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Cherry picking

26 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Che ogni governo si sforzi di enfatizzare i buoni risultati che ha ottenuto, e ogni opposizione metta in evidenza i punti critici è fisiologico. E tuttavia, in tanti anni di osservazione della società italiana, non mi era mai capitato di assistere a tanta intransigenza statistica. Le forze di governo sciorinano numeri confortanti, talora trionfali, le opposizioni elencano disastri e non riconoscono al governo nemmeno un risultato positivo.

La cosa interessante è che le tecniche argomentative utilizzate dagli uni e dagli altri sono le stesse, e si riducono a tre trucchi fondamentali. Il primo è il cosiddetto cherry picking (scegliere le ciliegie), che consiste nel selezionare solo le statistiche che supportano la propria tesi, e ignorare tutte le altre. Il secondo è la manipolazione dei termini di paragone: se vuoi dire che l’economia va bene (o va male) ti scegli i paesi e gli anni che supportano la tua tesi. Il terzo è l’attribuzione al governo in carica di risultati – positivi o negativi – maturati in decenni.

Di questi trucchi, specie dopo la pubblicazione del rapporto Istat, abbiamo avuto innumerevoli esempi. Al governo che rivendicava con orgoglio la crescita occupazionale (1 milione di posti di lavoro in 2 anni) è stato obiettato che il nostro tasso di occupazione è il più basso d’Europa, come se questo dato negativo non fosse da ascrivere ai governi precedenti. In materia di potere di acquisto dei salari l’opposizione ha voluto vedere solo il fatto che siamo ancora sotto il livello pre-covid, mentre il governo ha voluto vedere il fatto che nell’ultimo anno il potere di acquisto sta risalendo. Sullo spread la premier è incappata in una clamorosa cantonata (non è vero che un basso spread significa che “i nostri titoli di stato sono più sicuri di quelli tedeschi”) ma l’opposizione si è solo accanita sulla gaffe, ignorando accuratamente la sostanza, ovvero che i conti pubblici sono più in ordine che con il governo precedente.

Sull’immigrazione il governo ama fare il confronto 2024 su 2023 (diminuzione degli sbarchi), l’opposizione preferisce il confronto 2023 su 2022 (aumento degli sbarchi).

Ma come stanno effettivamente le cose? Arrivati a metà legislatura possiamo tentare un bilancio realistico, non troppo di parte?

Se guardiamo ai grandi parametri dell’economia, mi pare vi siano – nei primi due anni di governo – almeno tre successi difficilmente contestabili: la creazione di oltre 1 milione di posti di lavoro, la diminuzione del peso delle posizioni precarie (tempo determinato e part-time involontario), il crollo dello spread, con conseguente miglioramento del rating dell’Italia (appena confermato da Moody’s).

A fronte di tali successi, non si possono nascondere almeno altrettanti risultati poco soddisfacenti: l’aumento della pressione fiscale, la diminuzione della produttività, l’insufficiente recupero del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza contare la diminuzione della produzione industriale, su cui hanno inciso le politiche europee e la recessione in Germania.

Se dai problemi dell’economia passiamo alle questioni sociali, il quadro non è meno variegato. Gli sbarchi sono cresciuti nel 2023 rispetto al 2022, ma sono crollati nel 2024. Quanto alla povertà e all’esclusione sociale, i relativi indicatori durante il governo Meloni non sono molto diversi da quelli ereditati dal governo Draghi. Né granché si può dire della sanità e delle liste di attesa, cavallo di battaglia dell’opposizione, che sono un problema annoso ma difettano di statistiche sintetiche, capaci di cogliere in modo accurato i mutamenti che intervengono di anno in anno.

Se, infine, proviamo a collocare le cose in una prospettiva più lunga, non possiamo non notare che i grandi trend dell’economia e della società italiana prescindono dal colore dei governi. Perché il nostro problema numero uno, quello che rende illusorie le promesse di tutti i governi, è quello della produttività, che ristagna da almeno 30 anni e impedisce ogni progresso nel tenore di vita del paese. E il nostro problema numero 2, il calo demografico, è così grande e gravido di conseguenze (sulla previdenza e sulla sanità), che difficilmente può essere affrontato con successo da un solo governo e in una sola legislatura.

