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L’economia risarcitoria

2 Settembre 2020 - di Luca Ricolfi

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Lo so che è doloroso, lo so che preferiremmo tutti non doverci pensare. Ma bisognerà pure, a un certo punto, dirci qualcosa di realistico sull’economia italiana.

Di quanto sarà la contrazione del Pil 2020 in Italia e negli altri paesi avanzati? In quanti anni torneremo ai livelli del 2019? E quanti ne occorreranno per tornare ai livelli del 2007, prima della grande recessione? Quanti posti di lavoro verranno bruciati? Come faremo a ripagare l’enorme debito aggiuntivo che stiamo contraendo con l’Unione europea e con i mercati finanziari?

A giudicare dal dibattito politico in corso, non parrebbe che i nostri governanti se ne curino troppo. Eppure il nostro futuro non dipenderà dall’esito del referendum, né da chi vincerà le elezioni regionali, né dai banchi a rotelle della Azzolina, né da quanti migranti sbarcheranno sulle nostre coste prima che i mari agitati dell’inverno mettano tutti d’accordo. Con ogni probabilità, il nostro futuro dipenderà da due cose soltanto: il successo o insuccesso della scienza nella lotta al coronavirus (vaccino e cure), e la saggezza o stoltezza delle scelte economico-sociali dei nostri governanti.

Sul primo punto, quello della scienza, siamo nel buio più totale. Potrebbe andare bene, ma anche malissimo. Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo.

Sul secondo punto, le scelte dei politici, invece qualcosa lo sappiamo. Sappiamo, ad esempio, che finora il partito dell’economia (riaprire prima possibile e convivere con il virus) è prevalso su quello della prudenza (mantenere e far rispettare le misure più severe, come il distanziamento, le mascherine, il divieto di assembramento). Quel che non tutti hanno ancora capito, invece, è quali siano i costi del prevalere del partito delle “riaperture” e delle “ripartenze”. Un costo certo e facilmente prevedibile (e di fatto previsto da molti) è l’impossibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Quando si è deciso di tenere aperte le discoteche e chiudere un occhio sugli assembramenti (movida e mezzi pubblici) si è anche scelto, al tempo stesso, di sacrificare la riapertura in sicurezza delle scuole (che non generano Pil) all’imperativo di sostenere l’industria delle vacanze e del divertimento (che un po’ di Pil lo genera). E’ inutile negarlo, o arrampicarsi sugli specchi: questo governo la sicurezza delle scuole non l’ha mai messa al primo posto, altrimenti avrebbe dato ascolto a quanti, anche nel Comitato Tecnico-Scientifico, avvertivano dei rischi.

Se il costo sociale e sanitario della incauta riapertura estiva è evidente, più controverso è un secondo costo, questa volta genuinamente economico. E’ certo che la linea permissiva su viaggi, spiagge, discoteche, movide, vaporetti, autobus, treni, ha generato benefici economici, o se preferite ha contribuito a contenere i danni. Ma non è affatto certo che tali benefici siano maggiori dei danni che, nei prossimi mesi, inevitabilmente deriveranno all’economia dalla moltiplicazione dei focolai e da nuovi lockdown. Se i costi autunnali (nuovi focolai) dovessero risultare superiori ai benefici estivi (più turismo), al danno inferto alla scuola si aggiungerebbe la beffa di aver danneggiato pure l’economia.

Ma torniamo alle domande sull’economia. Le stime più recenti assegnano all’Italia l’ultimo posto nella graduatoria del Pil 2020, con una caduta che potrebbe risultare più vicina al 15% che al 10%. Quanto al futuro, neppure per l’Europa nel suo insieme si attende un ritorno ai livelli del 2019 prima del 2023.

E per l’Italia che cosa è ragionevole attendersi?

Difficile dire che cosa succederà a noi, perché molto dipenderà dall’esito della guerra al virus. Però non è difficile immaginare che cosa faranno loro, i nostri governanti. Lo scenario più verosimile è che continuino sulla linea seguita fin qui, che ha avuto il dono della coerenza, sia sul piano dei provvedimenti economico-sociali che su quello della filosofia che li sorregge.

