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Società

Perché Salvini e Schlein sono un problema – Smottamento al centro?

6 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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La teoria secondo cui le elezioni si vincono al centro, convincendo l’elettore moderato, da un bel po’ di anni (almeno una decina) non gode di grande credito fra scienziati politici e sondaggisti. E questo a dispetto dell’autorevolezza di coloro che per primi ebbero a proporla, l’economista Duncan Black (nel 1948) e il politologo Anthony Downs, il padre della cosiddetta “teoria economica della democrazia” (titolo del suo libro, uscito nel 1957). Da un bel po’ di anni si sente ripetere che, in realtà, il fattore decisivo per vincere è galvanizzare il proprio elettorato, e che questo richiede uno spostamento verso le posizioni estreme: i successi elettorali delle forze estremiste, populiste o anti-sistema ne sarebbero la prova.

Ultimamente, almeno in Italia, sembra che il vento stia cambiando di nuovo. A farlo cambiare, però, non paiono essere gli insuccessi della sinistra estrema negli Stati Uniti (Bernie Sanders, Alexandra Ocasio Cortez) e nel Regno Unito (Geremy Corbyn), ma la banale constatazione che la linea estremista di Elly Schlein ha portato pochi voti, non mobilita affatto (vedi il flop del referendum della Cgil), e soprattutto rende impossibile la formazione di una coalizione larga, come quelle che per due volte portarono Prodi a Palazzo Chigi e permisero di sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il contributo decisivo alla crisi dell’estremismo di sinistra sta venendo, in questi giorni, dalle reazioni alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere. La linea ufficiale del Pd è nettamente contraria (“la democrazia è in pericolo”, “Meloni vuole i pieni poteri”), ma deve fare i conti con il dissenso di parecchi esponenti tutt’altro che marginali del partito, o più in generale del campo progressista. Giusto per fare qualche nome, si sono espressi a favore della riforma, in ordine alfabetico: Goffredo Bettini, Emma Bonino, Carlo Calenda, Stefano Ceccanti, Paola Concia, Vincenzo De Luca, Antonio Di Pietro, Roberto Giachetti, Claudio Martelli, Enrico Morando, Claudio Petruccioli, Cesare Salvi. In breve: una parte della sinistra voterà sì al referendum, sfidando (e neutralizzando) il racconto estremista-apocalittico di Elly Schlein. Mi pare difficile, specie se dovesse vincere il sì, che il Pd possa andare alle elezioni amputando completamente le correnti riformiste-liberali-garantiste del fronte progressista.

Si potrebbe pensare che quello di non soccombere (elettoralmente) sotto il peso dell’estremismo sia soprattutto un problema della sinistra. Ma qualche indizio fa pensare che, sia pure in forme assai diverse, un problema simile sia destinato ad affliggere anche la destra. Dove il problema non è più il partito di Giorgia Meloni, il link ideologico con il Movimento Sociale Italiano, l’anti-europeismo, tutti test ampiamente superati, bensì il partito di Matteo Salvini. Un alleato sempre più anti-europeo, insofferente, aggressivo, sopra le righe. E ultimamente reso ancora meno governabile dall’innesto del generale Vannacci e delle sue truppe. Solo i commentatori più visceralmente ostili a Giorgia Meloni non si rendono conto che è la presenza della Lega, non di Fratelli d’Italia, che permette di dire che in Italia l’estrema destra è al governo.

Se la sinistra ha il problema di non cancellare la sua faccia riformista, la destra ha il problema speculare di attenuare almeno un po’ la sua faccia estremista. Un compito forse ancora più difficile, visto che Salvini – nonostante la sua incapacità di risollevare la Lega dalla stagnazione (o dal declino?) elettorale – appare inamovibile.

Ma lo è davvero?

Se lo è, non è per mancanza di valide alternative, ma perché né le vecchie glorie (Zaia, Fedriga, Giorgetti) né le nuove leve specie femminili (Ceccardi, Tovaglieri, Sardone) se la sentono di sfidare il capo.

Vedremo come andrà a finire. Se è vero, come sostengono alcuni politologi, che l’elettore sceglie la coalizione più rassicurante (o meno inquietante), le prossime elezioni potrebbe vincerle chi sarà più capace di frenare la deriva estremista che affligge entrambi gli schieramenti.

[articolo uscito sulla Ragione il 4 novembre 2025]

“Occidente criminale?” intervista di Mario Menichella a Claudio Pini

4 Novembre 2025 - di Mario Menichella

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In tempi di menzogna universale,

dire la verità è un atto rivoluzionario”.

                                       George Orwell

“Occidente Criminale – Il volto nascosto del potere globale” è un libro destinato a far discutere e, si spera, risvegliare la classe politica italiana ed europea. Non solo per i temi affrontati, ma perché – come già accaduto con la gestione della pandemia da Covid-19 e ora con i conflitti internazionali al centro dell’attenzione mondiale – la verità può risultare scomoda, soprattutto quando si scontra con censura, narrazioni distorte e silenzi dei media occidentali.

L’autore è Claudio Pini, economista ed esperto di finanza, il quale ripercorre passo dopo passo – con tono misurato ma supportato da numerosi fatti documentati e riferimenti storici – il percorso che ha condotto alla situazione attuale: un’Europa priva di una reale autonomia politica, in larga parte subordinata agli interessi degli Stati Uniti e coinvolta in una guerra per procura che, se non risolta, potrebbe evolvere in tempi brevi in un conflitto globale aperto.