E’ il combinato disposto di questi due giganteschi problemi che alimenta il circolo vizioso dell’economia italiana: il ristagno della produttività impedisce agli incrementi occupazionali di tradursi in aumenti significativi del reddito;  la diminuzione della popolazione fa sì che quei modesti incrementi di reddito si spalmino su una base sempre più ristretta, con apparente lieve sollievo della popolazione rimasta nel paese; la tenuta del Pil pro capite nasconde il rallentamento del volume del Pil, che è il denominatore del rapporto debito/Pil, parametro cruciale per il governo di conti pubblici.

Forse, almeno su queste due grandi e vitali questioni – produttività e demografia – non sarebbe male che i partiti, tutti i partiti, provassero a definire una strategia condivisa.

[Articolo uscito sul Messaggero il 25 maggio 2025]

I referendum della discordia

19 Maggio 2025 - di Luca Ricolfi

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Quasi certamente le prossime elezioni politiche si terranno intorno al mese di giugno del 2027, anche se – in teoria – la legislatura dovrebbe durare fino al mese di settembre del medesimo anno. Mancano dunque più di due anni al prossimo appuntamento elettorale. A dispetto di ciò, le forze politiche si stanno muovendo come se le elezioni fossero alle porte. Giorgia Meloni ha già chiarito che si ricandiderà. Elly Schlein e Maurizio Landini, a loro volta, hanno già aperto la campagna elettorale brandendo i 5 referendum, nella convinzione che la mobilitazione sui quesiti referendari possa rinvigorire l’opposizione.

Personalmente ne dubito fortemente, per vari motivi. Il primo è che tutti i sondaggi prevedono che il quorum non verrà raggiunto: con ogni probabilità circa 2 italiani su 3 non andranno a votare. Difficile, a quel punto, cantare vittoria solo perché nella minoranza che è andata al voto sono prevalsi i sì. È facile prevedere che la destra ritorcerà sulla sinistra il ragionamento con cui tante volte, in questi due anni e mezzo, ha cercato di delegittimare il voto a Giorgia Meloni (che ha raccolto sì il 26% dei consensi, ma sul 64% dei votanti: quindi solo 1 italiano su 6 la ha scelta). Ora sentiremo ripetere infinite volte che il 70 o 80% di consenso su un determinato quesito referendario rappresenta solo il 15% (o 20%, o 25 %) dell’elettorato complessivo.

Il secondo motivo di perplessità è che i 5 referendum non sono solo un’occasione di visibilità per l’opposizione: sono anche una formidabile opportunità, per il governo, di mostrare le divisioni del cosiddetto campo largo. L’unica forza di opposizione che voterà sì a tutti i referendum è AVS (Alleanza Verdi Sinistra). La segretaria del Pd Elly Schlein vorrebbe che lo stesso facessero i suoi, ma incontra il dissenso di molti membri della minoranza interna, che sono perplessi sui quesiti che, di fatto, rinnegano la stagione renziana e il Jobs Act: molti di loro voteranno sì solo ad alcuni dei referendum che riguardano il mercato del lavoro, ciascuno secondo le proprie sensibilità politiche personali. Riccardo Magi, leader di +Europa, pare intenzionato a votare sì solo a due referendum, quello sulla responsabilità delle imprese appaltanti e quello (promosso da lui stesso) che dimezza i tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana. Questo referendum, a sua volta, dovrà fare i conti con le perplessità dei Cinque Stelle, da sempre critici con l’immigrazione irregolare (Giuseppe Conte ha lasciato libertà di coscienza). Quanto a Renzi e Calenda, voteranno no a 4 referendum su 5 (tutti quelli sul mercato del lavoro).

E qui veniamo alla mia ultima perplessità, la più importante. Il fatto che non esista nemmeno un referendum su cui siano d’accordo tutte le forze del costituendo “campo largo” non si limita a mostrare che l’opposizione è ultra-divisa, ma suggerisce una considerazione più ampia: i temi scelti per i referendum sono palesemente controversi, visto che rispetto a ciascuno di essi vi è almeno una forza politica di sinistra che li considera sbagliati.

Ciò apre un interrogativo molto serio sul futuro dell’opposizione. Anch’io, come Romano Prodi e tanti altri, penso che una coalizione progressista abbia qualche possibilità di sfidare vittoriosamente Giorgia Meloni solo se dismette la battaglia per la leadership, che oggi impegna Schlein, Conte e (di nascosto) Landini, e punta tutte le sue carte sulla elaborazione di un programma comune (come fece il centro-sinistra prodiano nel 2006). Ma non posso non chiedermi: se nemmeno sui referendum sono stati capaci di mettere a punto una linea comune, come potranno riuscirci quando si tratterà di formulare un programma di governo che convinca la maggioranza degli italiani?

