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Dal Green Pass alla Green Economy, tutti i disastri del nuovo “modello Italia”

9 Dicembre 2021 - di Paolo Musso

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Che Disperazione (vero nome del purtroppo-ministro Speranza) continui ad elogiare il demenziale sistema del Green Pass fa arrabbiare, ma non stupisce: dopotutto, egli non solo ne è il principale artefice, ma è anche quel tale che l’anno scorso, giusto di questi tempi, stava facendo ritirare da tutte le librerie d’Italia, in tutta fretta e cercando di non dare troppo nell’occhio, il libro autocelebrativo che aveva scritto durante l’estate invece di preoccuparsi di prevenire la prevedibilissima ripresa dell’epidemia, che proprio in quegli stessi giorni aveva ripreso a diffondersi esponenzialmente.

Che però anche un ministro tedesco lo elogi, come è accaduto pochi giorni fa, dicendo testualmente che «dall’Italia abbiamo molto da imparare», non solo stupisce, ma preoccupa molto. Non c’è dubbio, infatti, che in Italia la situazione quest’anno sia nettamente migliore non solo rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma anche a molti altri paesi europei (benché non a tutti). Tuttavia, ciò è dovuto assai più ai demeriti altrui che ai meriti nostri, dato che molti paesi europei, soprattutto dell’Est, che avevano fatto molto meglio di noi nella fase pre-vaccinale, hanno fin qui vaccinato pochissimo, mentre altri che stavano procedendo bene negli ultimi mesi hanno enormemente (i dati seguenti sono tutti tratti da Our World in Data, https://ourworldindata.org/).

Paradigmatico è il caso di Israele e Gran Bretagna, che dopo essere stati per lungo tempo in testa alla classifica, con un netto vantaggio su di noi, hanno poi frenato così bruscamente che mentre scrivo, cioè al 6 dicembre 2021, hanno rispettivamente il 62,2% e il 68,2% di completamente vaccinati contro il nostro 73,2% (la discrepanza dal dato ufficiale dell’85% si spiega col fatto che il governo, furbescamente, per alzare la percentuale si riferisce alla sola popolazione vaccinabile, non comprendente i minori di 12 anni: peccato solo che per il virus il motivo per cui uno non è vaccinato sia irrilevante).

E ancor peggio stanno facendo gli Stati Uniti, che sono attualmente appena al 59,5% nonostante fossero al 50,2% già a inizio agosto, il che significa che in oltre 4 mesi sono avanzati appena di un misero 9,3%. L’avesse fatto il “cattivone” Trump, ce lo ritroveremmo nei titoli di tutti i giornali e le televisioni un giorno sì e l’altro pure. Siccome invece l’ha fatto Biden, che è “buono” per definizione, nessuno dice nulla. Così funziona il nostro mondo…

Eppure, anche così non siamo affatto i migliori dell’Occidente, dove ben 7 paesi ci precedono: Portogallo (87,8%), Malta (83,9%), Islanda (81,9%), Spagna (80,5%), Danimarca (76,9%), Canada (76,5%) e Irlanda (73,3%). E ancor meno confortante ci apparirebbe poi la situazione se guardassimo anche al di fuori dei rassicuranti confini euro-atlantici in cui in genere ci piace rinchiuderci, supponendo, tanto spocchiosamente quanto infondatamente, che questo sia l’unico termine di paragone degno di noi.

Scopriremmo allora, con sorpresa mista a vergogna e (si spera) a qualche domanda, che al 6 dicembre 2021 l’Europa (58,7%) ha vaccinato addirittura meno del Sudamerica (59,7%) e che l’Italia, in particolare, ha meno vaccinati di Cile (84,4%), Cuba (82%) e Uruguay (76,3%) pur avendo un sistema sanitario di gran lunga migliore e, più in generale, essendo un paese molto più avanzato praticamente sotto ogni aspetto. E nel resto del mondo ci stanno davanti anche gli Emirati Arabi (88,4%), la Cina (74,5%) e perfino la Cambogia (79,1%), anche se il suo dato non è troppo affidabile, ma resta comunque piuttosto imbarazzante.