L’economia, in effetti, rappresenta la vera chiave interpretativa dell’attuale ordine mondiale multipolare, poiché costituisce il motore primario che orienta le azioni degli attori globali. In questo contesto, gli Stati Uniti svolgono un ruolo centrale nell’egemonia occidentale, che si esprime in quattro dimensioni fondamentali: economico-monetaria (con il predominio del dollaro), linguistica (l’inglese come lingua globale), militare (attraverso alleanze come la NATO) e culturale (con la diffusione dell’“American way of life”).

Ciò che colpisce è la straordinaria lucidità dell’analisi di Pini, che ricorda quella dei migliori esperti di geopolitica e rende la lettura estremamente interessante e piacevole, senza richiedere conoscenze pregresse. L’Autore non è né filo-americano né filo-russo, ma semplicemente filo-italiano, come a mio avviso ogni vero cittadino e politico dovrebbe essere, non fosse altro per onorare quella patria per la quale molti nostri antenati hanno dato la vita.

Ho quindi colto l’occasione per una piacevole intervista-chiacchierata con l’Autore del libro, che vi consiglio vivamente di leggere ed è facilmente acquistabile sia nella versione cartacea che in quella digitale sulla principale piattaforma di e-commerce.

Domanda: Una delle cose che più mi ha colpito del suo libro è come una rilettura critica degli eventi storici, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino ad arrivare a quelli più recenti, risulti fondamentale per capire come sia stato forgiato il contesto attuale, gravido di pericoli senza precedenti. La maggior parte delle persone, non avendo questo retroterra culturale, hanno quindi difficoltà a interpretare correttamente gli eventi di questi ultimi mesi o anni, al di là dell’eventuale malafede o delle proprie idee preconcette. Quali conseguenze pratiche ha, tutto ciò, per chi ci governa?

Risposta: È proprio questo il punto da cui nasce Occidente Criminale: il fatto che la maggior parte delle persone viva immersa in un presente senza memoria, come se ogni evento fosse isolato e privo di radici. Ma la realtà è che il potere si costruisce sulla continuità, e l’Occidente – inteso come insieme di élite politiche, economiche e militari – ha saputo mantenere un controllo capillare proprio perché ha riscritto, distorto o rimosso la memoria collettiva degli ultimi settant’anni.

Quando manca questa consapevolezza storica, i governi possono manipolare con maggiore facilità il consenso, giustificare guerre, sanzioni o crisi economiche come inevitabili o “moralmente giuste”.

Il cittadino medio, privo degli strumenti per comprendere la genealogia di certi processi, finisce per accettare narrazioni semplificate: “noi i buoni, loro i cattivi”, “guerra per la libertà”, “emergenza per la sicurezza”.

In termini pratici, questo vuoto di conoscenza offre a chi governa un enorme vantaggio politico e psicologico.

Permette di orientare l’opinione pubblica secondo interessi che spesso nulla hanno a che vedere con la democrazia o con il bene comune.

E, cosa ancor più grave, legittima decisioni che in un contesto realmente informato verrebbero rifiutate dalla maggioranza dei cittadini.

In sostanza, la disinformazione storica non è un effetto collaterale, ma una strategia di potere.

Più la società dimentica, più chi governa può ripetere gli stessi errori — o meglio, gli stessi inganni — sotto nuove etichette.

D.: Nel famoso libro di Samuel P. Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (1996), l’autore si aspettava che i futuri conflitti globali non sarebbero stati più ideologici o economici, ma culturali e civili, e che sarebbero nati lungo le linee di faglia fra le civiltà (occidentale, ortodossa, sinica, islamica, etc.). In altre parole, non più conflitti “Est vs. Ovest” o “capitalismo vs. comunismo”, ma ad esempio “Occidente vs. altre civiltà”. Cosa ne pensa?

R.: Il merito di Huntington è stato quello di cogliere, già negli anni ’90, il venir meno delle vecchie categorie ideologiche che avevano dominato la Guerra Fredda. Tuttavia, a mio avviso, il suo modello dello “scontro di civiltà” è una lettura parziale e funzionale alla narrativa occidentale.

Nel momento in cui il bipolarismo si dissolve, l’Occidente — in particolare gli Stati Uniti — ha bisogno di una nuova giustificazione per mantenere la propria egemonia globale.

Definire il mondo in termini di “noi contro loro”, “civiltà contro civiltà”, ha offerto una cornice perfetta per sostituire il vecchio nemico comunista con nuovi nemici “culturali”: l’Islam, la Russia ortodossa, e più recentemente la Cina.

In questo senso, Huntington non descrive un fenomeno naturale, ma prefigura una strategia politica. Lo “scontro di civiltà” diventa una profezia che si autoavvera, un paradigma utile a giustificare interventi militari, guerre preventive e politiche di contenimento economico.

Dietro la presunta difesa dei “valori occidentali” si cela la volontà di preservare un ordine mondiale fondato sul controllo delle risorse, dei mercati e dell’informazione.

Se guardiamo ai fatti successivi al 1996 — dalla guerra nei Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla crisi ucraina — vediamo come le fratture culturali siano state spesso create o amplificate artificialmente.

Il vero scontro non è mai stato tra civiltà, ma tra poteri: da una parte, un sistema occidentale che cerca di perpetuare la propria centralità; dall’altra, realtà emergenti che rivendicano sovranità, identità e autonomia.

In altre parole, Huntington ha colto il sintomo, ma non la causa.