Una risposta possibile è che non ci riusciranno e andranno al voto più o meno divisi, come l’ultima volta. L’altra risposta possibile è che sottoscriveranno un programma comune monstre, ottenuto sommando gli opposti estremismi delle cultura progressista. Ovvero: sulla politica economico-sociale la linea Landini-Schlein (salario minimo legale e patrimoniale permanente), sui diritti la linea di Magi-Bonino (ius soli, Ddl Zan, Green Deal). Il che, in sostanza, significa sposare la linea politica di AVS, ossia della più estrema delle forze di sinistra, come certifica il fatto che sia l’unica a votare convintamente sì a tutti e 5 i referendum.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 maggio 2025]

Sull’avanzata delle destre – Quattro donne alla conquista dell’Europa

10 Febbraio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non so se sia giustificata la disattenzione con cui quasi tutti i media hanno trattato l’incontro che, tra ieri e oggi, si è svolto a Madrid fra i leader del maggiore gruppo di opposizione del parlamento europeo, quello dei Patrioti per l’Europa. All’incontro, presieduto dallo spagnolo Santiago Abascal leader di Vox, erano presenti – fra gli altri – Marine Le Pen, Matteo Salvini, Herbert Kickl (Austria), Viktor Orbán (Ungheria), Geert Wilders (Olanda), Andrej Babis (Repubblica Ceca).

Galvanizzati dallo slogan MEGA (Make Europe Great Again) di Elon Musk, i leader dei Patrioti per l’Europa sono accomunati da almeno tre battaglie: contro il politicamente corretto e la cultura woke, contro le politiche green, contro l’immigrazione irregolare. Delle tre, la più importante (almeno elettoralmente) è senz’altro quella conto gli ingressi irregolari in Europa. È battendo su questo tasto che, nell’ultimo decennio, le formazioni di destra hanno conquistato frazioni sempre più ampie di elettorato. Ma attenzione: quando parliamo della destra che avanza in Europa non dobbiamo dimenticare che il raduno di Madrid rappresenta solo un pezzo della destra ostile all’immigrazione.

Nel Parlamento europeo i Patrioti per l’Europa pesano per circa il 12%, ma se aggiungiamo le altre due formazioni – l’ECR di Giorgia Meloni e la ESN di Alice Weidel, presidente di Alternative für Deutshland (Afd) – si arriva in prossimità del 27%. Non solo: i sondaggi degli ultimi mesi rivelano che quasi ovunque la destra radicale è in crescita in Europa: in Germania l’Afd supera il 22%, in Francia, il Rassemblement National si attesta intorno al 37% (5 punti in più rispetto alle elezioni politiche 2024), nel Regno Unito Reform UK, il partito di Nigel Farage, sfiora il 30% e supera i laburisti di Keir Starmer, al governo da pochi mesi. Per non parlare di quel che è accaduto nel partito conservatore inglese, che pochi mesi fa ha scelto come leader Kemi Badenoch, una politica nera su posizioni ben più radicali i quelle dei suoi predecessori.

Insomma, voglio dire che il raduno di Madrid ci fornisce una idea molto parziale e imperfetta dello stato di salute della destra nel continente Europeo. Se guardiamo le cose in prospettiva, ovvero ci chiediamo che cosa potrebbe succedere di qui alla fine del decennio, uno degli scenari più verosimili è quello di un’ Europa in cui i quattro maggiori paesi sono governati dalla destra, o più precisamente sono sotto l’influenza decisiva di quattro donne di destra. In Germania, già fra due settimane (si vota il 23 febbraio) potrebbe accadere che i voti del partito di Alice Weidel (presidente di Afd) risultino decisivi per far passare leggi anti-immigrati care ai Popolari di Friedrich Merz, leader dei popolari e probabile nuovo cancelliere. Nel 2027, in Francia Marine Le Pen potrebbe diventare presidente della Repubblica, mentre in Italia Giorgia Meloni potrebbe rivincere le elezioni. Quanto al Regno Unito, è tutt’altro che improbabile che il prossimo premier sia Kemi Badenoch, prima donna nera a Downing Street.