E ancor più imbarazzante è il paragone con i paesi virtuosi del Pacifico, che all’inizio, data la loro invidiabile situazione, se l’erano presa un po’ troppo comoda e per mesi erano rimasti nettamente alle nostre spalle. Ciononostante, a parte Taiwan, che è ancora un po’ indietro (59,4%), ma sta rimontando a ritmo vertiginoso (+22,5% nell’ultimo mese), gli altri sono ormai tutti giunti più o meno ai nostri stessi livelli di immunizzazione o perfino oltre (Singapore 91,9%, Corea del Sud 80,7%, Giappone 77,5%, Australia 73,9%, Nuova Zelanda 72,2%) pur avendo cominciato a fare sul serio solo da inizio giugno. In altre parole, hanno fatto in 6 mesi quello che noi abbiamo fatto in 11.

Insomma, c’è davvero poco di cui menar vanto e, men che meno, dar lezioni agli altri. E ancor peggio vanno le cose se consideriamo l’andamento globale dell’epidemia (che poi, alla fine, è l’unica cosa che conta).

Per il confronto con gli altri paesi avanzati dell’emisfero nord rimando all’analisi pubblicata da Luca Ricolfi su La Repubblica del 6 dicembre e disponibile anche su questo sito (Luca Ricolfi, Vaccinare non basta), che mostra come su 26 paesi considerati attualmente ci posizioniamo esattamente a metà classifica.

Qui invece voglio sottolineare il confronto con i paesi del Pacifico, che continua ad essere devastante, nonostante essi abbiano tutti pagato (ma la Nuova Zelanda, ancora una volta, meno di tutti) il ritardato inizio della campagna vaccinale con un numero di morti per loro inconsuetamente alto (benché sempre enormemente inferiore al nostro). Al 6 dicembre 2021, infatti, l’Italia aveva 2.227 morti per milione di abitanti (mpm), ovvero 253 volte più della Nuova Zelanda (8,8) e da 61 a 15 volte più di Taiwan (36), Corea del Sud (77), Australia (80), Singapore (130) e Giappone (146).

E si noti che il Giappone, che ha il risultato peggiore, avendo pasticciato più di tutti nella prima fase della campagna vaccinale (cfr. Silvia Milone, Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico), attualmente ha quasi azzerato l’epidemia, con appena 5.332 contagi e 103 morti (cioè 42 contagi e 0,8 morti per milione di abitanti) dall’inizio di novembre a oggi, 6 dicembre 2021.

Questo certamente dipende dal fatto che, data la rapidità della somministrazione, lì i vaccini non hanno ancora iniziato a perdere di efficacia, ma smentisce anche la tesi che l’immunità di gregge sia irraggiungibile in senso assoluto: alla velocità a cui siamo andati noi certamente non lo è, ma andando appena un po’ più veloci del Giappone ci si potrebbe riuscire. Il problema è che le terze dosi finora sono finora andate non più velocemente, bensì più lentamente, principalmente perché il governo ancora una volta ha cantato vittoria troppo presto, smantellando prematuramente molte delle strutture con tanta fatica allestite per la campagna vaccinale, considerandola evidentemente già in fase terminale.

Se poi guardiamo al Sudamerica, dove la maggior parte dei paesi continua ad avere un numero globale di mpm pari o addirittura inferiore al nostro, c’è davvero da preoccuparsi, tanto più che le cose non migliorano neppure se ci limitiamo alla situazione più recente. Per esempio, per restare ai paesi sopra menzionati, dal 1° novembre ad oggi, a fronte dei nostri 35,3 mpm, Cuba ne ha avuti appena 7 e l’Uruguay 15,7, mentre solo il Cile sta leggermente peggio con 39,1 (e ricordiamoci che il Cile paga il fatto di aver usato molto il pessimo vaccino cinese, soprattutto all’inizio, quindi proprio per la fascia di popolazione più a rischio). Perfino il Perù (che uso sempre come termine di paragone privilegiato, dato che lo conosco benissimo e posso avere notizie di prima mano) ha avuto nell’ultimo mese 34,6 mpm, cioè un pelo meno di noi, nonostante la cronica inefficienza del sistema sanitario, lo stato di paralisi totale in cui versa da tempo il governo e il fatto che i vaccinati siano solo il 56,6%.

