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Dopo la mossa di Chiara Appendino – Sinistra e sicurezza

10 Novembre 2025 - di Luca Ricolfi

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“Da troppo tempo la sinistra ha paura di occuparsi di sicurezza, come se parlarne fosse di destra. È stato un errore enorme”.

La diagnosi non è nuova. Fra i sociologi non siamo in tantissimi a pensarla così, ma lo ripetiamo da almeno vent’anni, con una montagna di numeri. Dunque perché insistere con questo mantra?

Per una ragione fondamentale: questa volta a parlare così non siamo noi, studiosi di criminalità e di politica attoniti per la cecità della sinistra, ma è nientemeno che Chiara Appendino, esponente di punta del Movimento Cinque Stelle. In una lettera inviata a Libero non solo dice l’indicibile, ma rivendica di avere agito concretamente, quando era sindaca di Torino, per combattere contro degrado, campi rom, occupazioni abusive, anarchici dinamitardi. Anziché scaricare sul Ministero dell’Interno ogni responsabilità, la deputata Cinque Stelle richiama tutti i livelli di governo – comprese le amministrazioni locali – alle loro responsabilità e al dovere di collaborare per combattere il degrado, visto come brodo di coltura del crimine (una teoria con basi scientifiche piuttosto solide).

Dunque tutto bene. Finalmente a sinistra c’è qualcuno di (politicamente) autorevole, che prova a far aprire gli occhi alla sinistra. Nella lettera, tuttavia, Appendino non spiega come mai la sinistra stessa non abbia mai voluto prendere sul serio il tema della sicurezza. Il punto è importante, perché dalla risposta a questa domanda deriva la risposta alla domanda che segue subito dopo: riuscirà mai la sinistra a correggere questo suo errore “enorme”?

Ebbene, forse la prima cosa da notare è che non è sempre stato così, e comunque non per tutta la sinistra. Di fronte al pericolo del terrorismo, il Partito Comunista di Enrico Berlinguer (e di Armando Cossutta!) aveva ben chiara l’importanza della sicurezza, e l’assoluta necessità di combattere contro coloro che la mettevano a repentaglio. A non capire il valore della sicurezza, in quegli anni, fu semmai la sinistra extraparlamentare, che detestava le divise, disprezzava la normalità “borghese”, e vedeva ogni forma di devianza come ribellione al “sistema”. Detto per inciso, è incredibile come questi schemi mentali sopravvivano ancora oggi, più di mezzo secolo dopo il Sessantotto, in parole come quelle di Michela Murgia (“io quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre”) o di Enrico Letta (“viva le devianze”).

La vera mutazione, quella che ha decretato il divorzio fra sinistra e sicurezza, si è prodotta nei decenni successivi alla morte di Berlinguer, con l’assottigliamento della classe operaia, la “cetomedizzazione” del maggiore partito della sinistra, l’arrivo dei migranti. Per un partito di ceti medi, urbanizzati e istruiti, culturalmente cosmopoliti, aperti alle opportunità della globalizzazione, la sicurezza non poteva essere una priorità. E questo non solo perché le vittime principali della criminalità non sono certo i ceti medi (ben più attrezzati a difendersi), ma perché stare dalla parte degli immigrati come delle altre minoranze più o meno oppresse era la condizione logica necessaria per alimentare e sostenere il complesso di superiorità morale della sinistra. A preoccuparsi delle paure e dei bisogni dei ceti popolari, fatti di lavoro dipendente e partite Iva, hanno provveduto sempre di più partiti nuovi, spregiativamente definiti “populisti”, ma più capaci di interpretare il disagio dei ceti popolari: prima la Lega (nata alla fine degli anni ’80), poi il Movimento Cinque Stelle (nato nel 2007), infine Fratelli d’Italia (fondato nel 2012). Di qui, non solo in Italia, un radicale smottamento e rimescolamento delle basi elettorali: i progressisti raccolgono consenso soprattutto dai ceti medi istruiti, i partiti di destra attirano una fetta consistente del voto popolare.

E i Cinque Stelle?

I Cinque Stelle hanno avuto il loro momento di massimo splendore quando non erano né di destra né di sinistra, e sull’immigrazione avevano una posizione interlocutoria, non schiacciata sul cattivismo di destra e sul buonismo di sinistra. Poi, per amore del potere, hanno compiuto la loro svolta a sinistra (governo Conte 2) e siglato un patto difficilmente reversibile con il Partito Democratico. Di qui le loro difficoltà attuali: l’alleanza con il Pd, che sul tema della sicurezza è muto, li penalizza anche elettoralmente, perché snobbare quel tema allontana il voto popolare, che altrimenti troverebbe nei Cinque Stelle uno dei suoi sbocchi naturali.