È ovviamente solo uno fra gli scenari possibili, ma serve a darci l’idea di quanto le cose siano in movimento, quale sia la direzione del movimento, e quanto ampie possano essere le conseguenze: la questione migratoria polarizza l’attenzione degli elettorati europei, e accade che – nei quattro maggiori paesi del continente – siano altrettante leader donna a guidare la deriva delle opinioni pubbliche.

Ma quanto è probabile un simile scenario?

Molto dipende dalle forze progressiste. Se la linea restasse quella attuale, di completa chiusura verso i partiti radicali di destra e di sordità verso le istanze anti-migranti dell’opinione pubblica, i soli governi possibili diventerebbero quelli di grosse koalition (partiti moderati contro tutti gli altri), e l’avanzata delle destre potrebbe risultare travolgente. Lo scontro fra forze anti-sistema (di destra) e partiti di governo (di varia matrice politica) diventerebbe tossico. Le manifestazioni anti-fasciste e anti-naziste, che già ora cercano di impedire raduni, riunioni ed eventi pubblici di destra, finirebbero per moltiplicarsi, mettendo a dura prova la convivenza civile.

Se invece la linea attuale di chiusura venisse abbandonata, e la sinistra si risolvesse a prendere sul serio il nodo migratorio (ingressi irregolari, criminalità, comunità islamiche, eccetera) la situazione sarebbe più aperta, e decisamente meno inquietante. In alcuni paesi il problema migratorio potrebbe essere affrontato associando al governo partiti finora esclusi, in altri paesi potrebbe succedere quel che è accaduto in Danimarca, dove i socialisti governano proprio perché hanno preso sul serio il dossier migratorio. In entrambi i casi l’onda che sospinge il consenso elettorale verso le formazioni di destra più estremiste perderebbe lo slancio che ha acquisito negli ultimi anni, e probabilmente regredirebbe pure un po’.

Ma è uno scenario improbabile, per ora. Le forze progressiste, almeno nel nostro paese, vedono l’avanzata delle destre come un’onda nera, un pericoloso ritorno di pulsioni razziste, fasciste, neonaziste. Pensano che il problema dell’immigrazione sia un artefatto ideologico delle destre, e che prenderlo sul serio non porterebbe voti alla sinistra. Le quattro donne che stanno conquistando l’Europa sentitamente ringraziano.

[articolo uscito sul Messaggero il 9 febbraio 2025]

Riforma della giustizia – La flebile voce dei liberali

21 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Non succede spesso, in Parlamento, che 3 forze di opposizione su 6 votino con la maggioranza. Ma è successo pochi giorni fa alla Camera con la legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, approvata con i voti dei tre partiti di maggioranza, ma anche grazie al voto favorevole di Azione (Carlo Calenda) e di +Europa, nonché all’astensione di Italia Viva, il partito di Renzi. Contro la legge, invece, hanno votato i partiti del “monoblocco” Pd+Cinquestelle+Avs che, a dispetto di alcune divergenze interne, quasi sempre vota compattamente contro tutto ciò che viene proposto dalla maggioranza.

Se guardiamo alla storia dei tre partitini di opposizione che hanno votato a favore della separazione delle carriere, nessuno può sorprendersi del loro comportamento. Renzi e Calenda sono sempre stati garantisti. Quanto a +Europa, è una formazione politica con ascendenze radicali: chi è sufficientemente vecchio ricorderà che più volte in passato (in particolare nel 1994 e nel 1996) i radicali sono stati alleati del centro-destra e di Silvio Berlusconi. Nessuno stupore, quindi, che – su una questione che ha a che fare con la libertà e i diritti dei cittadini – si siano trovati in sintonia con la maggioranza.

Si potrebbe pensare, dunque, che quella sulla giustizia sia una scappatella minore che – a tempo debito – non impedirà al campo
largo di ricompattarsi su tutto il resto.

Ma è così?

Nessuno può escludere l’ipotesi della semplice scappatella: la retorica antifascista e il racconto di imminenti gravissimi pericoli per la democrazia possono fare miracoli, sdoganando alleanze contro natura e la formazione (o meglio ricostituzione) di “fronti popolari” contro le destre-destre.

Ma se ragioniamo a mente fredda, e ci interroghiamo sul DNA di quei tre partitini non solo in ambito giudiziario ma anche e soprattutto sul versante della politica economico-sociale, non possiamo ignorare alcune circostanze fondamentali. Primo, tradizionalmente le proposte di politica economica dei Radicali hanno puntato sulla riduzione delle tasse e sul risanamento dei conti pubblici, non certo sull’ulteriore espansione della spesa corrente. Secondo, Renzi e Calenda hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le istanze del mondo imprenditoriale e le esigenze della crescita. Terzo, il periodo renziano è stato l’unico, nella seconda Repubblica, che ha visto una apprezzabile riduzione della pressione fiscale.