È vero che lì stanno andando verso l’estate mentre noi verso l’inverno, il che, come ormai sappiamo, fa una notevole differenza, ma in ogni caso il paragone resta imbarazzante. D’altronde, perfino la OMS ha finalmente ammesso che oggi l’epicentro della pandemia è l’Europa (come in realtà è sempre stata): il problema è perché, visto che in teoria siamo quelli meglio attrezzati di tutti per fronteggiarla.

Una prima risposta è che purtroppo i paesi europei, con l’Italia in testa, tanto per (non) cambiare, hanno puntato esclusivamente sui vaccini, mantenendo per il resto le solite misure preventive che fin qui hanno miseramente fallito, comprese quelle che la scienza (su cui i nostri governi dicono sempre di basarsi, ma che in realtà hanno sempre ignorato) ha da tempo dimostrato essere sostanzialmente inutili e che rappresentano quindi dei veri e propri casi di pseudoscienza istituzionale. Anzitutto, la disinfezione di mani e superfici, con addirittura, in qualche caso, un ritorno all’uso dei guanti, benché sia ormai accertato che i contagi per contatto sono estremamente rari. Poi l’obbligo di mascherina all’aperto, che è sempre la prima cosa che si fa appena i contagi risalgono (come anche ora), benché sia ormai accertato che i contagi avvengono quasi tutti al chiuso (e proprio per questo aumentano in inverno). Infine, gli pseudo-lockdown con chiusure selettive, che colpiscono sempre le attività a minore rischio di contagio e, di conseguenza, causano regolarmente più danni che benefici.

In compenso, nessuno si è ancora degnato di considerare misure alternative più efficaci, a cominciare dalle due citate da Ricolfi nel già menzionato su Repubblica: gli impianti di filtraggio dell’aria e il tracciamento elettronico dei contagi. Il risultato è che l’unico modo di depurare l’aria nei luoghi chiusi continua ad essere quello di aprire le finestre, come se fossimo un paese del Terzo Mondo e non uno dei più ricchi e progrediti del pianeta. Quanto al tracciamento dei contagi, la cosa più incredibile non è neanche che nessuno in Europa lo stia facendo seriamente (a cominciare dall’Italia, dove la mitica App Immuni è svanita nel nulla dopo aver prodotto il nulla), ma che i nostri governanti abbiano l’impudenza di ripeterci che bisogna continuare a farlo, quando non si è mai neanche cominciato.

Venendo ai vaccini, sicuramente pesa la loro perdita di efficacia nel tempo, che penalizza di più chi ha incominciato più presto, cioè proprio l’Europa e gli Stati Uniti, tuttavia questa spiegazione non basta. In primo luogo, infatti, i vaccini continuano fortunatamente a proteggerci con buona efficacia dalle conseguenze gravi, per cui il loro indebolimento influisce poco sul numero dei morti. In secondo luogo, bisogna considerare (cosa che invece non si fa quasi mai) che il rischio di contagiarsi per chi è vaccinato non dipende solo dall’efficacia intrinseca del vaccino, ma anche dal numero di persone infette con cui ciascuno entra in contatto.

È chiaro, perciò, che, oltre all’arrivo dell’inverno e al grave ritardo nella somministrazione della terza dose (a oggi siamo appena al 15,8%), l’altra causa determinante della risalita dei contagi e dei morti è la presenza di un numero ancora molto grande di persone non vaccinate (che almeno per i morti è anche la causa principale). Su questo punto cruciale il governo continua a gettare fumo negli occhi, vantando l’elevata percentuale di vaccinati e cercando di farci dimenticare che, per quanto quella dei non vaccinati sia assai più bassa, corrisponde a un valore assoluto ancora elevatissimo: al 6 dicembre erano circa 14 milioni, cioè quasi un quarto della popolazione italiana. Quindi, non solo non siamo stati così bravi come ci dicono, ma neanche il risultato fin qui ottenuto è così buono come ci dicono.