Le guerre del XXI secolo non nascono dalle differenze culturali, bensì dalla crisi del modello di dominio occidentale, che, non potendo più reggersi su basi economiche e morali, cerca un nuovo nemico per legittimarsi.

D.: All’inizio degli anni Novanta, come in sostanza scrive nel suo libro, “la dissoluzione dell’URSS e lo scioglimento del Patto di Varsavia hanno alimentato in Occidente l’idea di ‘fine della storia’ – alimentata dal saggio omonimo del politologo americano Francis Fukuyama – secondo cui democrazia liberale ed economia di mercato costituirebbero l’approdo naturale dell’umanità”. Che cosa c’era di errato in quella visione, evidentemente miope, di un mondo unipolare?

R.: L’errore di fondo della visione proposta da Fukuyama — e condivisa da gran parte delle élite occidentali negli anni ’90 — è stato quello di scambiare una vittoria geopolitica per una verità universale.

La caduta dell’Unione Sovietica non segnava la “fine della storia”, ma soltanto la fine di un equilibrio.

L’Occidente ha interpretato il crollo del blocco orientale come la conferma definitiva della propria superiorità morale, politica ed economica, immaginando che l’intero pianeta si sarebbe spontaneamente convertito alla democrazia liberale e al libero mercato.

In realtà, quello che è accaduto è stato esattamente l’opposto: la fine dei contrappesi ha aperto la strada a un imperialismo globale, economico e culturale, che si è manifestato sotto forma di “esportazione della democrazia”, guerre umanitarie e globalizzazione finanziaria.

Privato di un antagonista ideologico, l’Occidente ha perso anche il proprio senso di limite.

Ha creduto di poter riscrivere le regole del mondo, di poter imporre ovunque il proprio modello, non accorgendosi che così facendo stava minando le basi della propria legittimità.

La “fine della storia” è stata, in realtà, l’inizio di una nuova forma di dominio, più subdola perché mascherata da progresso e libertà.

Dietro la retorica dei diritti e della democrazia si è consolidato un sistema centrato sul potere delle multinazionali, delle istituzioni finanziarie e delle alleanze militari, che hanno sostituito la sovranità dei popoli con la logica del profitto e della sicurezza globale.

A distanza di trent’anni possiamo dire che Fukuyama aveva scambiato la fine di un’epoca per l’inizio di una verità assoluta, e che quella visione unipolare è stata non solo miope, ma autodistruttiva.

Ha impedito all’Occidente di interrogarsi sui propri errori, di riformarsi, di comprendere la complessità del mondo che stava nascendo.

E oggi ne paghiamo le conseguenze: un pianeta frammentato, una fiducia collettiva erosa e una crescente ostilità verso l’arroganza di chi, proclamandosi vincitore, non ha saputo governare la propria vittoria.

D.: Il controllo della narrazione sinergico da parte dei governi e dei grandi media occidentali – social e non – nasconde la verità quando essa è scomoda –  in particolare per certi interessi economici, politici e militari – e permette oggi di orientare l’opinione pubblica, gettando discredito su chi dissente, si defila dal “mainstream” e dall’“appecoronamento” di massa. Inoltre, permette di operare una censura preventiva, con la scusa del “fact checking” o altro. Lo abbiamo visto tutti in maniera plateale nella fase pandemica. Come avviene ciò e perché è un problema estremamente serio?

R.: Il controllo della narrazione è oggi il più potente strumento di potere esistente.

Se nel Novecento le guerre si combattevano con carri armati e bombe, oggi si combattono con le parole, le immagini e le emozioni.

L’obiettivo non è più soltanto conquistare territori, ma occupare le menti, orientare il modo in cui le persone percepiscono la realtà.

Negli ultimi decenni, governi, grandi media e piattaforme digitali hanno costruito una sinergia perfetta: la politica detta la linea, i media la diffondono, i social la amplificano.

Quando un’informazione contrasta con la narrativa dominante — che spesso coincide con gli interessi economici e geopolitici delle grandi potenze — essa viene delegittimata, oscurata o ridicolizzata.

Chi la diffonde diventa automaticamente “complottista”, “disinformato” o “filo-qualcosa”.

Il cosiddetto “fact checking” è il nuovo strumento di censura preventiva: in apparenza difende la verità, ma in realtà stabilisce chi può definirla.

Non esiste un organo neutrale che possa decidere, una volta per tutte, cosa è vero e cosa no — eppure oggi siamo arrivati al paradosso di affidare questa funzione a gruppi privati, finanziati spesso dagli stessi attori che controllano la comunicazione.

Durante la pandemia questo meccanismo si è mostrato in tutta la sua potenza: chi poneva domande era trattato come un nemico pubblico, e chi invitava alla prudenza o alla libertà di scelta veniva cancellato dai canali di comunicazione.

È stato un laboratorio perfetto per testare il grado di obbedienza sociale ottenibile attraverso la paura e il conformismo mediatico.

Questo è un problema gravissimo perché mina le basi stesse della democrazia.

Una società che non tollera il dissenso e non ammette la critica non è una società libera, ma una società condizionata.

Quando la verità diventa monopolio del potere, la realtà viene sostituita dalla propaganda, e l’opinione pubblica non è più in grado di distinguere ciò che accade da ciò che le viene raccontato.

Occidente Criminale nasce anche da questo: dal bisogno di restituire al lettore strumenti per pensare con la propria testa, per riconoscere i meccanismi della manipolazione e recuperare il diritto più elementare che una democrazia dovrebbe garantire — quello di cercare la verità senza essere perseguiti per averlo fatto.

