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La ruota e il ruotino. Perché la didattica a distanza non è la soluzione

7 Settembre 2020 - di Andrea Ricolfi

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Avete presente quando bucate una gomma? Questo è quello che facciamo: imprechiamo, montiamo la ruota di scorta, e ci premuriamo di sostituirla con una ruota della misura giusta appena possibile. Tutti e tre questi passaggi sono fondamentali.

Credo sia successo esattamente questo quando il Covid ci ha costretti ad abbandonare le lezioni in presenza: abbiamo forato e, con prontezza, abbiamo montato il ruotino, ovvero siamo passati alle lezioni online. Era la cosa giusta da fare, meno male che ce l’avevamo, la ruota di scorta. Quello che voglio dire è solo questo: le lezioni online non sono niente di più che una ruota di scorta, da sostituire al più presto con una ruota vera. Per favore, non affezioniamoci al ruotino!

Ci tengo a sottolineare che l’imprecazione è fondamentale, ma su questo punto tornerò alla fine.

Parlerò solo di quello che vedo coi miei occhi, e cioè le lezioni universitarie della disciplina che mi dà da vivere, ovvero la matematica. Il principio si applica in generale, anche a lezioni non universitarie. L’unica cosa che dovete sapere sul mestiere del matematico è questa: per comunicare con un suo simile, al matematico lavagna e gesso sono più che sufficienti.

Partiamo dal presente, cioè le lezioni online. Premetto una cosa: durante il lockdown ho comprato un tablet, ci ho messo mezzora a imparare a usarlo e l’ho sfruttato diverse volte per fare seminari, di ricerca e non, che normalmente avrei fatto alla lavagna. Non è solo divertente e facile da usare, è uno strumento eccellente. Ma, appunto, mi fermo qui: è uno strumento. Non può sostituire lavagna e gesso, e voglio spiegare perché.

Com’è una lezione online? Si sceglie una piattaforma in rete a cui collegarsi, per esempio Zoom, e una volta arrivati tutti gli interessati il docente inizia a condividere lo schermo, che sostituisce la lavagna. A questo punto, ci sono diverse modalità possibili (riporto solo le più efficaci tra tutte): il docente può scrivere sul tablet in tempo reale, di solito copiando la lezione preparata in anticipo su dei fogli, e gli studenti vedono il testo apparire sul proprio schermo, proprio come alla lavagna; oppure, può decidere di mostrare delle slide preparate in anticipo. I partecipanti, fin da subito, chiudono il microfono e il video, così da migliorare la connessione e non disturbare la lezione: sono muti e invisibili. Il docente parla per un’ora o due da solo nel salotto di casa sua, e gli studenti ascoltano da casa propria. Se vogliono, alla fine fanno domande. E questo è quanto.

Invece prima era così: lo racconto in prima persona. Entro in aula con due gessetti, nient’altro. Un numero più o meno grande di studenti si sono svegliati quel giorno e sono entrati in università nella speranza di imparare cose nuove guardando quello che succede alla lavagna. Voglio enfatizzare che la matematica, come molte altre discipline, si impara soprattutto parlando con le persone: i libri sono fondamentali, ma difficili da interiorizzare. A volte cinque minuti spesi alla lavagna con qualcuno che ci spiega qualcosa, anche da studente a studente, valgono molto di più di due ore passate su un libro.

Continuiamo: inizio a scrivere alla lavagna. Il gesso fa rumore. Scrivo lentamente, per non mettere ansia a nessuno: il rumore del gesso che batte freneticamente sulla lavagna potrebbe far scattare la preoccupazione di non saper stare al passo. Mi giro spesso a guardare le facce degli studenti: gli sto raccontando una storia, magari non è una storia facile e non sono di certo quello che la sa raccontare meglio, ma girandomi spesso per incontrare i loro sguardi capiscono che sono lì per loro, che sto facendo del mio meglio per passar loro qualcosa e che quel viaggio lo stiamo facendo insieme. Li guardo negli occhi. Così sanno che, se vogliono, possono interagire, fare domande. Avete mai fatto caso ai baristi, quando evitano il contatto visivo? E’ il loro modo di dirci che non hanno tempo per noi. Quindi, li guardo negli occhi. Mentre scrivo, non posso farlo. Ma posso ascoltare. Magari c’è silenzio, ma ci sono diversi tipi di silenzio: per esempio, quello che riflette la consapevolezza che si sta toccando un passaggio cruciale, o quello che mi dice che sono curiosi di vedere come finisce la storia. Significa che devo fare uno sforzo per mantenere quell’atmosfera fino alle fine del discorso.