E purtroppo non si tratta solo di un problema di efficienza, perché i nostri governi continuano a commettere gravissimi errori concettuali, come già avevano fatto nella prima fase dell’epidemia (cfr. Paolo Musso, Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe). Prima, infatti, hanno puntato tutto sui vaccini (cosa già sbagliata di per sé), poi hanno involontariamente sabotato la propria stessa scelta con decisioni confuse e pasticciate.

Io ho almeno una decina di amici che non intendono vaccinarsi, ma solo due o tre di loro sono contrari ai vaccini in generale, mentre gli altri sono contrari soltanto a “questi” vaccini, in gran parte proprio a causa del comportamento dei governi, che nell’alimentare tale diffidenza ha pesato molto più delle tesi dei No-Vax (cfr. Paolo Musso, Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax).

Prima, infatti, è arrivata l’immotivata sospensione di AstraZeneca, voluta dalla Merkel e accettata supinamente da tutti gli altri governi europei contro il parere dell’EMA (la European Medicines Agency che sovrintende alle sperimentazioni dei farmaci). Poi c’è stata l’assurda decisione di proteggere per legge dalle cause per i possibili danni provocati dai vaccini non solo i medici (come era giusto), ma anche gli Stati, il che invece non ha alcun senso. Infine, è venuto lo scellerato regime del Green Pass, che sta causando un’enorme quantità di disagi a tutti, vaccinati e no, senza apportare benefici significativi, come peraltro era facilmente prevedibile (e infatti io l’avevo previsto, per filo e per segno, in un articolo pubblicato il 6 settembre, ma scritto addirittura a metà agosto: cfr. Paolo Musso).

Queste decisioni, benché ciascuna di esse sia stata presentata dai governi come un segno della loro scrupolosità e del loro rispetto per la libertà dei cittadini, sono state invece interpretate da gran parte di questi ultimi come un segno di sfiducia da parte dei governi nei confronti dei vaccini da loro stessi promossi. E siccome anche questo era facilmente prevedibile, viene da chiedersi com’è possibile che neanche uno dei nostri leader politici se ne sia reso conto, con tutti i fior di esperti di comunicazione che pagano profumatamente per gestire la loro immagine.

È perciò lecito il sospetto che, come già per gli errori precedenti, la vera motivazione sia stata la volontà di evitare di prendersi le responsabilità più scomode, scaricandole ancora una volta sui cittadini. E il sospetto si tramuta in certezza nel caso del Green Pass, che, contrariamente a ciò che, con sovrano sprezzo del ridicolo, continua a ripetere il nostro governo, non è affatto “una misura di prevenzione” e men che meno “uno strumento di libertà”, bensì, con ogni evidenza, un tentativo di introdurre surrettiziamente un obbligo vaccinale di fatto senza prendersi, appunto, la responsabilità di imporlo per legge.

La prova più evidente di ciò è che i luoghi in cui lo si è imposto per primo sono stati quelli a minore rischio di contagio, mentre quelli a rischio maggiore sono arrivati per ultimi e alcuni addirittura ne sono tuttora esenti. Avevo già detto che sarebbe andata a finire così nell’articolo sopra citato, ma se per caso aveste ancora dei dubbi date un’occhiata a queste due foto che ho scattato personalmente a fine ottobre, a soli due giorni di distanza, su due treni della linea Milano-Bologna, uno con obbligo di Green pass e uno no, e poi ditemi per favore come si può avere l’impudenza di sostenere che queste regole servono a prevenire i contagi. Eppure, questa impudenza il nostro governo ce l’ha.