La logica dei provvedimenti è stata chiara. Distribuire soldi a pioggia (e con ritardo), più per sostenere i consumi che per tutelare i produttori di reddito. Agire come se le risorse che l’Europa e i mercati finanziari ci hanno permesso di spendere fossero a fondo perduto, anziché prestiti da restituire. Congelare tutto con la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, per spostare il più avanti possibile nel tempo (e comunque dopo le elezioni di settembre-ottobre) il momento della resa dei conti, quando tutti potranno vedere a occhio nudo le macerie, fatte di chiusure, fallimenti e posti di lavoro distrutti.

Si potrebbe riassumere tutto ciò con la consueta accusa di assistenzialismo, un male che ormai ha contagiato quasi tutta la politica. Ma sarebbe riduttivo e semplificatorio, a mio parere. Quello che è emerso, in questi mesi, è qualcosa di più radicale e più pericoloso. La filosofia che ha mosso la politica, e che ha catturato il consenso degli italiani, non è basata sulla vecchia (e nobile) idea che i più deboli debbano essere assistiti, sussidiati, aiutati. No, l’idea che si è imposta in questi mesi è che nessuno dovesse perdere alcunché, e che tutti avessero diritto a un risarcimento. Il sostengo indiscriminato ai redditi e ai consumi, dal bonus vacanze al super-bonus per le ristrutturazioni energetiche, dal bonus monopattino a quello per le partite Iva (intascato da alcuni parlamentari!), non poggiavano solo sulla credenza che il motore della ripresa non potessero che essere i consumi, ma anche su una sorta di dottrina o filosofia del risarcimento. Colpiti nei redditi e repressi nelle abitudini di vita, gli italiani sono stati ritenuti degni di risarcimento su tutta la linea. Così abbiamo sentito non solo promettere l’impossibile (“nessuno perderà il suo lavoro”), ma anche garantire diritti per così dire esistenziali, come quelli al divertimento e alle vacanze senza restrizioni, che i due mesi di lockdown hanno reso sacrosanti come altri e più antichi valori della nostra tradizione politica e civile.

Quel che è sfuggito, e tuttora sfugge ai cultori dell’economia del risarcimento, è la differenza tra un terremoto locale e una guerra. Quando c’è un terremoto, è logico e realistico che la comunità colpita chieda alla comunità più ampia di aiutarla, risarcendola più o meno integralmente delle perdite subite. La stessa logica, purtroppo, non si applica nel caso di una guerra, che produce perdite generalizzate che nessuno Stato centrale è in grado di ripianare. E infatti, in una guerra, nessuno pensa in termini di risarcimenti, o pretende che lo Stato ricostruisca celermente la sua abitazione distrutta da un bombardamento.

Ora, il punto cruciale è che quella contro il Covid è una guerra che stiamo perdendo, e che comunque – anche se domani dovessimo trovare un vaccino – ci lascerà tutti molto meno ricchi di prima. Quella italiana era, fino a ieri, una “società signorile di massa” in lento declino. Oggi è una società che, improvvisamente, si trova a non poter conservare il proprio tenore di vita passato, ma non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e prendere atto del cambiamento, preferendo cullarsi nell’illusione che ogni cosa possa presto tornare come prima. La filosofia risarcitoria che tutto e tutti pervade ci sta conducendo a diventare una società parassita di massa, in cui allo Stato viene chiesto di sostenere il reddito di chi non produce nulla, ma non di ripagare i debiti che a questo scopo è costretto a fare.

Si potrebbe pensare che la colpa sia di questo governo, e che un governo diverso farebbe cose sostanzialmente diverse. Ma anche questa è un’illusione. L’opposizione politica è leggermente meno assistenzialista di chi ci governa, ma non è di un’altra pasta. Il copyright di “quota cento” è della Lega, e l’ossessione per la riapertura è ancor più forte fra gli esponenti dell’opposizione che fra quelli di governo.

La realtà è quella di sempre: gli italiani hanno la classe politica che si meritano. I politici fanno molti errori, che saranno evidenti fra vent’anni e nei libri di storia del futuro. Ma se sbagliano è, prima di tutto, perché inseguono le nostre illusioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 agosto 2020

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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