D.: La NATO, scomparso il suo nemico storico – ovvero il Patto di Varsavia – anziché scomparire anch’essa, come lei osserva subisce rapidamente una metamorfosi, espandendosi geograficamente, assumendo un raggio d’azione globale e, soprattutto, passando dalla difesa collettiva alla polizia d’intervento, il che giustifica interventi ovunque nel mondo con la “scusa” che di volta in volta fa più comodo: guerra umanitaria, guerra al terrore, etc. Cosa ci può dire in proposito?

R.: La fine del Patto di Varsavia avrebbe dovuto segnare anche la fine naturale della NATO.

Nata nel 1949 come alleanza difensiva, con lo scopo dichiarato di contenere l’espansionismo sovietico, essa aveva perso la sua ragion d’essere nel momento stesso in cui l’Unione Sovietica si dissolse.

Ma anziché sciogliersi, la NATO ha cambiato pelle, trasformandosi da strumento di difesa collettiva in braccio armato della globalizzazione occidentale.

A partire dagli anni Novanta, la sua missione si è estesa ben oltre i confini europei.

Il linguaggio ufficiale è mutato: non più “difesa”, ma “stabilità”, “prevenzione”, “intervento umanitario”.

In realtà, dietro questi eufemismi si è nascosto un nuovo paradigma: l’uso della forza come mezzo di regolazione dell’ordine mondiale.

Ogni volta che una crisi minacciava gli interessi strategici dell’Occidente – dai Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia – la NATO è intervenuta invocando motivazioni “morali”, ma con esiti disastrosi per le popolazioni locali e vantaggiosi per chi deteneva il potere economico e militare.

È in quel momento che la NATO smette di essere un’alleanza e diventa una struttura politico-militare a vocazione globale, capace di agire anche senza mandato ONU e di imporre la propria agenda in nome della “sicurezza collettiva”.

Ma sicurezza per chi?

Sicuramente non per i Paesi devastati dagli interventi, né per i cittadini europei trascinati in conflitti che non li riguardavano.

La “sicurezza” di cui parla la NATO è quella del sistema economico occidentale, delle sue rotte energetiche e delle sue sfere d’influenza.

Questa metamorfosi, come scrivo in Occidente Criminale, ha avuto un costo altissimo: ha svuotato di senso il diritto internazionale e ha ridotto l’Europa a semplice teatro di strategie altrui.

Oggi la NATO è di fatto uno strumento di proiezione del potere statunitense, capace di giustificare ogni intervento – anche il più arbitrario – come “guerra preventiva” o “difesa dei valori democratici”.

In realtà, dietro queste formule si cela la logica dell’imperialismo contemporaneo: la guerra come forma di governo del mondo, in un equilibrio sempre più instabile e pericoloso.

D.: La guerra Russia-Ucraina viene spesso presentata dai media occidentali in maniera che non potrebbe essere più di parte, nascondendo una serie di fatti antecedenti ben noti solo a chi è documentato grazie a fonti che qui da noi sono censurate oppure riservate a pochi “addetti ai lavori”. Ecco perché la disinformazione ha gioco assai facile. Ci può sintetizzare qual è la successione di eventi che ha portato all’intervento russo per le inopinate scelte dell’Occidente? 

R.: La crisi ucraina non nasce nel 2022, ma affonda le sue radici in almeno trent’anni di errori strategici dell’Occidente.

Dopo la dissoluzione dell’URSS, alla Russia era stata promessa — verbalmente ma in modo inequivocabile — la non espansione della NATO “neanche di un pollice a Est”.

Quella promessa è stata sistematicamente tradita: dal 1999 in poi, l’Alleanza Atlantica si è allargata fino ai confini russi, includendo Paesi dell’ex blocco sovietico e persino le repubbliche baltiche.

Nel 2014, con il colpo di Stato di Maidan, sostenuto apertamente da Stati Uniti e Unione Europea, un governo eletto ma non allineato è stato rovesciato, aprendo la strada a un esecutivo filo-occidentale e a una guerra civile interna tra Kiev e le regioni russofone del Donbass.

Per otto anni, gli accordi di Minsk — che avrebbero dovuto garantire autonomia a quelle regioni — non sono mai stati applicati, mentre la NATO continuava ad armare e addestrare l’esercito ucraino.

Quando Mosca ha visto profilarsi all’orizzonte la prospettiva di un’Ucraina pienamente integrata nella NATO, ha reagito con un intervento militare che, nel suo calcolo strategico, era difensivo, ma che l’Occidente ha interpretato come un’aggressione unilaterale.

In realtà, la guerra del 2022 è il risultato di una lunga escalation provocata da una politica occidentale di accerchiamento e provocazione, che ha trasformato l’Ucraina in un campo di battaglia per procura.

Oggi la disinformazione serve a cancellare questa memoria recente: si racconta il conflitto come se fosse esploso dal nulla, occultando le responsabilità di chi, per anni, ha giocato con il fuoco per interessi geopolitici ed economici, ignorando volutamente le conseguenze per i popoli coinvolti.

D.: Nel suo libro, sono citati alcuni esempi di eventi inventati di sana pianta dagli Stati Uniti per giustificare degli interventi militari funzionali ai loro obiettivi, un modus operandi – accompagnato da quella che lei definisce “demonizzazione selettiva dell’avversario” – che, purtroppo, getta discredito su questo attore geopolitico , quanto meno sul piano morale e se ha ancora un qualche senso parlare di moralità in politica. Ci può ricordare quali sono stati i casi più famosi in tal senso?