La controprova viene dal confronto con la Spagna, che da subito ha detto ufficialmente che di Green Pass non ne vuol sapere, eppure dal 1° novembre a oggi ha avuto una media di soli 11,7 mpm contro i 35,3 dell’Italia (cioè appena un terzo), nonché i 27,7 della Francia, i 92,5 della Germania e i 154 dell’Austria, giusto per citare alcuni dei paesi che stanno facendo più ampio uso del Green Pass. Poi uno guarda le percentuali delle vaccinazioni e scopre che la Spagna è arrivata all’80,5%, mentre noi, come detto, siamo al 73,2%, la Francia al 70,2%, la Germania al 68,4% e l’Austria appena al 65,1%. La conclusione appare quindi inequivocabile: a proteggere è il vaccino e non il Green Pass.

Certo, se consideriamo solo i luoghi in cui si può entrare unicamente con esso e in cui per giunta vengono mantenute tutte le misure di sicurezza (che all’inizio il governo, mentendo per farci digerire meglio la misura, aveva promesso di togliere), è ben difficile che lì qualcuno si contagi. Tuttavia, considerando le cose globalmente, alla scala dell’intero paese e non solo di alcune specifiche situazioni, i suoi benefici sono molto limitati, mentre i danni sono enormi, soprattutto per il progressivo inasprimento dello scontro sociale che sta provocando, con i non vaccinati che si sentono perseguitati ingiustamente e i vaccinati che li accusano di essere il principale ostacolo al ritorno alla normalità.

Anche l’affermazione, ripetuta con ossessiva insistenza dal governo, che senza il Green Pass si tornerebbe alla chiusura delle attività commerciali e sociali è del tutto falsa. O meglio, è vera, ma solo perché il governo ha deciso così, ancora una volta arbitrariamente e senza seguire alcuna logica di prevenzione, dato che si tratta di attività molto meno rischiose di altre, come fabbriche, uffici, autobus, metropolitane e, appunto, treni regionali, che però non sono mai state realmente sospese, neanche durante lo pseudo-lockdown della prima fase (e infatti si è visto come è andata a finire).

Ma la cosa più grave è che, nonostante tutti i disagi che ha creato, il Green Pass non ha ancora raggiunto il suo vero obiettivo: quello di indurre tutti a vaccinarsi. E, continuando così, non lo raggiungerà mai. Certo, molti hanno ceduto alla pressione e si sono vaccinati, ma, come detto, mancano ancora all’appello 14 milioni di italiani, dei quali solo una minoranza sono bambini sotto i 12 anni e perciò (finora) non vaccinabili. La maggior parte sono invece adulti, che hanno deciso di non vaccinarsi e ben difficilmente lo faranno in futuro, perché appartengono a categorie (come pensionati, casalinghe, colf, badanti, lavoratori autonomi e altri ancora) che non possono essere controllate, a meno di trasformare davvero l’Italia in uno Stato di polizia, autorizzando quest’ultima ad entrare nelle case e negli studi privati anche senza un mandato.

La verità, evidente a chiunque tranne che, a quanto pare, ai nostri governanti, è che se si ritiene, a torto o a ragione, che tutti debbano vaccinarsi esiste una sola strada, limpida e chiara, per raggiungere l’obiettivo: imporre per legge l’obbligo vaccinale, come previsto dalla Costituzione, dopo un dibattito parlamentare altrettanto limpido e chiaro, dal quale risulti chiaro pure di chi sarà il merito se le cose andranno bene e di chi sarà la colpa se invece andranno male. Ma questo è esattamente ciò che non si vuole che accada e quindi si preferiscono le soluzioni pasticciate.

La cosa più paradossale è che la maggior parte delle persone ostili ai vaccini anti-Covid, compresi i miei amici di cui sopra, pur essendo (ovviamente) contrarie all’obbligo, lo ritengono in genere più accettabile del Green Pass, non solo perché sarebbe meno ipocrita, ma anche perché presenterebbe dei vantaggi anche per loro. Oggi, infatti, con la scusa che la vaccinazione è volontaria e che quindi chi ha paura può sempre non farla, non è previsto nessun motivo di esenzione, neppure per comprovate gravi allergie o perché, essendo guariti dal Covid, si ha già un numero molto elevato di anticorpi, il che è gravissimo (e inoltre fornisce ulteriori motivi di diffidenza agli scettici). L’instaurazione dell’obbligo vaccinale, invece, facendo cadere questa giustificazione, comporterebbe necessariamente la definizione delle situazioni in cui si può chiedere di essere esentati.

