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Perché si fanno pochi figli – A proposito di “inverno demografico”

27 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Nel 2011, in piena crisi finanziaria, per la prima volta dall’Unità d’Italia la popolazione italiana supera i 60 milioni di abitanti. Nei due anni successivi continua a crescere, toccando l’apice di 60 milioni e 350 mila abitanti nel 2013. Da allora inizia un inesorabile declino, che nel 2017 la riporta sotto i 60 milioni di abitanti, nel 2022 sotto i 59 milioni di abitanti, fino a questo 2023 che si chiuderà con una popolazione intorno ai 58.8 milioni di abitanti.

È un trend inesorabile?

Sì e no. Con le nascite scese sotto le 400 mila unità l’anno, e le morti salite intorno alle 650 mila (dopo i picchi dell’epidemia, quando avevano superato le 700 mila l’anno), lo sbilancio è di almeno 250 mila unità l’anno. Quindi il calo della popolazione è inevitabile, a meno che l’afflusso netto di stranieri si attesti intorno alla medesima cifra, o le donne residenti in Italia – italiane e straniere – tornino a fare figli.

Ma né la prima né la seconda condizione si stanno verificando. Come mai?

Apparentemente, il flusso degli stranieri (100-150 mila sbarchi l’anno, decine di ingressi dalla rotta balcanica, più 150 mila arrivi attraverso i decreti flussi) sarebbe sufficiente a neutralizzare il calo demografico “naturale”. Se ciò non avviene, è per un complesso di motivi: molti stranieri si limitano a transitare dall’Italia, diretti verso altri paesi europei; altri – per lo più irregolari – si fermano da noi, ma non prendono la residenza; quanto ai lavoratori ammessi con i decreti flussi, più di metà dei permessi sono stagionali. Il risultato è che la popolazione straniera residente, da circa un decennio, fluttua appena al di sopra dei 5 milioni di persone, senza alcuna capacità di attenuare il calo demografico.

Quanto alla seconda condizione, ossia una ripresa della natalità, è ancora più chimerica della prima. Le nascite sono poche sia perché, esaurito il baby boom degli anni ’50 e ’60, le donne in età fertile sono sempre di meno, sia – soprattutto – perché le donne fanno sempre meno figli. Ciò vale per le italiane, il cui tasso di fecondità è sceso sotto 1.2 nati per donna (era ancora vicino a 2 intorno al 1980), ma anche per le straniere, la cui propensione a fare figli – tuttora maggiore di quella delle italiane – è scesa ancora più rapidamente.

Quanto sia incisivo questo fattore lo rivela un semplice calcolo: se le donne italiane avessero un tasso di fecondità analogo a quello delle donne francesi (1.9), le nascite si salirebbero da meno di 400 mila a oltre 600 mila l’anno, una cifra quasi sufficiente a pareggiare il numero di morti.

Ma perché le donne italiane fanno così pochi figli?

Si sente spesso invocare la precarietà di tante occupazioni, la mancanza di asili nido, l’incertezza del futuro. Queste spiegazioni, tuttavia, sono basate su una confusione concettuale: è vero che con posti di lavoro meglio retribuiti, maggiori servizi sociali, un’economia più dinamica, il tasso di fecondità sarebbe maggiore di quello attuale; nello stesso tempo, però, non si può non notare che negli anni ’70 e ’80, quando i tassi di fecondità erano ancora prossimi a 2, la carenza di asili nido era ancora maggiore di oggi, la quota di posti di lavoro precari era analoga (se non superiore), e il tenore di vita era decisamente più basso di quello attuale. Quel che si tende a ignorare, se non a nascondere, è l’abissale cambiamento culturale che è intervenuto fra l’epoca in cui era il lavoro il centro delle nostre vite, e l’epoca in cui centrali sono diventati il consumo, l’intrattenimento, l’organizzazione scientifica del tempo libero. È perché teniamo troppo al nostro modo di vita e alle nostre più o meno abusate libertà che l’impresa di fare figli ci appare tanto ardua e rischiosa. Un figlio – non solo per la madre – significa meno cene con gli amici, meno weekend lunghi, meno svaghi, meno tempo per sé stessi, in definitiva: meno spensieratezza, fine dell’adolescenza prolungata. È anche per questo, e non solo per ragioni professionali, che una quota così ampia delle giovani donne che, alla fine, i figli comunque li fanno, attendono lo scoccare dei 30-35 anni, quando l’orologio biologico le avverte che il tempo sta per scadere.