R.: Purtroppo, la storia recente degli Stati Uniti è costellata di episodi in cui la menzogna è stata utilizzata come strumento politico e militare.

Non si tratta di teorie, ma di fatti documentati, spesso riconosciuti dagli stessi protagonisti a posteriori.

Uno dei casi più emblematici è quello del Golfo del Tonchino (1964): un presunto attacco nordvietnamita a navi americane mai avvenuto, usato come pretesto per giustificare l’intervento diretto in Vietnam, con milioni di vittime civili e un Paese devastato.

Un altro esempio è l’invasione dell’Iraq nel 2003, basata sull’accusa – poi rivelatasi totalmente infondata – che Saddam Hussein possedesse “armi di distruzione di massa”.

Quella menzogna, amplificata da un’enorme campagna mediatica, servì a scatenare una guerra che distrusse un intero Stato, destabilizzando il Medio Oriente e alimentando il terrorismo che si diceva di voler combattere.

Possiamo citare anche il caso del Kosovo nel 1999, dove la NATO giustificò i bombardamenti sulla Serbia con accuse di “genocidio” mai dimostrate, e quello della Libia nel 2011, dove la “guerra umanitaria” per proteggere i civili si trasformò in un disastro geopolitico che ha cancellato uno dei Paesi più prosperi dell’Africa.

Il denominatore comune di questi episodi è la “demonizzazione selettiva dell’avversario”: prima si costruisce il nemico assoluto, poi si crea l’emergenza morale che rende inevitabile l’intervento.

È un modello narrativo che consente di presentare guerre di conquista come azioni di giustizia o di libertà.

Il risultato è una perdita irreversibile di credibilità morale: come si può parlare di “valori democratici” quando la menzogna diventa la premessa della politica estera?

Ed è proprio questo, oggi, il paradosso dell’Occidente: pretendere di esportare la verità, dopo aver costruito il mondo sulla manipolazione.

D.: La civiltà occidentale a guida statunitense sembra essere ormai a un bivio, a causa della crescita economica cinese e del crescente peso anche geopolitico dei BRICS, che rappresentano un’alternativa – anche come modello di riferimento – per molti paesi poveri del mondo. Quando una civiltà è conscia del proprio declino, cerca di fare di tutto per rimandarlo, compresi atti che sarebbero giudicati del tutto irrazionali in altre situazioni. È quanto mi pare vedere in quest’epoca. Mi sbaglio?

R.: No, non si sbaglia affatto.

Ci troviamo davvero davanti a un passaggio storico cruciale: il tramonto dell’egemonia occidentale così come l’abbiamo conosciuta dal 1945 in poi.

Per decenni, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dominato il pianeta attraverso il controllo delle risorse, della moneta e della narrazione politica.

Ma oggi quel modello mostra crepe profonde, perché il mondo non è più disposto ad accettare una sola visione del progresso o della libertà.

La crescita della Cina, l’espansione dei BRICS e la ricerca di autonomia da parte di molti Paesi del Sud globale rappresentano la reazione naturale di un sistema internazionale che si riequilibra dopo secoli di dominio unipolare.

Questo non significa che la nuova fase sarà priva di contraddizioni, ma certamente segna la fine del monopolio occidentale sulla storia.

Ed è qui che entra in gioco il paradosso: quando un impero percepisce il proprio declino, non cerca di adattarsi, ma di resistere, spesso con mezzi sempre più aggressivi e irrazionali.

È la logica dell’autoconservazione: guerre, sanzioni, crisi artificiali diventano strumenti per mantenere un potere che non riesce più a rinnovarsi.

Si tratta di una reazione istintiva ma pericolosa, perché ogni tentativo di rallentare il corso della storia produce solo nuovi conflitti e nuove divisioni.

In questo senso, Occidente Criminale vuole essere una riflessione e un avvertimento: il vero segno del declino non è perdere potere, ma rifiutarsi di accettare il cambiamento.

E l’Occidente, oggi, sembra disposto a tutto pur di non riconoscere che il mondo non gli appartiene più.

D.: Nel suo libro emerge come oggi nelle democrazie occidentali si stia andando verso un livello di censura, manipolazione dell’informazione e controllo della popolazione che una volta si vedeva solo nei regimi autoritari, grazie alla collaborazione di altri attori coinvolti, come ad es. i maggiori social media. Può spiegarci meglio come ciò avviene e perché è difficile opporre resistenza – fosse anche solo in un civile dibattito televisivo – al “pensiero unico” occidentale e filo-americano?

R.: È vero: nelle cosiddette democrazie occidentali si è ormai superato quel confine che un tempo separava la libertà dalla manipolazione.

Oggi il controllo dell’opinione pubblica non avviene più attraverso la censura esplicita, ma tramite meccanismi molto più raffinati e invisibili, che rendono superfluo il ricorso alla forza.

I social media, che avrebbero dovuto rappresentare il massimo strumento di libertà, si sono trasformati nel più grande apparato di condizionamento mai esistito.

Grazie agli algoritmi e alla profilazione dei dati, è possibile orientare il pensiero collettivo in modo selettivo, dosando ciò che gli utenti vedono, leggono e credono.
Le piattaforme non cancellano necessariamente le opinioni dissenzienti: le rendono invisibili, spingendole ai margini del dibattito pubblico, dove perdono rilevanza e credibilità.

A questo si aggiunge una forma di autocensura culturale, che nasce dalla paura di essere etichettati, esclusi o ridicolizzati.