E poi, arriva la cosa più importante: il brusio. Fondamentale, sentire il brusio. Significa che non sono stato efficace, che la cosa che ho appena detto avrei potuto dirla meglio. Torno indietro, mi ci soffermo, la dico in modo diverso, li riguardo negli occhi e all’istante ho la conferma che non sono stato abbastanza chiaro. Di solito, a quel punto parte una domanda.

Intervallo: siamo a metà lezione. Qualcuno si avvicina alla lavagna, fa una domanda troppo intricata da proporre durante la lezione, o magari mi chiede di rispiegare una cosa. Adesso siamo lì, alla lavagna, anche lo studente ha un gessetto in mano, possiamo scrivere entrambi e guardarci negli occhi, e la vicinanza fisica aiuta quella spirituale: sembra un’idiozia, ma mi ricordo bene che, da studente, le cose che imparavo meglio erano quelle che mi venivano spiegate da qualcuno che avevo la prova tangibile che fosse un essere umano, a pochi passi da me, mentre disegnava simboli alla lavagna che erano lì sopra, bianco su nero, proprio per me.

Non farò una comparazione tra le due descrizioni che ho dato, delle lezioni online e di quelle in presenza. Osservo semplicemente che nulla di quello che ho descritto della lezione in presenza si trova, o è in qualche modo recuperabile, nella lezione online.

Anche i seminari di ricerca si fanno online. Lì il clima è simile ma anche un po’ diverso, per esempio il pubblico non è formato da studenti ma da dottorandi, ricercatori: non si tiene una lezione ma si espongono i risultati delle proprie ricerche. Buttiamola sul ridere, per stemperare un po’: mi manca molto vedere il professore di turno addormentato in prima fila con la bocca aperta dopo dieci minuti che parlo, forse perché una pasta cacio e pepe prima del seminario non era una buona idea, oppure perché sono veramente noioso. In ogni caso, era bello da vedere. Potevo scegliere di fare una battuta, o direttamente dedurre che avrei potuto migliorare l’esposizione. Ma qualunque cosa scegliessi di fare, sapevo esattamente cosa stava succedendo attorno a me. Io stesso, assistendo a dei seminari online fatti da altri, mi sono alzato diverse volte dal divano (sì, li ascoltavo sul divano, e, per essere onesto fino in fondo, non sempre avevo i pantaloni) per prendermi una fetta al latte nel frigo. Le lezioni e i seminari fatti così assomigliano più a delle serie su Netflix, e la cosa mi spaventa proprio per lo smisurato successo di Netflix.

Infine, parliamo dell’imprecazione. Essa non scaturisce solo nel momento in cui foriamo: anche dopo che abbiamo montato il ruotino, ci accorgiamo che in curva la tenuta di strada è peggiorata, e siamo costretti ad andare a velocità ridotta, perché il veicolo è diventato d’un tratto meno sicuro. Voglio chiedere a tutti coloro che sono in posizione di imprecare, per favore di non smettere. Non abituiamoci al ruotino: non è uno strumento sicuro, e chi rischia di rimetterci sono i giovani, gli studenti che ci stiamo impegnando a formare ogni volta che entriamo in un’aula. Non permettiamo ai burocrati di pensare che, siccome la macchina continua ad andare avanti, va bene così e non dobbiamo passare dal gommista. La macchina va avanti solo perché il danno non era al motore, ma le ruote sono ugualmente importanti.

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Andrea Ricolfi
Andrea Ricolfi
Torino, 30 marzo 1988 Matematico (SISSA, Trieste).
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