cavour, come quelli di altre vicende analoghe, abbiano deciso per la colpevolezza. Per loro il gioielliere non poteva essere stato mosso dal terrore, perché i rapinatori erano ormai in fuga, e non aveva diritto al risentimento, perché il desiderio di vendetta che può scaturirne non è compatibile con l’idea contemporanea di Giustizia.

Tutto logico e comprensibile, salvo che per un fatto: la Giustizia della tolleranza, della generosità e del perdono di fatto funziona in modo così iniquo, così illogico, così umiliante per le vittime, che la gente poco per volta sta riscoprendo il concetto arcaico di Giustizia, quello contro cui si scaglia Martha Nussbaum nel suo libro. Quando vede ladri sistematicamente scarcerati dopo un furto, stupratori in libertà dopo pochi mesi, parenti dei rapinatori che pretendono milioni di euro di risarcimento dai rapinati, la gente è “gravemente turbata” non tanto perché è terrorizzata dai criminali, ma perché vede devastato il proprio naturale senso di giustizia.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 dicembre 2025]

La sinistra e il partito del senso comune

9 Dicembre 2025 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni scorsi Renato Mannheimer ha reso noti i dati di un recente sondaggio Eumetra sull’atteggiamento degli italiani nei confronti dei “bambini nel bosco”, ovvero della scelta dei servizi sociali (e del tribunale dei minori dell’Aquila) di togliere tre bambini ai genitori che li avevano allevati in modo un po’ troppo spartano. Non intendo minimamente entrare sulle buone ragioni di entrambe le parti (servizi sociali e genitori ecologisti), ma vorrei soffermarmi su un altro punto: la frattura emersa dall’indagine.

Gli elettori che hanno espresso un’opinione (quasi l’85% degli intervistati) sono spaccati in due gruppi (pro e contro i genitori), ma i difensori della famiglia che ha allevato i bambini nel bosco prevalgono piuttosto nettamente sui critici.

Che cosa divide difensori e critici?

A prima vista parrebbe una frattura politica, con gli elettori progressisti schierati in maggioranza con i servizi sociali e quelli conservatori con la famiglia anglo-australiana. Ma non è semplicemente così. Fra i paladini della famiglia vi sono anche gli elettori Cinque Stelle e – forse questo è il risultato più interessante – la netta maggioranza degli indecisi. Quanto alla condizione sociale, i ceti alti sono tendenzialmente pro-servizi sociali, quelli bassi pro-famiglia. La frattura, in altre parole, ha un profilo più culturale che politico. L’Italia che detesta l’invadenza dei servizi sociali e stravede per la favola romantica dei bambini nel bosco è l’Italia del senso comune, che rifugge dagli schemi astratti e mal sopporta le ingerenze pedagogiche dell’establishment.

L’indagine di Mannheimer, a mio parere, certifica che questa Italia è maggioranza nel paese, e guarda più a destra che a sinistra, anche quando sembra votare a sinistra. Emblematico il caso dei Cinque Stelle, un movimento nato fuori dello schema destra-sinistra, poi smottato a destra (con l’alleanza Salvini-Di Maio), infine approdato a sinistra (con il governo Conte II), ma tuttora attratto da posizioni che la sinistra doc – quella del Pd e dei riformisti – considera di destra, se non reazionarie.

Quali posizioni? Innanzitutto quelle sull’immigrazione, un tema che più di altri si presta ad attivare la logica del senso comune, fuori e contro gli schematismi della politica. Non tutti lo ricordano, ma durante la crisi dei migranti del 2018, quando l’Espresso fece la famosa copertina “Uomini e no” che di fatto dava del non-umano a Salvini, i sondaggi mostravano che il 70% degli elettori stava con la politica dei porti chiusi del ministro dell’Interno, in barba alle proprie credenze politiche.

E poi le posizioni sull’educazione dei figli, con il primato della famiglia rispetto allo Stato: la sinistra doc crede nel ruolo pedagogico dello Stato (la scuola come “palestra di democrazia”), la gente comune – anche quando non lo conosce – istintivamente sottoscrive l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che afferma che “i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”. Per non parlare dell’atteggiamento verso i magistrati: i progressisti tendono a vederli come figure salvifiche e insindacabili, l’Italia del senso comune ne riconosce a occhio nudo abusi, errori e storture, specie riguardo ai migranti e ai reati di allarme sociale.

Tutto questo suggerisce che oggi come ieri, accanto alle maggioranze partitico-elettorali che possono farsi e disfarsi a seconda delle circostanze, esiste e perdura una sorta di partito del senso comune, che è maggioranza nel paese e può condizionare in modo decisivo la competizione elettorale. Finché il conflitto verte su temi freddi (le tasse, le riforme, il federalismo, l’istruzione, la sanità) la sinistra, che ha quasi tutto l’establishment culturale dalla sua parte, può giocare la partita. Ma se e quando il conflitto si sposta su questioni calde, che toccano profondamente i sentimenti delle persone e sono in grado di attivare gli schemi del senso comune, per la sinistra la partita si fa difficile, perché il partito del senso comune è maggioranza nel paese, e guarda più a destra che a sinistra.

Perché più a destra?

Fondamentalmente perché la sinistra ha maturato nel tempo un profondo disprezzo verso il senso comune e i suoi portatori, che considera espressione della “pancia del paese” o “popolo bue”, senza rendersi conto che il comune sentire della gente veicola anche una visione del mondo, che poggia su principi più elementari ma non meno legittimi di quelli progressisti.

Forse è anche per questo che, negli oltre tre decenni della seconda Repubblica, solo una volta – nel 2006, alla fine di una legislatura berlusconiana assai deludente – la sinistra è riuscita ad attrarre il 50% dei consensi. In tutti gli altri casi un’analisi accurata della distribuzione del voto, capace di tener conto della natura bifronte dei Cinque Stelle, rivela che il baricentro dell’elettorato è sempre rimasto sbilanciato a destra.

Se fossi Elly Schlein, di questo mi preoccuperei, più che dell’eterno gioco fra correnti e sottocorrenti del Pd.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 dicembre 2025]

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