In un contesto dove chi si discosta dalla linea dominante viene subito accusato di “disinformazione” o “filoputinismo”, la maggior parte delle persone preferisce tacere o conformarsi.

È un meccanismo psicologico perfetto, perché non ha bisogno di repressione, ma solo di consenso indotto.

Resistere a questo sistema è difficile proprio perché il controllo non è più verticale, ma diffuso, partecipato e interiorizzato.

Molti credono di pensare liberamente, ma in realtà si limitano a ripetere ciò che l’ambiente mediatico ha già filtrato per loro.

Così il “pensiero unico” non si impone con la forza, ma con l’abitudine, con l’illusione della libertà di scelta.

Ed è questo, forse, il tratto più inquietante della nostra epoca: una società che si crede libera, ma che ha delegato ad algoritmi e corporation la gestione della propria coscienza collettiva.

Un potere che non si vede è il più difficile da combattere, perché non si può neppure nominare.

D.: Nel 1962, in piena Guerra Fredda, con la famosa crisi dei missili di Cuba che portò a una tensione altissima fra Stati Uniti e Unione Sovietica – che stava riempiendo l’isola di testate nucleari – l’umanità è stata sull’orlo dell’abisso. Ma oggi, pur non essendoci il medesimo livello di tensione, paradossalmente siamo in realtà ancora di più a un passo da un conflitto nucleare – che non avrebbe né vincitori né vinti – per una serie di ragioni che sono molto ben illustrate nel suo libro. Ce ne può dire alcune?

R.: Sì, paradossalmente oggi il rischio di un conflitto nucleare è persino più alto che durante la crisi di Cuba.

Allora, pur nel pieno della Guerra Fredda, esisteva ancora un equilibrio del terrore: le due superpotenze si conoscevano, comunicavano, e — per quanto ostili — condividevano la consapevolezza che un passo falso avrebbe significato la distruzione reciproca.

C’era una logica, perversa ma razionale, che teneva in piedi il mondo.

Oggi quella logica è venuta meno.

Viviamo in un sistema molto più frammentato, dove le decisioni cruciali non sono più solo politiche, ma anche economiche, militari e perfino tecnologiche, e dove gli strumenti di deterrenza sono moltiplicati da armi ipersoniche, droni autonomi e sistemi digitali fuori controllo umano.

La catena decisionale si è accorciata, la comunicazione tra potenze è minima e la propaganda sostituisce la diplomazia.

Inoltre, la perdita di equilibrio geopolitico dopo il 1991 ha prodotto un’illusione pericolosa: l’idea che una sola parte — l’Occidente — possa imporre la propria volontà senza conseguenze.

Ma la Russia, la Cina e molti altri Paesi non accettano più questo paradigma.

Il mondo non è più unipolare, e chi si ostina a comportarsi come se lo fosse rischia di trascinare tutti nel baratro.

Il pericolo, oggi, non è solo nella forza distruttiva delle armi, ma nell’irresponsabilità politica e culturale di chi continua a pensare che la guerra possa essere uno strumento di ordine.

Quando l’arroganza sostituisce il dialogo e la propaganda prende il posto della diplomazia, basta un errore, un incidente, o anche solo una provocazione calcolata male, per superare un punto di non ritorno.

Ecco perché nel libro insisto su un concetto: non siamo più nell’epoca delle guerre ideologiche, ma in quella delle guerre sistemiche — guerre che nascono dal tentativo disperato di un ordine morente di sopravvivere.

Ma nessuna egemonia vale l’estinzione dell’umanità.

Il compito più urgente, oggi, è recuperare il senso del limite, quella consapevolezza che durante la crisi di Cuba, paradossalmente, aveva impedito il disastro.

D.: La ringrazio molto per questa chiacchierata che giunge in un momento storico davvero delicato, come credo sia emerso chiaramente anche dalle sue parole. Fra l’altro, non è affatto facile oggi trovare persone competenti che abbiano il coraggio di dire pubblicamente certe verità, complici il sistema ed i condizionamenti che lei ha citato. Voleva aggiungere ancora qualcosa prima di salutarci, augurandole il miglior successo per il suo libro?

R.: Sì. Credo che oggi il compito più urgente non sia scegliere da che parte stare, ma ritrovare la capacità di pensare in modo libero e critico.

La verità non appartiene mai a una sola parte, e il primo passo per evitare nuove tragedie è riconoscere le menzogne che ci hanno condotto fin qui.

Occidente Criminale nasce proprio da questo bisogno: capire il passato per non ripetere gli stessi errori, e ricordare che la pace non è un’illusione, ma una responsabilità collettiva.

 

 

A proposito di un’uscita di Elly Schlein – Democrazia a rischio?

4 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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«La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio quando l’estrema destra è al governo».

Così parlò Elly Schlein ad Amsterdam, al congresso dei Socialisti Europei. Le si potrebbe rispondere che è vero, la libertà di parola in Italia è a rischio, ma a metterla a rischio è l’estrema sinistra, come ha appena sperimentato sulla sua pelle Emanuele Fiano, ex deputato Pd cui è stato impedito di parlare all’Università di Ca’ Foscari “perché ebreo”. Era già successo ad altri ebrei, come David Parenzo e Maurizio Molinari (allora direttore di Repubblica), e a tanti altri con colpe meno gravi di quella di essere ebreo.

C’è però anche un altro modo, più utile, di ragionare sull’infelice uscita della segretaria del Pd, ed è di chiederci che cosa deve succedere per parlare seriamente di un deterioramento della democrazia. O, più precisamente, che nozione di democrazia hanno in mente quanti la vedono “a rischio”.