La realtà indicibile è che, se non fossimo diventati una “società signorile di massa”, impegnata ad espandere senza limiti la sfera dei diritti, e refrattaria ad ogni contenimento dei desideri individuali, l’avventura di mettere al mondo dei figli ci spaventerebbe di meno.

Ecco perché le spiegazioni basate su precarietà, servizi sociali carenti, incertezza del futuro ci appaiono tanto seducenti, a dispetto della loro debolezza scientifica. Attribuendo a cause esterne l’origine delle nostre decisioni, quelle spiegazioni funzionano come perfette razionalizzazioni, che ci evitano il disagio di riconoscere le ragioni per cui, oggi, la scelta di fare e allevare figli è diventata così poco attraente.

Denatalità e Governo

15 Settembre 2023 - di Alberto Contri

In primo pianoPolitica

Al Governo si sono accorti che la denatalità è un problema molto grave.

“Non c’è nessuna riforma o misura previdenziale che tiene nel medio e lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo oggi in questo Paese” ha detto il Ministro Giorgetti al Meeting di Rimini.

Da alcuni mesi girano ipotesi di deduzioni progressive dal reddito a partire dal primo figlio.

E su questo tema i partiti di governo sembrano ciclisti in surplace pronti a scattare per intestarsi i relativi provvedimenti, il che costituisce già una parte del problema. Perché dimostra una visione di breve respiro. La mancanza di una complessiva visione strategica di sviluppo del paese spiega perché l’Italia è in un costante declino. Si tampona, si vende e si svende, si accontenta qualche categoria più rumorosa di altre, mentre il debito pubblico continua a crescere.

È certamente buona cosa che al Governo si stia pensando di incentivare la nascita di figli. Che dovrebbero essere procreati da giovani coppie con una visione del mondo ottimista e positiva. Ma chi ha qualche dimestichezza con la classe dai venti ai trent’anni fa davvero fatica a trovarne qualcuna.

Diseducata da una imperante e invasiva cultura woke, la maggioranza delle cosiddette future speranze del paese pare concentrarsi solo su un eterno presente, ricorrendo alla costante ricerca di piaceri istantanei, come aveva già scritto Lorenzo de Medici: “Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. 

In assenza di certezze, se non quelle che prevedono – tardi – una pensione molto modesta, buona parte dei giovani si concentra su obiettivi di soddisfazione immediata come l’apericena e la discoteca, quando non si tratta di alcol e sballo. “Ciascun suoni, balli e canti, arda di dolcezza il core: non fatica, non dolore!”.

Sono passati più di cinquecento anni, e la situazione da allora è solo peggiorata. In particolare, dopo il big bang del web si è fatto di tutto per rammollire due generazioni dissolvendo la loro mente nella “costante attenzione parziale” stimolata dall’uso smodato del cellulare (v. Mc Luhan non abita più qui?-  Alberto Contri, Bollati Boringhieri , 2017]), assogettandole al non-pensiero di influencers come i  Ferragnez, convincendole che il sesso non c’entra con l’amore, che si può cambiare come un abito, che essere fluidi è assai moderno, cool, come dicono in America e piace ripetere da noi.

Può una simile poltiglia umana, che impazzisce per Chadia Rodriguez o i Maneskin, prendersi la responsabilità di mettere su famiglia?

Famiglia? Un’istituzione ritenuta superata, con una immagine continuamente delegittimata e ridicolizzata dalla narrazione dei mass media, dei social media e delle piattaforme di pay-tv. Si veda, a titolo di esempio, la serie Euphoria prodotta da Sky, il cui regista si vantò alla conferenza stampa di presentazione dicendo: “Questa serie farà andare fuori di testa molti genitori”.

Se la famiglia normale, come ha scritto il generale Vannacci sollevando un putiferio, non torna ad essere considerata una primaria aspirazione in tv, nel cinema e nei social – e non solo in qualche pubblicità dei maccheroni – non c’è alcuna speranza di invertire il grave trend della denatalità.

Ci rendiamo conto di quanti attori dovrebbero essere convintamente coinvolti in questo processo? Un qualche incentivo potrà generare un po’ di articoli di giornale, mentre per ottenere qualche risultato occorrerebbe reimpostare completamente il modo di immaginare la propria responsabilità sociale da parte delle giovani generazioni.

C’è in giro qualcuno che intende farsi carico di una simile rivoluzione culturale e antropologica?

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