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L’incapacità di imparare dagli errori

25 Aprile 2021 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

La battaglia fra aperturisti e chiusuristi dilaga ovunque: sui giornali, nei talk show, fra i virologi, nel Governo, persino nel Comitato tecnico-scientifico.

Ma la gente, i cittadini normali, che non hanno agganci, vie privilegiate, conoscenze preziose, o semplicemente hanno la sfortuna di essere nati nella regione sbagliata, o la disgrazia di avere un medico di base che non visita a domicilio, o non vaccina, o rimanda ogni decisione alla ASL, questi cittadini – dicevo – non si appassionano alla disputa sull’orario di inizio del coprifuoco.

Per chi si ammala, o teme di ammalarsi, o vorrebbe vaccinarsi, i problemi sono altri.

Il problema numero 1 è che, ancora oggi, a 15 mesi dall’inizio della pandemia, non solo il medico di base non ti viene a visitare, ma non esiste un protocollo ufficiale di cure domiciliari nelle prime fasi della malattia se non il beffardo protocollo ministeriale “paracetamolo & vigile attesa”. Cioè: predi una tachipirina e prega…

Questo nonostante di protocolli di cure domiciliari articolati ed efficaci ne siano stati sperimentati con successo parecchi, e l’evidenza empirica che li supporta sia considerevole. Il colmo è accaduto qualche giorno fa, quando il TAR del Lazio ha dato ragione al Comitato Cura Domiciliare Covid 19, che aveva invocato il diritto/dovere dei medici di andare oltre le scarne indicazioni ministeriali, e per tutta risposta il Ministero della Salute – anziché adoperarsi per colmare i propri ritardi – non ha trovato di meglio che ricorrere al Consiglio di Stato per sconfessare il Tar e bloccare l’iniziativa dei medici. Eppure è ben noto che l’intasamento degli ospedali e delle terapie intensive è dovuto anche alla mancata riorganizzazione della medicina territoriale, che tuttora non è in grado di gestire a casa (e precocemente) un numero adeguato di pazienti.

Un discorso analogo vale per le cure mediante anticorpi monoclonali, che richiedono solo un breve passaggio in ospedale, e se usati diffusamente potrebbero evitare le molte ospedalizzazioni: con 150 mila dosi disponibili, le carenze organizzative (e l’intasamento degli ospedali) hanno fatto sì che alla fine di marzo i pazienti trattati fossero poco più di un migliaio.

Così per i vaccini. Siamo arrivati al punto che, per potersi vaccinare senza attendere tempi biblici, decine di migliaia di persone stanno cambiando domicilio per poter usufruire dei servizi delle (poche) Regioni efficienti, guidate dal Lazio; o cercano di cambiare medico di base (molti medici di base non vaccinano); o volano in Serbia, dove vaccinarsi è facile; o scrutano internet per scoprire se in qualche Regione è previsto un “open day” in cui ci si può vaccinare con il solo requisito dell’età. Insomma, la campagna vaccinale sta alimentando un senso generale di ingiustizia, di soggezione alla sorte e all’arbitrio dei poteri pubblici.

Eppure si poteva non arrivare a questo punto. Per mettere i medici di base in condizione di visitare, dotandoli di dispostivi di protezione individuale e di un protocollo di cure domiciliari efficace, c’era tutto il tempo. Quanto alla campagna vaccinale, non si capisce perché le autorità sanitarie non siano state in grado né di gestire centralmente la campagna (come sembra suggerire l’articolo 117 della Costituzione) né di imporre alle Regioni regole comuni non derogabili. Per non parlare del coinvolgimento delle farmacie nelle vaccinazioni, per cui praticamente nulla si è fatto fino ad aprile.

Perché le cose sono andate così? Perché, ancora oggi come un anno fa, il terrore di tutti non è il Covid in sé, ma la coscienza che, se ci ammaliamo, potremmo trovarci soli, appesi a un numero verde, e abbandonati da chi dovrebbe proteggerci? Perché, oggi come ieri, centinaia di migliaia di malati non-Covid sono costretti a rinunciare a una cura, a un ricovero, a un intervento, a causa degli ospedali sopraffatti dall’onda dei malati Covid? Perché, ancora una volta, le autorità sanitarie hanno tergiversato prima di intervenire? Perché quasi nulla è stato fatto per riorganizzare il trasporto pubblico, o per mettere in sicurezza le scuole?

Se devo essere sincero, la mia risposta è: non lo so. O meglio: non lo so più. Fino a un certo punto ho creduto che la superbia e la sordità dei governanti, incapaci di ascoltare ogni voce indipendente, spiegassero molte cose.

Oggi non più. Oggi mi pare che ci sia qualcosa di più sottile e al tempo stesso più devastante: l’incapacità di imparare dai propri errori, in modo da correggerli. Un comportamento che, a chi come me appartiene a una comunità scientifica, risulta  semplicemente incomprensibile.

Ma mi rendo conto che sono io fuori strada. Nella comunità scientifica gli errori, prima o poi, si scoprono. E chi ha sbagliato li riconosce. Se non lo facesse perderebbe la sua reputazione. Per questo la scienza va avanti.

Nella politica è diverso, almeno in Italia. Basta leggere l’accorata lettera-appello a difesa del ministro Speranza (“Io sto con Roberto”) circolata nei giorni scorsi per rendersene conto. Qualsiasi errore sia stato commesso, c’è qualcuno pronto a negare che sia stato commesso, o che sia stato un errore. L’intelligenza non viene usata al servizio della ricerca della verità, ma al servizio di una causa politica ritenuta giusta, e in nome della quale si può calpestare ogni evidenza empirica (e ogni tragedia). Gli errori non sono errori, ma questioni di “punto di vista”. Ideologico.

Per questo, alla politica diversamente che alla scienza, è concesso di non imparare dai propri errori. Peccato che, di quel privilegio della politica, le vittime siano noi: la terza ondata, e il buio esistenziale che si è impadronito delle nostre vite, sono anche una conseguenza di quel privilegio.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 aprile 2021

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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