La mia impressione è che il concetto di democrazia che hanno in mente quanti la vedono in pericolo soffra di due gravi distorsioni. La prima è di misurare il grado di democrazia non in base al rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ma in base al grado di avvicinamento agli obiettivi che ispirano una politica progressista, ad esempio: più stato sociale, più redistribuzione, più mitezza in campo penale. Quando da tali obiettivi ci si allontana perché le elezioni vengono vinte da una coalizione di destra, anziché prendere atto che l’esecutivo ha cambiato colore politico (e quindi sono al governo idee opposte) si denuncia, perlopiù in modo pensoso e corrucciato, che è in atto un deterioramento della qualità della democrazia. Ma è un errore concettuale grave: l’orientamento delle politiche dei governi non può essere un criterio per giudicare il grado di democraticità di un determinato paese, o la qualità della sua democrazia. E non può esserlo per un motivo logico ben preciso: ogni politica è frutto di un bilanciamento fra istanze opposte ma entrambe legittime, e nulla autorizza a dire che muoversi verso uno dei due poli sia più democratico che muoversi verso l’altro. Faccio un esempio, spesso evocato dal sociologo progressista Zygmunt Bauman: il conflitto fra libertà e sicurezza. Quando si introducono nuovi reati o nuove pene per contrastare comportamenti anti-sociali, è indubbio che si sta privilegiando la sicurezza a scapito della libertà. Ma dire che si sta mettendo a rischio la democrazia, o che se ne sta deteriorando la qualità, è un errore concettuale, perché nulla autorizza a dire che certe combinazioni di sicurezza e libertà sono più democratiche di altre. Si può dire che sono più o meno libertarie, più o meno garantiste, più o meno autoritarie, ma non più o meno democratiche. Questa, detta per inciso, è una delle differenze cruciali fra destra e sinistra oggi in Italia. La destra, di norma, critica le politiche di sinistra per i loro contenuti, non perché metterebbero a rischio la democrazia. La sinistra, al contrario, critica le politiche di destra perché (quasi) tutto quel che fa la destra le pare un attentato alla convivenza democratica.

E qui arriviamo al secondo tipo di distorsione che affligge chi evoca continuamente pericoli per la democrazia: la credenza che una delle due parti politiche – la destra – non sia pienamente legittimata a governare. E non lo sia precisamente perché non pienamente democratica. Qui si va davvero al nocciolo del problema: democrazia è innanzitutto l’accettazione del pluralismo, come ci ha insegnato Isaiah Berlin. Dove pluralismo significa che alcuni conflitti fra valori possono essere insuperabili, e nessuno può pretendere che i propri siano intrinsecamente superiori a quelli dell’avversario politico.

Anche in questo caso abbiamo un’asimmetria. Nessuno, dopo la svolta della Bolognina compiuta da Achille Occhetto nel 1991, contesta più il diritto degli eredi del Partito comunista di andare al potere. Ma ancora molti contestano il medesimo diritto agli eredi del Movimento sociale italiano, a dispetto della svolta di Fiuggi, voluta da Gianfranco Fini nel 1995, e della ulteriore rifondazione del partito compiuta da Giorgia Meloni (insieme a Crosetto e La Russa) nel 2012. La continua richiesta di credenziali antifasciste, e l’ossessivo allarme per la “democrazia a rischio”, segnalano esattamente questo: l’incompiutezza del cammino che, dopo la stagione del terrorismo e delle ideologie, avrebbe dovuto condurre l’Italia a essere una democrazia normale, in cui destra e sinistra si combattono sui programmi, non sul diritto a governare e sulle credenziali democratiche.

In questo senso do un po’ di ragione a Elly Schlein. Sì, effettivamente in Italia la democrazia corre qualche rischio, ma non nel senso che qualcuno voglia o possa sovvertirne le istituzioni, bensì nel senso più sottile, ma non meno inquietante, che non tutti gli attori in campo hanno ancora raggiunto la piena “maturità democratica”, ovvero la piena accettazione della legittimità dell’avversario politico e – forse ancora più importante – del diritto di espressione di tutte le opinioni, purché non violente. Su questo, dopo il caso dell’on. Fiano, silenziato da sinistra perché ebreo, urge davvero una riflessione.

[articolo uscito sul Messaggero il 2° novembre 2025]

Ma chi ha detto che la violenza politica non paga?

31 Ottobre 2025 - di Dino Cofrancesco

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Anni fa avevo chiesto al compianto amico Giampaolo Pansa di presentare a Genova il suo ultimo libro, I vinti non dimenticano (2010). Lo storico aveva declinato l’invito giacché alti funzionari del capoluogo ligure gli avevano detto di non poter garantire l’ordine pubblico dinanzi alle prevedibili proteste (non pacifiche) dei pasdaran dell’antifascismo. La minaccia della violenza da parte di questi ultimi era o non era un esercizio di potere, peraltro prolungato nel tempo?

 Quando centri sociali, antagonisti e sovversivi vari occupano spazi pubblici, stazioni, metropolitane, scuole si può dire che la violenza non paga? Se le occupazioni durano giorni, il potere viene esercitato con successo, ai danni dei comuni cittadini; se lo sgombero avviene a suon di randellate, un obiettivo importante viene raggiunto: quello di mostrare che lo stato ha il potere di mobilitare le ’forze dell’ordine’, ma non ha, in senso proprio, ’autorità’. Si ha autorità, infatti, se leggi e divieti vengono rispettati in modo spontaneo e naturale e non vengono imposti, come negli stati totalitari, con lo spettro di una feroce repressione. M.me de Stael racconta che a Versailles un semplice nastro vietava l’accesso agli appartamenti reali.