Come si vede, dunque, gli altri non hanno affatto “molto da imparare” da noi. Eppure, a causa dell’imperante pandemically correct, a cui non importa che le regole siano efficaci nella realtà, ma solo che siano ritenute tali da “color che sanno” (o presumono di sapere), stiamo ugualmente rischiando che si imponga di nuovo una sorta di “modello Italia”, altrettanto privo di fondamento del primo e altrettanto pericoloso. E ciò perfino se alla fine passasse l’obbligo vaccinale, cosa che da qualche giorno non è più fantascienza, non tanto perché la realtà stia finalmente imponendosi (come ho appena detto, oggi come oggi in Europa della realtà non frega niente a nessuno), ma perché è stato violato il tabù, dato che il 19 novembre l’Austria ha annunciato l’adozione dell’obbligo vaccinale a partire dal 1° febbraio 2022. E questo, invece, conta eccome.

Il pandemically correct, infatti, così come, più in generale, il politically correct, di cui rappresenta un sottogenere (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), non si forma attraverso un dibattito razionale, bensì seguendo un processo molto simile a quello che porta alla nascita degli “influencers”. Ciò non è casuale, perché tale processo in gran parte si svolge proprio attraverso Internet, ma anche la parte che passa per altri canali segue dinamiche analoghe: infatti, tra le varie proposte, ridotte rapidamente alla forma iper-semplificata di slogan, ad affermarsi sono quelle che hanno una maggiore capacità di attirare “followers”, non importa per quale motivo, purché siano tanti e in fretta.

Nonostante la sua rapidità, però, tale processo produce risultati estremamente difficili da cambiare, perché ben presto il sistema mediatico comincia a ripetere ossessivamente le idee più gettonate, che diventano così “regole” vincolanti, indipendentemente dal loro effettivo valore e perfino dal fatto che vengano esplicitamente proclamate tali a livello legislativo, perché chi prova a metterle in discussione viene immediatamente censurato e demonizzato dal sistema stesso. Si pensi che i “dogmi” del pandemically correct sono stati creati nel giro di non più di due settimane, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020, e ci governano ancora adesso, sostanzialmente immutati, dopo quasi due anni e nonostante l’evidenza del loro fallimento.

Tuttavia, benché sia difficile, attraverso gli stessi meccanismi e con la stessa rapidità (e, purtroppo, anche con la stessa irrazionalità) tali regole possono anche essere sovvertite, se qualcuno riesce a lanciare una nuova “parola d’ordine” capace di attirare molti consensi con grande rapidità, prima che il linciaggio mediatico abbia il tempo di zittirlo. L’impressione è che l’Austria ce la stia facendo.

Al proposito è molto significativo che solo due giorni dopo, il 21 novembre, su La Stampa sia apparso un editoriale del direttore Massimo Giannini intitolato Fate presto sull’obbligo vaccinale in cui, con un ribaltone totale (ovviamente non riconosciuto come tale) della linea fin lì tenuta, si affermava che «il governo ha oggi un solo dovere, etico e politico: introdurre l’obbligo vaccinale. Subito. […] Lo dicono i numeri» (e, ça va sans dire, anche «la OMS» per bocca del suo direttore per l’Europa Hans Kluge).

Per la verità, i numeri lo dicevano anche il giorno prima, e quello prima ancora, e anche il mese prima, e anche l’anno prima: lo dicevano perfino prima che arrivassero i vaccini e, per vero, perfino prima ancora che esistessero (la OMS invece non lo diceva, ma tanto quel che dice la OMS vale meno di zero: e anche questo lo dicono i numeri, visto che fin qui non ne ha mai azzeccata una). Giannini sostiene di averlo detto anche lui fin dall’inizio «in diretta tv all’allora premier Conte» e poi «ribadito più volte al Ministro della Salute Speranza». Sarà (non guardo molto le trasmissioni sul virus perché servono solo ad alimentare la confusione), ma quel che è certo è che finora non l’aveva mai scritto sul quotidiano da lui diretto, né l’aveva mai fatto nessuno dei suoi collaboratori, tranne Sorgi in un breve articolo del 31 agosto.