La mossa di Chiara Appendino è anche un tentativo di far uscire il movimento dall’angolo in cui Conte negli ultimi anni ha finito per relegarlo. Un ritorno a destra? Qualcuno proverà a metterla così, ma sarebbe uno sbaglio concettuale. Perché – ce lo hanno insegnato in tanti, da Isaiah Berlin a Norberto Bobbio – la “libertà dal timore” fa parte dei diritti fondamentali dell’uomo, esattamente come la “libertà dalla miseria”. È toccato a Chiara Appendino ricordarlo nella sua lettera a Libero (“la sicurezza non è né di destra né di sinistra: è un diritto dei cittadini”). Ora tocca a Elly Schlein decidere se raccogliere la sfida, o perseverare nell’arroccamento che, non da oggi, tiene i ceti popolari lontani dalla sinistra ufficiale.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 novembre 2025]

Perché la sinistra si fa rappresentare dai VIP? – intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

24 Marzo 2025 - di Luca Ricolfi

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Dalla piazza di sabato scorso con sul palco solo intellettuali e artisti alla difesa del manifesto di Ventotene su Rai1 da parte di Benigni: perché la sinistra ha delegato la difesa dei propri capisaldi culturali e la rappresentanza delle proprie idee a questi mediatori?

Domanda difficile, perché i fattori sono tanti. Però almeno due ingredienti del cocktail mi sembrano abbastanza evidenti. Primo ingrediente: da almeno 15 anni, ossia dalla lapidazione di Walter Veltroni in poi (2008-2009), la sinistra non è stata più in grado di esprimere leader dotati al tempo stesso di spessore intellettuale e di carisma. Una situazione che il recente ringiovanimento del gruppo dirigente del Pd non ha fatto che aggravare, come del resto ci si poteva aspettare dato il trend delle istituzioni scolastiche. La distanza fra il livello di preparazione culturale e politica dei dirigenti del vecchio PCI e quello degli attuali dirigenti Pd è siderale, per non dire imbarazzante. Senza una cultura ampia, la difesa dei propri “capisaldi culturali” diventa una mission impossible.

E il secondo ingrediente?

Il secondo ingrediente è la eticizzazione del discorso politico, sempre meno ancorato a obiettivi e rivendicazioni concrete, e sempre più volto ad affermare la superiorità morale dei propri valori, come inclusione, accoglienza, diritti delle minoranze sessuali. Ed è ovvio che se la sostanza politica del tuo discorso è basata su imperativi morali piuttosto che su un vero programma politico, economico, sociale, diventa facile, e del tutto naturale, affidare il messaggio allo star system, sfruttando la popolarità dei suoi protagonisti. Un discorso di Benigni, per quanto arruffato (o proprio perché arruffato), impatta mille volte di più che una mitragliata di slogan emessi dalla bocca di Elly Schlein o di Giuseppe Conte.

Quando tutto questo è successo?

Ci sono alcune date significative: il 1992, con l’esplosione di Mani Pulite. Ma anche il 1994-1995, con l’abbandono – a sinistra – del concetto di eguaglianza a favore di quello di inclusione, un processo voluto da Alessandro Pizzorno e vanamente ostacolato da Norberto Bobbio. La fine del primo governo Prodi, nel 1998. E, ultima tappa, la defenestrazione di Veltroni, come ho già ricordato. Però una vera e propria data della svolta non esiste, perché la supplenza dello star system rispetto alla politica è un fenomeno carsico, un fiume che emerge e si inabissa periodicamente quando la politica è sputtanata, o semplicemente non è abbastanza a sinistra, o ancora più basicamente non ci scalda abbastanza il cuore. Allora arrivano artisti, cantanti, attori, scrittori, studiosi, intellettuali, giornalisti-tribuni. Può capitare per un’inchiesta giudiziaria, ma più sovente perché un governo di sinistra non lo è abbastanza.

Ad esempio?

Renzi che vara il Jobs Act, Minniti che fa gli accordi con la Libia, Enrico Letta che preferisce Draghi a Giuseppe Conte.

Nanni Moretti ci teneva a mantenere le distanze, da “questi dirigenti con i quali non vinceremo mai” e dopo lo storico intervento in piazza è tornato al proprio lavoro: oggi il rapporto sembra più osmotico?