 Lo Stato, che si trova a reprimere disordini sempre più frequenti, fa il suo dovere ma, in tal modo, rivela una debole legittimazione ovvero che le istituzioni democratiche godono di un consenso a macchia di leopardo e che la repressione della violenza che, per alcuni, è sacrosanta, per altri, costituisce la riprova che si vive in un regime poliziesco. Se il fossato tra Stato e ampi strati sociali si allarga, perché c’è chi vorrebbe più ordine e repressione e chi un radicale cambio di regime politico e sociale, non resta che la guerra civile: e non esercita potere chi è stato in grado di attivarla?

 Si dirà: ma i sovversivi – vedi per tutti le Brigate Rosse – alla lunga non vengono sconfitti? Certo che vengono sconfitti ma, come i kamikaze, non prima di aver recato gravi danni al ’sistema’, dalle fratture all’interno delle classi dirigenti alla tentazione di ridisegnare in peggio il quadro politico nazionale – per non parlare dell’assassinio di una delle più eminenti figure della Repubblica.

A proposito di un video di Trump – Follemente scorretto

27 Ottobre 2025 - di Luca Ricolfi

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Non ha attirato la dovuta attenzione, in Italia, il video (costruito con l’intelligenza artificiale) nel quale Trump, con una corona da re in testa e un respiratore in bocca, pilota un jet da combattimento e scarica tonnellate di liquami sui manifestanti. Il video è una provocatoria risposta al “no kings day”, ossia alle migliaia di manifestazioni contro la deriva autoritaria (espressione abusata, ma in questo caso ineccepibile) del presidente Usa. È come dire: voi dite che non volete essere governati da un re, e io non solo vi dico che sono il vostro re, ma vi mostro tutto il mio disprezzo ricoprendovi di escrementi.

Perché merita tutta la nostra attenzione quel video?

Fondamentalmente perché segna un salto di qualità nella degenerazione della lotta politica in America (e speriamo solo in America). Dopo circa un dodicennio (2012-2024) di follemente corretto, gli Stati Uniti si sono improvvisamente trovati di fronte al suo perfetto rovescio, il follemente scorretto di Trump. Due fenomeni collegati, per certi versi speculari, ma sottilmente distinti come possono esserlo l’esterno e l’interno di un guanto. La forma tipica del follemente corretto era il bullismo etico, ovvero il disprezzo per chi la pensava diversamente esercitato in virtù di una presunta superiorità morale delle proprie convinzioni. La forma tipica del follemente scorretto nella versione trumpiana è l’umiliazione dell’avversario in virtù di un effettivo (non presunto) eccesso di potere. Il follemente corretto proclamava: io sono migliore di te, perciò devi adeguarti. Il follemente scorretto proclama: tu non sei nessuno, io posso schiacciarti.

È possibile che il follemente scorretto sia anche una reazione estrema, al limite della paranoia, alla lunga scia di aberrazioni e prevaricazioni che, specie nei paesi di lingua inglese, la cultura woke ha inflitto a chiunque la pensasse diversamente. Ma temo che ci sia ben più di questo. Questo di più è la nostra incapacità, a sinistra come a destra, di prendere veramente congedo dal politicamente corretto e dalle sue degenerazioni.  La sinistra si tiene ben stretta al politicamente corretto perché questo le permette di mantenere in vita il “complesso dei migliori”, la destra – specie nelle sue frange estremiste – è perennemente tentata dal politicamente scorretto, quasi che l’alternativa al politicamente corretto potesse essere il suo rovescio.

Ma è un grave errore logico. Politicamente corretto e politicamente scorretto non sono opposti, ma due facce della medesima moneta. Il politicamente scorretto è il rovescio del politicamente corretto, non il suo contrario. Il contrario del politicamente corretto è il pluralismo, ovvero il riconoscimento che – fatti salvi il ripudio della violenza e il rispetto della legge – possono esservi valori al tempo stesso rispettabili e difficilmente compatibili, e che quindi nessuno può pretendere che i propri valori siano eticamente superiori a quelli dell’avversario politico. Una postura, questa, che la sinistra è strutturalmente incapace di assumere, convinta com’è di essere portatrice di valori universali e incontestabili, e che la destra – pur immune al complesso dei migliori – rischia di tradire ogniqualvolta l’istinto del politicamente scorretto secerne disprezzo, offesa, intimidazione.

Ecco perché la vicenda del video di Trump è inquietante. Fino a ieri si poteva sperare che il nuovo clima instaurato dall’avanzata delle destre nella maggior parte dei paesi occidentali si sarebbe limitato a raffreddare l’arroganza etica dei progressisti, ponendo un freno alle follie woke. L’improvvido video del volo di Trump sopra i manifestanti democratici fa temere anche un risveglio dei peggiori istinti nel mondo dei conservatori.

Una recente indagine di Mannheimer ha documentato una vera esplosione, nell’elettorato italiano, del consenso nei confronti del presidente degli Stati Uniti. C’è solo da sperare che tanto entusiasmo riguardi la sua determinazione nel porre fine agli eccidi di Gaza, piuttosto che la tentazione di inaugurare una stagione di disprezzo per gli avversari politici.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 ottobre 2025]

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