Siccome è chiaro ormai da tempo che sul Covid i grandi giornali e le grandi televisioni spalleggiano sempre i governi e si muovono all’unisono con essi, una simile inversione di rotta da parte del quotidiano che più spazio ha dedicato al dibattito sul Green Pass, ma sempre ribadendo che la linea ufficiale del giornale era di totale sostegno, rappresenta un chiaro segnale che qualcosa è cambiato. E infatti solo tre giorni dopo Draghi, dopo avere anche lui elogiato gli italiani per i (presunti) straordinari risultati ottenuti, ha annunciato il Super Green Pass, accompagnato dall’introduzione dell’obbligo vaccinale per diverse categorie professionali, per alcune delle quali, come i dipendenti pubblici, non si vede la ragione di tale regime differenziato. Solo un’altra settimana e ha cominciato a parlarne pure la Von Der Layen. La strada sembra dunque segnata.

L’impressione è però che ci si voglia avvicinare gradualmente all’obbligo generalizzato, da una parte rendendo obbligatorio il Green Pass (e quindi, di fatto, il vaccino) per fare qualsiasi cosa e dall’altra ampliando progressivamente le categorie sottoposte anche all’obbligo formale, in modo che alla fine quest’ultimo tocchi il minor numero possibile di persone non vaccinate. E pazienza se, così facendo, si dimentica ancora una volta che «la legge fondamentale dell’epidemia è una sola: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti» (Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, p. 21).

Il rischio più grave (che a questo punto è quasi una certezza) è però che il Green Pass diventi lo strumento per gestire anche la vaccinazione obbligatoria, benché ciò non abbia alcun senso, dato che, come già detto, la sua vera funzione è quella di essere un obbligo vaccinale camuffato, mentre la sua efficacia come strumento di prevenzione è pressoché nulla. Il problema è che in questo modo si rischia di renderlo permanente, soprattutto se l’evoluzione del virus rendesse necessari periodici richiami o aggiornamenti del vaccino, come succede con l’influenza. E una volta che la gente si sia abituata, inevitabilmente a qualcuno verrà in mente di usare il Green Pass anche per monitorare qualcos’altro e poi qualcos’altro ancora, aumentando sempre più l’invadenza, già ora intollerabile, dello Stato nella vita delle persone.

Sia chiaro che non penso che tutto ciò sia frutto di un piano elaborato a tavolino, anche perché se c’è una cosa che le nostre classi dirigenti hanno dimostrato in tutta questa vicenda è la loro totale incapacità di gestire un problema che tutto sommato all’inizio non era troppo complicato ed è stato reso tale soprattutto dai loro errori: figuriamoci quindi se sarebbero capaci di far funzionare cospirazioni tipo “il Grande Reset” o roba simile.

Tuttavia, è innegabile che nel nostro mondo esista una vera ossessione per la sicurezza, che ormai da tempo è arrivata a livelli di vera e propria psicosi, come si vede dal fatto che di fronte ad ogni problema si pretende sempre il “rischio zero”, benché sia una richiesta chiaramente impossibile e quindi chiaramente insensata. E la vicenda del Covid ha dimostrato che, pur mugugnando, mediamente la gente è disposta a rinunciare a parti sempre più ampie della propria libertà non solo in cambio della sicurezza, ma anche solo dell’illusione della sicurezza. Quindi il rischio vero non è che a un certo punto arrivi il Grande Fratello a imporci la sua tirannia, ma piuttosto che finiamo per autoimporcela da soli, per la convergenza tra diversi gruppi sociali (governi, burocrati, scienziati, giornalisti, cittadini, ecc.) che, pur diffidando gli uni degli altri, di fatto si muovono spontaneamente nella stessa direzione.