Sì, oggi il mondo dell’arte e della cultura interviene quotidianamente perché il governo è di destra, e l’antifascismo – diversamente dai programmi politici veri e propri – è una canzone facile da cantare. Avete mai visto un concertone per il “salario minimo legale” ? Alla fine è una questione di generi letterari, poesia contro prosa. La politica parla in prosa, lo star system – ma anche il pubblico – detesta la prosa, vuole la poesia. Salire sulle navi che salvano i migranti è poesia, sostenere il salario minimo legale è prosa. Detto per inciso, è una delle ragioni della impopolarità di Carlo Calenda, il meno poetico dei nostri politici.

Non è partito tutto con la Rai3 di Angelo Guglielmi, la tv delle ragazze e via discorrendo?

No, secondo me. Quello era un fenomeno diverso. La stagione 1985-2001 ha visto una straordinaria fioritura della satira politica, che non si sostituiva alla politica ma semmai la dileggiava, senza riguardi per nessuno. Sotto la sferza di Arbore, Dandini, Guzzanti, Marcoré cadevano tutti. E cadevano pure i miti della sinistra, sbeffeggiata nelle sue innumerevoli debolezze e nei suoi tic. Nessuno, in quel gruppo, avrebbe mai assunto le posture da guru corrucciati che oggi assumono i vari Saviano e Scurati.

La satira ha perso indipendenza o originalità, per diventare un interprete organico?

Ci sono eccezioni importanti, come Crozza e Checco Zalone, ma in generale la satira mi sembra non all’altezza. Per lo più non fa ridere, e più è politicizzata meno fa ridere. L’idea che possa esistere una “satira di sinistra”, o una “satira di destra”, è già di per sé la negazione della satira.

A sinistra è saltato il concetto di doppia verità, per cui oggi le classi dirigenti dem forzano la realtà, presente e passata, per plasmarla secondo un’unica visione?

Esattamente. I dirigenti del vecchio PCI (anni ’50 e ’60) non credevano a quello che raccontavano alle masse, ed erano perfettamente consapevoli che una cosa è la realtà, un’altra cosa è la propaganda. I dirigenti della sinistra attuale, invece, non conoscendo la pratica della doppia verità, costringono sé stessi a credere vere le cose che dicono. Quindi non dispongono di un’analisi realistica della situazione.

Lo choc di Mani Pulite e la parabola di Silvio Berlusconi hanno un ruolo in tutto questo?

Sì, soprattutto Berlusconi: ha fornito un formidabile bersaglio per le esternazioni delle celebrities, come le chiama Rampini quando rileva gli stessi fenomeni negli Stati Uniti.

Chi conduce il gioco? Benigni che difende Ventotene come Schlein meglio non potrebbe è come se un giornale affidasse al vignettista la propria linea editoriale. Sono saltati gli schemi o c’è un nuovo schema?

C’è il vecchio schema dell’indignazione: mai studiare le carte, mai entrare nei dettagli, sempre scomunicare e demonizzare.

Pare che certi elettori di sinistra preferiscano farsi dire le cose da intellettuali e artisti piuttosto che dai parlamentari che eleggono. È vero?

È così, ma la ragione è la solita: l’elettore progressista ama sentirsi moralmente superiore, e questo stato d’animo glielo procura più facilmente Benigni che Schlein.

Provoco. Non è che nascondendosi dietro gli intellettuali e gli artisti d’area i politici sopperiscono all’assenza di rapporto con l’elettorato, disintermediando così la relazione tra potere e cittadinanza e realizzando il governo delle élite?

Forse, ma è una delle tante conseguenze della riduzione della politica a morale.

Oggi forse il paradigma non è destra contro sinistra ma élite da una parte e cittadini dall’altra e gli intellettuali guidano il popolo per conto delle élite?

In parte è così, ma la destra, almeno in Italia, non ha un establishment intellettuale che la sostiene: destra è diversa anche perché fa politica senza il paracadute delle élite.

Anche negli Stati Uniti i democratici hanno provato a risolvere i loro problemi mobilitando lo star system. Perché è una mossa che non produce mai risultati validi, e perché invece ci si ricorre comunque?

Non direi che non funziona mai. Con Obama lo star system ha funzionato, con Kamala Harris non poteva funzionare perché ogni endorsement di una celebrity confermava l’equazione trumpiana democratici=élite.