Di qui la domanda: che succederà quando, in vista delle prossime elezioni politiche, i partiti del monoblocco dovranno spiegare dove troveranno le risorse per rafforzare sanità e scuola, e soprattutto chi (stato o imprese?) dovrà sopportare i costi del salario minimo legale.

È facile immaginare che Pd-Avs-Cinquestelle, anche senza rispolverare la vecchia campagna “anche i ricchi piangano”, non potranno esimersi dallo spiegare da dove andranno prese le risorse del loro costoso programma, e inevitabilmente si tornerà a parlare di patrimoniale (“chi più ha, più deve contribuire”), anzi di patrimoniale permanente, visto che tutti gli aumenti di spesa strutturali (ad esempio quelli per gli stipendi di insegnanti, infermieri e medici) non possono essere coperti con imposte una tantum. A quel punto, che faranno i tre partitini di matrice liberale?

Non credo che riusciranno a convincere i partiti del monoblocco a cercare le risorse con una severa spending review, e ancor meno credo che si lasceranno convincere a lasciar correre il debito pubblico, in plateale contrasto con le raccomandazioni dell’Unione Europea. In breve, i tre partitini che oggi dissentono dai maggiori partiti di opposizione solo sulla riforma della Giustizia, potrebbero domani trovarsi a dover dissentire anche sulla politica economico-sociale. E avrebbero pure tutte le ragioni per farlo. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma mentre si continuano (giustamente!) a denunciare le lunghe liste d’attesa negli ospedali, le aule fatiscenti nelle scuole, il permanente rischio idrogeologico, i bassi stipendi dei dipendenti pubblici, si dimentica che tutto ciò coesiste con una pressione fiscale record non solo in Europa ma rispetto a tutti i paesi avanzati, appartenenti all’Oecd (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi).

Basterà promettere che la lotta all’evasione fiscale risolverà tutto?

Forse sì, perché – fra le innumerevoli illusioni della politica – questa è l’illusione più dura a morire. Ma potrebbe anche succedere che i tre partitini non si scordino di un piccolo, cruciale, principio della politica economica: se non vuole innescare una drammatica implosione dell’economia, la lotta senza quartiere all’evasione fiscale deve servire ad abbassare le aliquote dell’economia legale, non certo ad alimentare una spesa pubblica corrente già largamente fuori controllo.

Insomma, la partita è incerta. Può essere che i partitini di ispirazione liberale, magari con il comprensibile obiettivo di non sparire, si lascino assorbire dalla “gioiosa macchina da guerra” del campo largo. Ma è anche possibile, e per alcuni auspicabile, che prevalga il desiderio di non sperperare un’eredità politica, e che la voce dei liberali non si estingua per sempre.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 gennaio 2025]

La chiusura della mente progressista – A proposito di “egemonia culturale”

5 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

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Se c’è una cosa che, ogni volta, è capace di suscitare il mio stupore è il modo, sostanzialmente autolesionista, in cui i media progressisti parlano di Giorgia Meloni, e più in generale del suo primo anno di governo.

Ma forse, più che di stupore, dovrei parlare di incredulità. Non riesco a credere, infatti, che tutto – ma proprio tutto – quello che questo governo ha fatto nel primo anno sia sbagliato. Eppure è questo il messaggio che, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, riga dopo riga, battuta dopo battuta, vignetta dopo vignetta, promana dall’universo progressista. Dove il fatto sorprendente è che le critiche non riguardano solo le cose di destra che questo governo ha fatto, come i condoni, le norme ostili alle Ong, l’inasprimento delle pene per alcuni reati, ma anche le innumerevoli misure di sinistra che un’opposizione pensante e intellettualmente onesta avrebbe dovuto accogliere con sorpresa e compiacimento, anziché con rabbia e ostilità. La politica economico-sociale, dagli sconti in bolletta alla riduzione del cuneo fiscale, dalle misure a sostegno delle fasce deboli all’intervento sulle pensioni (punitivo verso i ricchi), ha avuto fin qui un chiarissimo segno progressista. Condoni a parte, non ricordo leggi finanziarie così univocamente sbilanciate a favore dei ceti medio-bassi.