La cosa più inquietante, infatti, è che questo non è un fenomeno isolato. Per quanto mal gestita, prima o poi anche l’emergenza Covid finirà, come tutte le cose di questo mondo. Ma non resteremo “orfani”, perché c’è già pronta per noi un’altra emergenza: quella ecologica. Ancora una volta, non sto dicendo che tale emergenza non sia reale: lo è, ed è anche molto più seria di quella del Covid. Il problema è come verrà gestita: e ancora una volta i segnali che stanno arrivando non sono incoraggianti e ancora una volta vengono dall’Italia.

Solo qualche settimana fa, infatti, precisamente il 7 novembre, durante gli inconcludenti lavori della COP26, di fronte al «bla bla, bla» di Greta Thunberg e alle sue accuse ai politici ivi presenti di «non rappresentare nessuno», il nostro Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha replicato che il suo atteggiamento era «ipocrita» ed «eversivo» (o, secondo altre versioni, «quasi eversivo», ma la sostanza non cambia).

Ora, io non ho mai avuto nessuna particolare simpatia per Greta e meno ancora per il “gretinismo”, cioè la grottesca sceneggiata (questa sì veramente ipocrita) che ha visto per oltre due anni molti dei principali leader della Terra sottoporre le loro proposte ambientaliste al vaglio della ragazzina svedese, felici e contenti di essere da lei giudicati, benché ovviamente non avesse alcuna competenza per valutarle, salvo poi scaricarla (com’era ampiamente prevedibile) quando la sceneggiata suddetta non faceva più comodo. Ma molto, molto più grave è affermare che criticare i governi è “eversivo”, tanto più se tale sconcertante affermazione, degna in tutto e per tutto di uno Stato totalitario, viene rivolta dal ministro di uno dei paesi più potenti del mondo (ché tale è ancora, nonostante tutto, l’Italia) a una ragazzina di appena 18 anni.

E ancor più grave è che questa intollerabile intimidazione sia passata praticamente sotto silenzio, soprattutto se la confrontiamo con le interminabili risse scatenate da frasi infinitamente più innocue pronunciate da persone infinitamente meno autorevoli. Provate a pensare cosa sarebbe successo se Cingolani avesse risposto: «Ma cosa volete che ne capisca una donna di questi problemi?». Essendo state violate le regole del politically correct, avremmo assistito per almeno una settimana a infuocati dibattitti sui social e a indignati editoriali sui giornali di tutto il mondo. Invece, essendo state violate “soltanto” le regole della democrazia, nessuno ha detto una parola.

È facile vedere che l’atteggiamento di Cingolani nasce dalla stessa tendenza autoritaria “emergenziale”, già emersa prima del Covid e poi consolidatasi con esso, che si giustifica sempre con la scusa che i governi non possono essere criticati perché “siamo in guerra” (prima contro la crisi economica, ora contro il virus, fra poco contro i disastri ambientali). Di conseguenza, chi critica non è uno che sta esercitando (bene o male, non è questo il punto) il suo diritto di cittadino e, prima ancora, di essere umano pensante, ma un disertore o addirittura un sabotatore, quindi, in ultima analisi, un nemico dell’umanità, dato che i governi si pongono per definizione come i difensori dell’umanità stessa.

E infatti Cingolani ha giustificato la sua incredibile sparata esattamente così: affermando che i governi «stanno lavorando» e che «ci sono delle regole, c’è la democrazia che stabilisce chi sono i rappresentanti», cioè con considerazioni che eludono (o per inconsapevolezza o intenzionalmente: e non so quale delle due sia peggio) la sostanza dei problemi. È evidente, infatti, che Greta non intendeva certo mettere in discussione la legittimità formale delle loro cariche, ma il fatto che ciò che stanno facendo corrisponda a ciò per cui i cittadini hanno conferito loro tale legittimità. Ed è altrettanto evidente che, sia vero o no, aveva tutto il diritto di dirlo.

O meglio: dovrebbe essere evidente. Ma a quanto pare non lo è più. E quando i fondamenti stessi della democrazia cessano di essere evidenti, c’è davvero da preoccuparsi.

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Paolo Musso
Paolo Musso
Roma, 13 novembre 1964. Professore associato di Filosofia Teoretica presso l'Università dell'Insubria (Varese-Como).
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