[intervista uscita su Libero il 21 marzo 2025]

Il dilemma del Partito Democratico

27 Gennaio 2025 - di Paolo Natale

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Come ogni anno dal 1948 in poi, il partito della “sinistra”, si chiami PCI o PDS o PD, si trova davanti ad una scelta importante, se non decisiva: correre in solitaria o quanto meno con le sole forze a lui affini, con il forte rischio di perdere, oppure fare alleanze, con il forte rischio di snaturare la propria proposta politica e con l’ulteriore rischio di perdere comunque.

La storia elettorale, da quel primo appuntamento in poi, ci dice che la prima scelta – la corsa più o meno solitaria – non è mai risultata vincente, né con le leggi più o meno maggioritarie degli ultimi trent’anni né, tantomeno, con quelle proporzionali della Prima Repubblica.

Il massimo storico del PCI è giunto nel 1976, con oltre il 34% dei voti, distanziato comunque di oltre 4 punti alla Camera e di 5 al Senato dalla Democrazia Cristiana e impossibilitato a formare una coalizione di governo maggioritaria, nemmeno con l’appoggio di tutte le altre formazioni di area social-comunista (dal Psdi a Democrazia Proletaria). Nell’epoca maggioritaria, Veltroni tentò la strada (quasi) solitaria nel 2008, raggiungendo una quota molto simile di consensi, che risultò comunque una debacle molto simile – anche se meno “cocente” dal punto di vista numerico – a quella antica del 1948.

Quello fu infatti l’anno della prima corsa solitaria, con la fusione elettorale con il Partito Socialista, che si trasformò appunto in una netta disfatta, con una quota di consensi di quasi venti punti percentuali inferiori alla Dc. Un primo evidente monito di quale potesse essere la scelta migliore, dal momento che solo due anni prima Pci e Psi, che correvano separati, ottennero sommandoli una percentuale di seggi e di voti nettamente superiore al loro principale avversario politico.

L’unica altra occasione in cui la “sinistra” risultò superiore alla “destra” unita (come noto, nel 1996 la Lega correva da sola) nella storia elettorale italiana avvenne nel 2006, quando Romano Prodi riuscì per pochi voti a battere Berlusconi ed il centro-destra grazie ad una coalizione dove vennero imbarcati tutti, ma proprio tutti, gli oppositori ai governi di Forza Italia. Una coalizione, è bene sottolinearlo, che ebbe comunque vita molto breve, di nemmeno due anni.

La storia ci racconta dunque che per vincere, sia pur di poco, la sinistra non può non allearsi con qualche altra forza politica. L’attuale Partito Democratico non era competitivo nemmeno quando, con Veltroni, viveva un momento di “euforia” da stato nascente. Oggi, ridotto al massimo al 25% dei consensi per essere ottimisti, certamente non può pensare di essere competitivo correndo in maniera solitaria.

D’altra parte, tra i suoi partner ideali al momento sembra esserci soltanto l’alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana (AVS), che può garantirgli un altro 5-6% che lo porterebbe intorno ad un terzo dell’elettorato votante attuale. Certo non sufficiente. Ha bisogno dell’appoggio di un’altra importante forza politica, che attualmente è rappresentata dal solo Movimento 5 stelle che, se fosse in salute, potrebbe garantire al Pd quell’ulteriore percentuale di voti da permettergli di diventare maggioranza.

Ma il problema è duplice: da una parte il M5s è chiaramente in crisi elettorale e, dall’altra, la possibile alleanza è piena di “buchi programmatici” di difficile risoluzione. Che fare dunque?

Una strada alternativa, ventilata da più esponenti in questi giorni, da Orvieto a Milano, potrebbe essere quella di far nascere una nuova formazione politica in grado di raccogliere il voto (il ritorno al voto) di tutti coloro che non si riconoscono pienamente nell’attuale Pd: cattolici di sinistra, lib-dem, centristi contrari al governo Meloni, astensionisti stufi di questa alleanza di destra.

I numeri parlano chiaro: è questa la sola ipotesi che può permettere alla sinistra di diventare competitivi con la destra, anche se è un’ipotesi che non piace a coloro che credono nelle capacità del Partito Democratico di incarnare – anche in solitudine – la vera alternativa all’attuale esecutivo. Ma se il Pd non è sufficientemente attrattivo, da solo non può farcela.

Università degli Studi di Milano

Manovre al centro – Una nuova Margherita?