Persino sulla politica migratoria, ci sarebbero molte cose da eccepire. Capisco che l’opposizione abbia sparato a zero sul decreto Cutro, sull’accordo con la Tunisia, sul progetto di smistare in Albania una parte degli arrivi, ma che dire della politica degli ingressi legali? Qualcuno ha notato che nessun governo precedente aveva mai programmato tanti ingressi per lavoro mediante i decreti flussi?

Certo, le lamentele dell’opposizione sugli innumerevoli problemi dell’Italia sono più che fondate: liste d’attesa inaccettabili negli ospedali, fuga dei cervelli, insegnanti mal pagati, scuole pericolanti, dissesto idrogeologico, bassi salari, alto debito pubblico, povertà. Ma come pensare che l’opinione pubblica sia così stupida e smemorata da mettere tutto questo in conto al governo Meloni, senza riflettere per un solo momento sul fatto che, dopo la crisi del 2011, l’unico partito che è stato quasi sempre al governo è il Pd?

Però, si dirà, il fatto è che la Meloni ha tradito tutte le sue solenni promesse. Le tasse restano alte, la legge Fornero non è stata abolita né superata, gli sbarchi sono triplicati, la criminalità dilaga nelle strade. Qualche commentatore, si avventura a pronosticare che, per l’imbarazzo di non aver saputo attuare il “blocco navale”, i media di destra e la tv pubblica – in vista delle elezioni europee – non oseranno più parlare di sicurezza, criminalità, immigrazione.

Anche qui, non ci posso credere: come non capire che, se critichi la Meloni perché non ha saputo fermare i migranti, stai chiedendo più destra, non certo più sinistra? che se denunci le troppe tasse, stai invocando più liberismo, non più welfare? come illudersi che esista un percorso logico che dalle promesse tradite di Giorgia Meloni possa condurre verso il voto a Elly Schlein?

Ma non è solo questo. La “chiusura della mente progressista” (per richiamare un felice titolo di Allan Bloom) va ben oltre queste stranezze della comunicazione. Il suo vero punto debole è sostanziale, e consiste nell’incapacità di rispondere alla domanda-chiave: perché i ceti popolari, da diversi decenni, guardano più a destra che a sinistra?

Accontentarsi della solita risposta – la destra parla alla pancia del paese, la destra fornisce soluzioni semplicistiche a problemi complessi – non è solo vagamente razzista (il popolo è ignorante e manipolabile), ma è drammaticamente controproducente perché non coglie i due tratti fondamentali che, finora, hanno reso la destra più attrattiva della sinistra. Il primo è che ci sono un sacco di cose giuste e di sinistra nella politica della destra. Il secondo è che la destra che Giorgia Meloni ha costruito e vuole rappresentare è culturalmente vicina al modo di sentire della maggioranza degli italiani, e in special modo dei ceti popolari. Una circostanza che, ove avessero ascoltato con animo aperto il discorso pronunciato ad Atreju, non sarebbe sfuggita neppure ai critici più prevenuti.

Quando solidarizza con l’inquilino che non può rientrare in casa propria perché gliel’ hanno occupata. Quando difende il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre, e a non essere separati dalla propria madre biologica. Quando prende le distanze dalle follie del politicamente corretto e della mentalità woke. Quando solidarizza con l’insegnante “sparata” e filmata dagli allievi, o stigmatizza i genitori che si fanno sindacalisti dei figli. Quando denuncia l’iniquità del reddito di cittadinanza se erogato a chi potrebbe lavorare. Quando, alludendo agli influencer come Chiara Ferragni, contrappone chi il made in Italy lo fa (a beneficio di tutti), a chi cinicamente lo sfrutta (a proprio esclusivo vantaggio).  In questi e tanti altri casi, Giorgia Meloni fa anche un discorso morale, che non piace a tanti intellettuali progressisti ma incontra, intercetta, e legittima sentimenti profondamente radicati nella sensibilità popolare, e più in generale nel senso comune.

Finché non prenderà atto di questo, la sinistra avrà ben poche chance di tornare al potere. E alla destra, forse, non occorrerà cimentarsi nella mission impossible di costruirsi una propria egemonia culturale: dopotutto, fra i ceti popolari l’egemonia ce l’ha già. E la chiusura della mente progressista, incapace di vedere quel che di sinistra c’è nella destra, e quel che di destra c’è nei ceti popolari, è – per Giorgia Meloni – la miglior polizza di assicurazione.

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