22 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Nei giorni scorsi, a proposito delle manovre in corso a sinistra, su Repubblica è uscito un articolo di Massimo Giannini con il titolo “Quale centro può servire alla sinistra”.

Il nucleo dell’articolo si può riassumere così: va benissimo aprire una discussione che allarghi al mondo dei cattolici e dei centristi il perimetro della sinistra ma, per carità, guardiamoci bene dal fondare un nuovo partito, perché il luogo in cui fare quella
discussione esiste già ed è il Pd.

Leggendo – il giorno dopo – le pagine della Stampa (altra testata del gruppo Gedi) dedicate ai due raduni dei riformisti a Milano (con Romano Prodi e Ernesto Maria Ruffini) e Orvieto (con Paolo Gentiloni e Enrico Morando), il messaggio che il lettore ricava è analogo. Un titoletto sottolinea il “no a nuovi partiti” di Romano Prodi, una intervista a Gianni Cuperlo avverte fin dal titolo che “vanno bene anche idee diverse, ma la casa comune dev’essere il Pd”. Esattamente il preoccupato ammonimento di Giannini.

Non so se – sul tema della nuova casa dei riformisti – la stampa progressista che conta abbia una sua linea politica, ma mi pare evidente che, dentro il Pd, l’eventualità di una rinascita di qualcosa di simile alla Margherita di rutelliana memoria suscita molte preoccupazioni. Certo, adesso un po’ tutti negano, ma la tentazione di mettere in scena qualcosa di nuovo, a destra del Pd, si scorge ad occhio nudo. E quindi ben si comprende che chi al Pd è affezionato, o crede nella sua insostituibilità come guida
della sinistra, non veda di buon occhio le manovre al centro.

La mia impressione è che entrambe le posizioni, di chi vuole affiancare il Pd e chi vuole arricchirlo dall’interno, abbiano ottime ragioni dalla propria parte. Chi in cuor suo è tentato di resuscitare la Margherita (ossia cattolici e liberal-socialisti) ha perfettamente ragione a prendere atto che la “fusione a freddo” fra Ds e Margherita è fallita, o meglio ha avuto successo solo nella stagione renziana (2014-018), l’unico breve periodo nel quale i riformisti non sono stati sopraffatti dai post-comunisti.

Dopo Renzi, e più che mai dall’avvento di Schlein, il Pd è tornato a essere quel che erano i Ds, ossia un partito di sinistra-sinistra, ostile al mercato e perenne ostaggio di tentazioni giustizialiste. Quindi ben si comprende che chi è stato sconfitto ed emarginato (cattolici e liberal-socialisti), ora provi a rialzare la testa.

Ma anche quanti, come Cuperlo e Giannini, vedono come fumo negli occhi la nascita di un partito di sinistra moderata hanno le loro buone ragioni. Fusione e scissione non sono operazioni simmetriche e reversibili. Quel che ieri si tentò fondendo Ds e
Margherita, non può essere disfatto oggi scindendo il Pd per estrarne miracolosamente la Margherita. È vero che le grandi manovre per occupare il centro pretendono di rivolgersi soprattutto a delusi e indecisi, ma è difficile pensare che non
finiscano anche per sottrarre voti al Pd, così riattizzando l’incendio che l’era renziana aveva fatto divampare, e che si è spento solo con la riconquista della “ditta” da parte della vecchia guardia ex comunista dei Bersani e D’Alema.

Né pare una soluzione convincente quella – suggerita da Ruffini – di costituire anche in Italia una “maggioranza Ursula”, visto che Forza Italia, l’unico partito di destra candidato a farne parte, non raccoglie neppure il 10% dei voti (8.3% secondo l’ultimo
sondaggio) e rischierebbe di rimpicciolirsi ulteriormente ove un eventuale nuovo partito moderato di sinistra dovesse vedere la luce di qui alla fine della legislatura.

A quanto pare la strada dei riformisti è impervia e costellata di rischi, qualsiasi cosa facciano. Sempre che, di qui al 2027, qualche catastrofico errore di Giorgia Meloni o dei suoi non spiani alla sinistra la strada per tornare al governo. Senza colpo ferire.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 gennaio 2025]

Destra e sinistra – Chi è maggioranza nel paese?

11 Dicembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Qualche tempo fa, in un’intervista alla Stampa, l’inossidabile e sempre tagliente Massimo D’Alema è stato perentorio: “questa destra non è maggioranza nel paese: lo dicono i numeri”.

Sicuro?

Allora vediamoli questi numeri. Ovviamente D’Alema non poteva riferirsi al numero assoluto di voti, perché – da questo punto di vista – nessuno schieramento o coalizione, per quanto allargata, potrà mai avere il sostegno di 26 milioni di elettori (la maggioranza degli aventi diritto). L’astensione, ormai prossima al 50% del corpo elettorale, fa sì che i votanti siano circa 30 milioni, se non qualcuno di meno. Alle politiche del 2022 furono 29 milioni e mezzo, di cui solo 28 espressero un voto valido. Dunque: per essere maggioranza, l’obiettivo è avere almeno 14 milioni di voti.

Quanto sono vicini a questo obiettivo i due schieramenti?

Se stiamo agli ultimi sondaggi la destra, nell’assetto attuale, è vicinissima all’obiettivo: l’ultima super-media di Youtrend la colloca al 48.4%, sommando i voti di Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, Noi Moderati. Con il tasso di partecipazione elettorale del 2022 fanno circa 13.5 milioni di voti, a un soffio dall’obiettivo dei 14 milioni di voti.

E la sinistra?

Qui occorre fare attenzione. La sinistra vera e propria è costituita solo dal Pd (23.2%), e dall’alleanza Verdi-Sinistra (6.3), che insieme totalizzano il 29.5% dei consensi. Trascurando le differenze politico culturali possiamo aggiungere Italia Viva (2.3%), e arrivare al 31.8% dei consensi. Trascurando le differenze programmatiche in campo economico (liberismo versus statalismo), possiamo aggiungere +Europa (2%), e arrivare al 33.8% dei consensi. Trascurando quasi tutte le differenze – politiche, economiche, giudiziarie – possiamo aggiungere Azione (2.7%) e arrivare al 36.5%: circa 10 milioni di voti, ovvero 4 milioni in meno di quelli necessari per conquistare la maggioranza dei votanti. In breve: alla sinistra, sia pure allargata ai “cespugli” di Azione, Italia Viva, +Europa, mancano pur sempre 12 punti percentuali per raggiungere il centro-destra, e 14 per superare il 50% dei consensi.

E i Cinque Stelle?

Qui sta il problema. Che però ha due facce. Prima faccia: allo stato attuale dei consensi, anche se Conte si accodasse alla “gioiosa macchina da guerra” di Elly Schlein, anche se questa scelta non provocasse l’uscita di Calenda e/o Renzi dall’alleanza, anche se nessun elettore rinunciasse a votare a sinistra per insuperabile antipatia verso uno o più alleati, il consenso totale resterebbe non solo al di sotto del 50%, ma anche – sia pur di poco – al di sotto del consenso di cui attualmente gode il centro-destra (47.9% contro 48.4%).

Seconda faccia: il Movimento Cinque Stelle non è mai stato, e presumibilmente mai sarà, una forza politica di sinistra, almeno fino a che il volto della sinistra sarà quello globalista, europeista, atlantista sperimentato negli ultimi anni. Certo la distinzione,
brandita da Conte negli ultimi giorni, fra essere “di sinistra” ed essere “progressista” suona capziosa a azzeccagarbugliesca. Qualcuno, come fa Piero Sansonetti da anni, potrebbe persino argomentare che il Movimento Cinque Stelle non solo non è di
sinistra, ma è pure reazionario, ossia l’esatto contrario di progressista. Ma, al di là della diatriba terminologica, resta il fatto che, fin da quando è nato il movimento, i sondaggi hanno sempre rilevato che una parte non trascurabile del suo elettorato o
respinge la dicotomia destra-sinistra, o si colloca più a destra che a sinistra. Il che è culturalmente comprensibilissimo: una parte del movimento è semplicemente qualunquista, un’altra è anti-europea, un’altra è anti-migranti irregolari, e nessuno di questi segmenti più o meno sovrapposti è genuinamente di sinistra nell’accezione corrente del termine. Del resto, per certificarlo, basterebbero le recenti manovre di avvicinamento dei Cinque Stelle al partito tedesco BSW di Sahra Wagenknecht, una
formazione “sia di sinistra sia di destra”.

Conclusione. Se prendiamo atto che una parte dei Cinque Stelle (almeno 1 su 4) sono più vicini alla destra che alla sinistra, non possiamo che rovesciare la conclusione di d’Alema: la destra (per ora) è maggioranza nel paese, è la sinistra che non lo è. Lo
dicono i numeri.

[articolo uscito sulla Ragione il 10 dicembre 2024]

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